Il tocco abarico del dubbio
Letteratura italiana
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L’importanza del dubbio
Mi sia consentita una doverosa, ma anche opportuna premessa: quando ho avuto per le mani questo libro, mi sono subito chiesto che cosa potesse avere a che fare con la poesia un termine geografico come “abarico”. Per chi non lo sapesse, onde anche evitare una sua ricerca su un dizionario, per abarico si intende quella zona in cui le forze di gravitazione della terra e della luna si annullano, generando il cosiddetto punto zero. Lì, in campo neutro si potrebbe dire, si inserisce il dubbio, che non porta né alla verità, né alla menzogna, ma che ha il pregio non indifferente di mettere in discussione tanti concetti atavici precostituiti, stimolando una ricerca di conoscenza che porta gradualmente a una maggiore consapevolezza di ciò che siamo. Il dubbio quindi non è un elemento negativo, anzi si potrebbe dire che senza di esso l’evoluzione umana non sarebbe stata possibile; l’unico vero problema è che come si procede nella ricerca della conoscenza, sanando tanti dubbi, ne intervengono anche di nuovi.
La limitata condizione dell’essere umano, la temporaneità della vita sono tutti fattori che portano alla crescita dei dubbi, ma del resto non oso nemmeno immaginare come potrebbe essere un’esistenza fatta di certezze acclarate e dimostrabili; con ogni probabilità sarebbe del tutto piatta, grigia e monotona.
Nel leggere i versi delle belle poesie che compongono questa silloge emergono i dubbi dell’autore, dubbi relativi a quelle che credevamo certezze e invece non lo sono, dubbi legati alle aspettative ultime degli esseri umani (che ci sarà dopo la morte?) e anche dubbi sul come abbiamo impostato la nostra esistenza, sulla nostra limitata scelta di un ruolo che è soprattutto determinato dalle convinzioni della società in cui viviamo.
Sostanzialmente la silloge è strutturata in cinque sezioni, ognuna delle quali è preceduta da una breve prosa poetica, una sorta quasi di introduzione; in queste sezioni vengono trattati i tanti temi dell’esistenza, che riguardano tutti e che perciò prima o poi dobbiamo affrontare.
Di particolare ricerca è poi l’uso dei termini nelle varie poesie (verbi, sostantivo, aggettivi) sovente inconsueti, tanto che sembrano, anche se non lo sono, inventati, del tipo sgamare, bercio, valva, ecc. Non sono messi lì per dimostrare il grado di erudizione dell’autore, ma sono quelli più appropriati per giungere a esprimere concetti in aura poetica, vale a dire per accompagnarli dalla indispensabile armonia, e a proposito di questa il ritmo è necessariamente lento e per assimilarlo a un termine musicale potrebbe essere definito un adagio maestoso; d’altra parte questa studiata lentezza è quanto mai opportuna perché questa è poesia di meditazione, perché sono liriche, che nel portare il sentire di Angela Caccia, invogliamo a riflettere, vengono a toccare i nostri dubbi, portano a un necessario confronto e, soprattutto, mettono in discussione alcune nostre certezze. Ora qualcuno potrà anche pensare che non ha senso leggere una simile poesia, se conduce a un superlavoro di meningi, al che obbietterei che l’intelligenza non è materia inerte, ma è fatta per essere esercitata e che la conoscenza di noi non solo non è mai superflua, ma è addirittura indispensabile.
Fra l’altro, se poi è della morte e sul dopo soprattutto che si parla, credo che in materia un confronto di opinioni, per quanto lontanissimo dall’essere risolutivo (con ogni probabilità non lo sarà mai), ci possa condurre però ad accettarla come una fase di un’esistenza che si avvia con la nascita e finisce con la dipartita. Non si troverà la soluzione se c’è sicuramente un dopo, ma senz’altro, con l’accettazione di un termine, si darà più valore alla vita, si cercheranno di riconoscere e di cogliere le tante opportunità che essa ci offre. Nulla deve andare sprecato e solo allora, cioè quando potremo dire di aver vissuto pienamente, quel salto nel buio ci farà meno paura, che siamo o no credenti.
Da leggere, ci mancherebbe altro.