Adelchi
Letteratura italiana
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L'Italia tra longobardi e franchi
Italia, seconda metà dell'VIII secolo. Il regno longobardo giunge al capolinea e, sotto i due sovrani Desiderio e suo figlio Adelchi, sta per esalare ormai l'ultimo respiro a causa dei contrasti insanabili con il re dei franchi Carlo Magno; quest'ultimo non soltanto si è fatto tradizionalmente sostenitore del papa che reclama terre ora in mano ai longobardi, ma ha per di più ripudiato la moglie Ermengarda, figlia dello stesso re Desiderio, la quale, infelice, viene rispedita come un pacco alla corte paterna nella città di Pavia, capitale indiscussa del loro regno. A tutto ciò si aggiunga il fatto che la vedova e i due giovanissimi figli del fratello minore di Carlo, Carlomanno, avevano trovato ospitalità proprio lungo le sponde del Ticino, sotto l'ala protettiva di Desiderio e famiglia che forse miravano a far incoronare con tutti i crismi dal sommo pontefice i due ragazzini ai danni dello zio Carlo. Insomma, brama di potere e fredde logiche di dominio sono alla base della guerra che, a un certo punto, non può che esplodere tra franchi e longobardi.
Pubblicato nel 1822 e portato in scena per la prima volta a Torino a distanza di poco più di vent'anni, il testo teatrale “Adelchi” racconta tali vicende con originalità e alcune "libertà" rispetto alla versione storica ufficiale. Alessandro Manzoni, in queste sue pagine, dà vita a un notevole intreccio di fatti e personaggi che, per quanto collocabile senza dubbio in un passato ben lontano, si presta probabilmente anche a una lettura in linea con l'attualità del tempo, cioè dell'epoca dell'autore, quando una parte d'Italia stava sotto il dominio asburgico; i temi della patria “calpesta e derisa” e dell'occupante straniero, non a caso, non sembrano essere per nulla estranei all'opera in questione, tant'è che in più di una nota a margine del testo ho letto di interventi da parte della censura austriaca (non si dimentichi che quello del 1820-1821, proprio mentre il Manzoni procedeva con la stesura dell' “Adelchi”, fu un periodo delicato in Europa in generale e pure in alcuni stati italiani per quanto riguarda moti e tentativi di insurrezione).
In tal senso, il coro alla fine del terzo atto, si rivela piuttosto esplicito: il popolo dei latini, ridotto a misera condizione servile sotto i longobardi, non avrebbe dovuto farsi illusioni in merito alla vittoria dei franchi su questi ultimi poiché gli oppressori, infine, sarebbero stati due:
“[...] Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l'antico,
L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D'un volgo disperso che nome non ha.”
Quello del protagonista si rivela un personaggio ben riuscito: generoso, timorato di Dio, nobile e mite d'animo, sebbene dichiari intenzioni decisamente poco cordiali nei confronti del cognato “vile offensor d'Ermengarda”, sua sorella che, distrutta dal dolore, morirà di lì a breve nel monastero di San Salvatore a Brescia, dove viveva la sorella monaca Ansberga. Nei confronti dei due sfortunati fratelli, andati incontro a un drammatico destino, l'autore posa uno sguardo compassionevole che sembra riconsiderare almeno in parte la loro "colpa" di discendere da “rea progenie degli oppressori” (i longobardi), come viene messo in bocca al famoso coro del quarto atto (“Sparsa le trecce morbide...”).
Le scene conclusive del quinto e ultimo atto della tragedia sono alquanto significative: colpito a morte e ormai prossimo alla prematura dipartita, Adelchi viene condotto nella tenda di Carlo sotto Verona, dove rivede per l'ultima volta il padre Desiderio ormai sconfitto e prigioniero. Si compie, dunque, quanto lo stesso giovane ha tempo addietro profetizzato per se stesso:
“La gloria? il mio
Destino è d'agognarla, e di morire
Senza averla gustata. [...]”
Nemmeno l'Adelchi reale personaggio storico, che pare abbia finito i suoi giorni a Costantinopoli almeno una quindicina d'anni dopo la caduta di Pavia e Verona, gusterà la vera gloria prima di morire.
Nel complesso, un'opera importante che ha riscosso un apprezzamento unanime da parte della critica. Per quanto mi riguarda, sarò sincera: ne ho trovato la lettura piuttosto pesante; per di più, le note nell'edizione che ho avuto a disposizione (un volumetto della casa editrice Signorelli dei primi anni Ottanta) sono state riportate in caratteri quasi microscopici, cosa che, pertanto, non mi ha certo alleggerito il lavoro. Insomma, ho faticato a giungere alle battute finali. Tuttavia, consiglio di non tralasciare questo testo, anzitutto per il fatto di poter così rinfrescare e approfondire quel capitolo importante di storia che interessò la penisola, in riferimento particolarmente al dominio dei longobardi.