Le mie poesie più belle
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“L’amore nel mondo arabo è prigioniero..."
“L’amore nel mondo arabo è prigioniero e io voglio liberarlo.” (Nizar Qabbani)
Versi appassionati e appassionanti, espliciti e carnali, impudichi e, a seconda dei giudizi, forse addirittura sconci: è la poesia di Nizar Qabbani, uno tra i più grandi e osannati poeti arabi contemporanei. Siriano di Damasco, Qabbani è morto nel 1998 a Londra, dopo una vita trascorsa in giro per il mondo, divisa tra carriera diplomatica e attività poetica. Le sue parole riecheggiano ancora oggi nelle canzoni di diversi artisti, da Umm Kulthum fino alla musica pop del momento. Io stessa, dopo che una mia conoscenza libanese me ne aveva parlato per la prima volta, ho iniziato a scoprire questo poeta attraverso Kadhem al-Sahir, raffinato cantante iracheno che amo molto.
Ma i versi di Qabbani continuano a risuonare pure per le strade di Beirut, del Cairo e di altre città dell’Oriente ormai perduto e ferito, nelle aspirazioni frustrate delle masse, nel disagio femminile che attraversa come una frattura profonda le società arabe, nelle lettere degli amanti… Perché lui ha dato speranza a chi si nutriva di amarezza, voce a chi non l’aveva e, come si era proposto, ha liberato quell’amore inteso come intreccio indissolubile di sentimento ed erotismo per nulla sconosciuto al mondo arabo. Nei suoi testi si sono rispecchiate intere generazioni di giovani ingabbiate nella bigotta rigidità delle diverse realtà islamiche, anche di quelle in apparenza più aperte.
“L’amore non è un romanzo orientale
dove gli eroi si sposano… alla fine.
L’amore è salpare senza una nave
e sentire che non esiste approdo.
L’amore è un fremito che rimane sulle dita,
una domanda sulle labbra sigillate.
L’amore è il fiume di nostalgia nel nostro profondo
dove crescono vigneti e grano.
[…]
L’amore è il nostro ribellarci per piccole e insignificanti
cose,
è la nostra disperazione, il nostro dubbio assassino.
L’amore è questa mano… che mentre ci uccide…
noi baciamo.”
(da “A una alunna”)
Le donne, in particolare, sono al centro della sua poesia. A loro, creature pressoché invisibili e confinate al tormentato grigiore dello spazio domestico, dà la parola in modo giudicato eversivo, trattando per primo in poesia temi tabù quali aborto e prostituzione. Ma la penna di Qabbani va oltre, sbirciando attraverso la porta socchiusa di un’alcova dove si consuma un rapporto omosessuale femminile; e lo fa con una schiettezza e naturalezza disarmanti “perché” – lui scrive – “per l’amore non c’è spiegazione”:
“La stanza è in disordine,
gioielli sparsi, seta che si leva,
e un bottone che pigramente lascia l’occhiello.
La notte è l’alba di una lupa che allatta la sua lupa.
La mano che fruga… e invade,
il lenzuolo che fugge,
l’una lo avvicina, e l’altra riposa.
È una conversazione tra quattro seni,
un bisbiglio… […]”
(da “Poesia maligna”)
Un grato plauso ai traduttori e alla casa editrice milanese Jouvence per aver fatto conoscere in Italia questa splendida raccolta che lo stesso Nizar Qabbani predispose all’inizio degli anni Settanta, inserendovi appunto le sue “poesie più belle, quei testi-chiave che fino ad allora, in molti casi, la critica aveva spesso e volentieri bollato come sconci e provocatori. Sfidare le convenzioni e il perbenismo ipocrita era evidentemente una sfida troppo appagante a cui il poeta non poteva né voleva rinunciare, mentre i giovani lo leggevano di nascosto o pubblicamente in barba a ogni possibile imbarazzo sociale.
“Sii il mio mare e il mio porto, la mia patria è il mio esilio,
sii siccità e diluvio,
sii la dolcezza e la durezza.
Amami in mille modi,
[…]
Amami… e dimmelo!
Detesto essere amato senza voce,
detesto seppellire l’amore in una tomba di silenzio.
Amami…
Lontano dalla terra della repressione,
lontano dalla nostra città sazia di morte,
[…]
perché l’amore non la visita da quando esiste,
e Dio lì non è più tornato.
Spogliati…
e lascia cadere la pioggia sulla mia sete.
Consumati come cera nella mia bocca
e impastati con ogni mia parte…”
(da “Poesia selvaggia”)
Ci si emoziona perdendosi non soltanto tra i versi d’amore spudoratamente fisico, ma anche tra quelli ben più casti di “Cinque lettere a mia madre”, “Se tu fossi stata a Madrid” e “Granada”, poesia, quest’ultima, in cui negli occhi profondi di una donna di araba ascendenza (ricordiamoci dell’Andalusia arabo-islamica, ben sette secoli di Storia!) ancora si scorge la grandezza di una civiltà passata. Ne “Il pane, l’hashish e la luna”, con cui si conclude la silloge, il poeta esprime invece una dura condanna dei popoli musulmani assuefatti alla religione come a una droga:
“Essi stendono preziosi tappeti,
si consolano con l’oppio
che noi chiamiamo
destino e fato…
[…]
Nelle notti d’Oriente,
quando sorge la luna piena,
l’Oriente si spoglia di tutto il suo onore
e della sua voglia di combattere…
Quei milioni che corrono scalzi,
che credono alle quattro mogli
e nel giorno del giudizio,
quei milioni
che non vedono il pane… se non nei sogni,
[…]”
(da “Il pane, l’hashish e la luna”)
Parole scritte decenni fa, tuttavia sempre valide se si pensa al mondo arabo odierno e al suo fatalismo, a quell’ “in sha’ Allah” (“se Dio vuole”) che masse di diseredati continuano a ripetere come una vecchia nenia stonata che talvolta fa davvero arrabbiare, confidando ingenuamente nell’intervento misericordioso di un Dio che dovrebbe vedere e provvedere in ogni caso, anche quando non si smette di sfornare figli uno dopo l’altro pur non avendo di che sfamarsi… E intanto quella stessa entità superiore, che potremmo chiamare anche destino, li ha abbandonati a regimi corrotti e a tagliagole nostalgici di improbabili califfati, nonché al martirio di guerre interminabili.
C’è tanto, tantissimo in queste intense bellissime pagine di Nizar Qabbani, non ultima la struggente tristezza del poeta. Nessuna meraviglia: del resto, non scriveva forse Jibran Khalil Jibran, altro grande autore arabo, nel suo racconto “Le ali spezzate”, che “[…] i poeti sono persone infelici poiché, per quanto il loro spirito si elevi, saranno sempre racchiusi in un involucro di lacrime”?