Poesia Poesia italiana Sonetti di Giuseppe Gioachino Belli
 

Sonetti di Giuseppe Gioachino Belli Sonetti di Giuseppe Gioachino Belli

Sonetti di Giuseppe Gioachino Belli

Letteratura italiana

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Nei Sonetti l'arte di Giuseppe Gioachino Belli raggiunge vertici di altissima poesia tragica e grottesca. L'autore dipinge un drammatico e dissacratorio affresco della Roma del suo tempo: la satira belliana colpisce sia i detentori del potere e dei privilegi - il clero e la nobiltà corrotti e prepotenti, il loro malgoverno -, sia la plebe rozza, vittima della sopraffazione dei ricchi, cui è vietata ogni speranza di miglioramento. Vengono qui presentati cinquecento sonetti, scelti fra gli oltre duemila che Belli scrisse in romanesco, corredati dall'importante commento di Giorgio Vigolo, che ha segnato una svolta storica negli studi sul grande poeta.



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Sonetti di Giuseppe Gioachino Belli 2018-04-03 15:49:24 Laura V.
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    03 Aprile, 2018
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“E l’ommini accusì viveno ar monno…”

È la Roma papalina della prima metà dell’Ottocento, quella immortalata nei sonetti di Giuseppe Gioachino Belli: popolani e nobili, servi e padroni, pontefici, cardinali e monsignori, preti, fraticelli, padri confessori, boia, meretrici, ebrei del Ghetto, santi e dannati, giacobini e carbonari.
Un grande affresco di cui ogni singolo sonetto costituisce un colorato vivacissimo quadretto, dove risuonano non soltanto preghiere in processione e benedizioni papali, ma anche (e soprattutto) imprecazioni, volgarità e schietto vociare di piazze e mercati dell’Urbe. Per chi, come me, non è madrelingua, il romanesco del Belli potrebbe non risultare a tratti troppo scorrevole, al contrario di quello di Trilussa, ma di certo è sempre spassoso. L’autore, acuto osservatore e testimone del suo tempo, non risparmia niente e nessuno, puntando il dito contro la corruzione morale e materiale insita anzitutto nel clero fino al massimo vertice; nei suoi sonetti, irriverenti, dissacranti, licenziosi, a loro modo filosofeggianti, a parlare sono per lo più popolani d’ogni risma che riflettono su come va il mondo e le ingiustizie della vita, senza lesinare un pensiero nemmeno a chi occupa il soglio di san Pietro…

La vita der Papa

Io Papa?! Papa io?! fussi cojjone!
Sai quant’è mejo a ffà lo scarpinello?
Io vojo vive a modo mio, fratello,
e no a modo de tutte le nazzione.

Lèveje a un omo er gusto de l’ucello,
inchiodeje le chiappe s’un zedione,
mànnelo a spasso sempre in pricissione
e co le guardie a vista a lo sportello.

Chiudeje l’osteria, nègheje er gioco,
fàllo sempre campà co la pavura
der barbiere, der medico e der coco:

E’ vvita da fà gola e llusingatte?
Pe mé, inzin che nun vado in zepportura,
maggno un tozzo e arittoppo le ciavatte.

16 novembre 1833

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Sonetti di Giuseppe Gioachino Belli 2013-02-25 10:53:21 vitolorenzodioguardi
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vitolorenzodioguardi Opinione inserita da vitolorenzodioguardi    25 Febbraio, 2013
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La parola a chi non ha voce!

I Sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli sono un capolavoro poetico eccezionale. Il loro respiro, che parte dai rioni vecchi, dai vicoli scuri della città papalina di metà Ottocento, arieggia fino a disquisire di morale, leggi, teologia e bibbia e delle cose del mondo in genere.

Belli ci trasporta in una Roma in cui il Papa , i cardinali, i nobili, i paini, le mignotte, le serve, le padrone eccetera, sono sì diversi per carattere e per costumi, ma appartengono tutti all'unica commedia umana della vita sullo sfondo entusiasmante della Città Eterna.

Il personaggio narrante è un "io popolare", com'era Belli, nato in una umile casa alle spalle di Largo Argentina e nei pressi di Piazza Navona, da una famiglia fedele al Papa.
E sebbene egli dia voce ai popolani, al popolo di Roma, erede di una ricchezza linguistica databile a molto tempo prima, continuatore di atteggiamento da rugantino degni degli antichi romani, nonostante tutto è un popolo succube e rassegnato, cinico e utilitarista, anche se non domo e non piegato. Alla fine, l'ultima parola è la sua. La parola di Pasquino, il gusto della battuta.
Nei versi di Belli rivive quella Roma e sembrerà, al lettore, di trovarsi in mezzo alle battute salaci dei popolani che commentano come passa le giornate il Papa, quale sia il vizio di quella nobildonna o cosa rincresce a quel tale... Tutto nel teatro belliano di maschere che se allegre sono smargiasse e volgari ma sincere, se tristi sono pessimiste (come l'autore- si pensi a Er caffettiere filosofo o La fine der monno) ma dense anche di un'autentica fede religiosa che si poggia saldamente (e al di là delle vulgate superstiziose dei popolani e delle ribalderie incivili della Curia) al Cielo.

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Straconsigliato a chi ami la letteratura dialettale e la romanità, Trilussa, Porta...
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