Undici pianeti
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L’istinto di Caino
“Concedete tempo alla terra ed essa dirà la verità, tutta la verità/ su di voi,/ su di noi,/ su di noi,/ e su di voi!” (da “Penultimo discorso del «pellerossa» all’uomo bianco”)
La memoria, l’esilio, la poesia che si fa nuova patria e casa comune per tutti coloro che hanno perduto la propria terra sono i cardini attorno a cui ruotano i versi del poeta arabo Mahmud Darwish (1941-2008) che, anche in queste preziose e toccanti pagine, riconferma il suo ruolo di grande, grandissimo, straordinario cantore della diaspora palestinese.
Pubblicata nel 1992, la silloge “Undici pianeti” (Editoriale Jouvence, 2018, isbn 9788878016040, pagg. 85, € 8,00) include, in verità, diverse singole raccolte poetiche, una più bella dell’altra, tutte di rara intensità, dove la voce del poeta attraversa i confini dello spazio e del tempo, in un intreccio continuo, portando il peso delle cicatrici della Storia. Se il titolo dell’opera fa riferimento a un episodio della vicenda del “sumero nostro fratello” Giuseppe, figlio di Giacobbe, al quale è dedicata una sura del Corano, ritornando così indietro in modo particolarmente suggestivo a una dimensione temporale che potremmo definire “biblica”, tuttavia l’epoca in cui Darwish trasporta il lettore è anzitutto quella del 1492, anno cruciale diventato simbolo non soltanto della scoperta dell’America, ma persino della caduta di Granada in Andalusia e del conseguente completamento della Reconquista cristiana dopo oltre settecento anni di presenza islamica nella penisola iberica.
“[…] Castiglia innalzerà la sua corona/ sui minareti di Dio. Ascolto il tintinnare delle chiavi/ nella porta dorata della nostra Storia, e saluto il nostro passato./ Sarò io a chiudere l’ultima porta del cielo? Io sono l’ultimo sospiro dell’Arabo.”
“Undici pianeti sull’ultima scena andalusa”, meraviglioso e tragico incipit di questa raccolta, riporta in scena con coinvolgenti versi di profondo dolore la cacciata degli arabi dall’Eden perduto di al-Andalus, dove si lasciò il cuore e un luminoso passato per avviarsi invece lungo i sentieri di un oscuro presente di erranza al suono dei violini che piangono suggellando l’irrevocabile addio. Sembra di vederle, di sentirle, quelle masse di esuli in marcia tra cui, nel 1492, vi erano anche gli ebrei, gli stessi che, a distanza di secoli, nonostante la condivisione di un destino tanto greve, in Palestina si arrogheranno il diritto di confinare gli arabi nello status disumanizzante di stranieri destinati a un nuovo esilio. La Storia, è noto, si ripete e chi un tempo era vittima si reinventa carnefice ai danni dei propri fratelli. Come il poeta ammette amaramente nel canto di chiusura “Un cavallo per lo straniero”, l’umanità è unita soltanto “dall’istinto di Caino”: lo hanno imparato anche gli indiani d’America, sulla propria pelle, allorché l’uomo bianco, portatore di una civilizzazione rapace, li privò della terrà, imponendo loro l’umiliazione delle riserve.
“Signore dei bianchi, dove stai portando il mio popolo… e il tuo?/ […] Verso quale immenso inferno state ascendendo?”, risuona struggente nel “Penultimo discorso del «pellerossa» all’uomo bianco”; anche in questo caso non sfugge il parallelismo con quanto è avvenuto, e avviene, in Palestina a opera di Israele, popolo al quale Darwish chiede di non seppellire Dio “nei libri che vi promettono una terra sulla nostra terra” né di uccidere il passato arabo poiché “Non troverete quiete con i nostri fantasmi nelle spoglie notti d’inverno”.
Tutto ciò non viene meno neanche nei canti intitolati “Una pietra cananea nel Mar Morto”, “Sceglieremo Sofocle” e “L’inverno di Rita”, sebbene quest’ultimo prenda le mosse da un fatto privato dell’autore.
Un grande poema del nostro tempo, questo di Mahmud Darwish, un canto corale intriso di lacrime e sangue che spazia dall’Andalusia, passando per le terre violate dei nativi americani, fino all’Iraq della prima guerra del Golfo. Pagine intense che lottano brandendo la sola arma offerta dalle parole a favore degli sconfitti, delle vittime, degli esuli, contro i crimini di ogni tempo e luogo, perché se è vero che “sulla terra non è rimasta alcuna possibilità per la poesia”, tra i versi di quest’ultima è però ancora possibile resistere e combattere, nonché ritrovare le tante patrie perdute. Un’opera imprescindibile sia nell’ambito della produzione letteraria del poeta di al-Birwa sia, più in generale, in quello della poesia araba contemporanea.
Un rinnovato plauso, dunque, alla Casa Editrice milanese Jouvence per la sua particolare attenzione alle pubblicazioni di autori arabi, così come un sentito ringraziamento a Silvia Moresi, già cotraduttrice de “Le mie poesie più belle” di Nizar Qabbani (Jouvence, 2016) per il suo prezioso e accuratissimo lavoro di traduzione che stavolta rende accessibile ai lettori italiani la splendida poesia del mai dimenticato Mahmud Darwish.