Vicino al cuore selvaggio
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VISIONS OF JO(H)AN(N)A
“E fu tanto corpo da essere puro spirito. Immateriale, attraversava gli avvenimenti e le ore, scivolandovi in mezzo con la leggerezza di un istante.”
Cosa ha in comune Clarice Lispector con Mary Shelley, la creatrice del celebre “Frankenstein”? E “Vicino al cuore selvaggio” con “Altre voci, altre stanze” di Truman Capote o “I Buddenbrook” di Thomas Mann? La risposta, al di là dell’apparente eterogeneità degli accostamenti, è abbastanza semplice. Stiamo parlando di alcuni degli scrittori più precoci della storia della letteratura mondiale e dei loro insigni romanzi d’esordio. Clarice Lispector ha infatti pubblicato “Vicino al cuore selvaggio” a soli ventitré anni, ma la scrittura del libro risale addirittura all’anno precedente, e la sua ideazione è ancora anteriore. Sorprendentemente, l’opera con cui la Lispector si è affacciata nel 1943 nel panorama letterario brasiliano non ha nulla del debutto giovanilmente acerbo, ma rivela al contrario un’inoppugnabile e stupefacente maturità. Il magistero stilistico dell’autrice, la sua padronanza del linguaggio e dell’elaborazione poetica delle immagini, sono talmente elevati che non a caso è stata definita dalla critica la “Woolf amazzonica”. Mi ero ripromesso di non utilizzare nella mia recensione il riferimento a Virginia Woolf, ritenendolo troppo ovvio e scontato, un cliché quasi. Il paragone è però a tal punto calzante che alla fine non ho potuto esimermi dal proporlo. Frasi come “Mi sento sparsa nell’aria, penso dentro le creature, vivo nelle cose al di là di me stessa”, oppure “Le parve di sentire avvicinarsi sordamente da lontano il fragore della vita, densa, copiosa e violenta, le onde alte che squarciavano il cielo e che si avvicinavano, si avvicinavano... per sommergerla, per sommergerla, per affogarla asfissiandola”, sembrano proprio uscite dalla testa della Rhoda de “Le onde”. Pare quasi impossibile che la Lispector – come lei ha più volte affermato – non avesse mai letto prima la Woolf, tanto affine appare la loro sovrumana sensibilità artistica, quel comune, miracoloso “chiudere gli occhi e sentire l’ispirazione rotolar giù come una cascata bianca”, quel medesimo inanellare “parole pure come gocce di cristallo”; ma la letteratura – a quanto pare – è piena di questi insondabili misteri, della telepatica somiglianza che unisce tra loro geni appartenenti a epoche e culture diverse, permettendo a volte – come in questo caso – di realizzare una sorta di ideale, ancorché involontario, passaggio di testimone spirituale.
La protagonista di “Vicino al cuore selvaggio”, Joana, è una donna dotata di sensibilità estrema, quasi morbosa, che le consente di collegarsi alle cose in un rapporto esclusivo ed escludente, come attraverso impercettibili e arcani filamenti creati dalla sua rabdomantica coscienza: capace di “sentire il silenzio muoversi”, così come di domandarsi se un triangolo nasca prima come idea oppure come forma, quando cerca di immaginare “dove si nasconde la musica quando non suona” può solo concludere, vinta dalla fatale impossibilità di una risposta, “che facciano un’arpa con i miei nervi, quando sarò morta”. La Lispector ce la presenta dapprima bambina, mentre scopre stupefatta e affascinata il potere magico e demiurgico del pensiero, capace di fare addirittura esistere le cose. Il pensiero ricrea in continuazione la realtà, e questa si presenta a Joana come qualcosa di misterioso, di segreto, di ignoto, di vergine, da imparare a conoscere ogni volta come se fosse la prima. Joana si sente una persona infinita, libera e potente, in grado di “possedere ogni momento”, ma questa consapevolezza si rovescia spesso in un opposto, subitaneo sentimento di fallimento e di sconfitta, allorquando la ragazzina intuisce l’incapacità di tradurre il pensiero creatore nella realtà, anche solo di esprimerlo compiutamente in parole (“E’ curioso che non sappia dire chi sono […] perché nel momento in cui tento di parlare non solo non esprimo ciò che sento ma ciò che sento si trasforma lentamente in ciò che dico”). Crescendo e diventando adulta, Joana sperimenta così anche la parte dolorosa di quella ipertrofia del pensiero che la caratterizza e che le rende paradossalmente più difficile godere pienamente, semplicemente della vita. Non è un caso che la ragazza arrivi a provare invidia per una donna incontrata fugacemente (“la donna della voce”), dal momento che quest’ultima non è abbastanza intelligente per non capire la vita, condizione che invece la dotatissima Joana è costretta a provare a ogni istante sulla sua pelle. Il pensiero diventa per lei uno schermo, una barriera tra l’io e la realtà, impedendole un rapporto spontaneo con le cose e le persone. Fredda, raziocinante e libera (talmente libera, però, da essere estranea a tutto, perfino a se stessa), Joana si scopre un essere debole e sofferente (“la mia desolazione è profonda come un pozzo”, “la mia disperazione è asciutta come le sabbie del deserto”). Il dolore è un passo che è inevitabile accettare se si vuole tentare di afferrare il mistero della vita (quella vita che ha talvolta l’impressione che “le scorresse dentro spessa e pacifica, gorgogliando come un caldo lenzuolo di lava”), di cogliere anche solo per un attimo quello squarcio fatidico in cui “ciò che aveva già vissuto e ciò che ancora avrebbe dovuto vivere” si fondono in un “tutto confuso ed eterno”. Il problema è che così facendo, oscillando come un pendolo tra passato e futuro, il presente scompare, riducendosi a un “senza-tempo che scivola lungo le mie pareti, tortuoso e cieco”. Pur essendo sposata con un uomo, Otavio, Joana vive ripiegata nel proprio edenico passato (“ancora non si era liberata del desiderio-potere-miracolo di quand’era piccola”), che in tal modo diventa conforto e zavorra al tempo stesso. A differenza di Proust, la Lispector non ricerca affatto il tempo perduto, dal momento che il tempo, in realtà, per lei è come se si fosse fermato per sempre, accumulato “in un lago scuro e tranquillo” che tanto assomiglia a una esiziale e malsana palude. La vita non evolve per lei in una crescita progressiva e graduale di esperienze e di consapevolezza, ma implode in una lunga e inesausta successione di “cerchi di vita”, di avvenimenti chiusi in se stessi, senza nessun reale collegamento tra loro, e soprattutto senza alcun senso ultimo e definitivo, capaci – è vero – di offrire qua e là rare epifanie, lampi di felicità, ma di una felicità dolorosa, di una allegria triste, e in fin dei conti inutile. L’estrema tentazione, alle cui lusinghe Joana sembra sul punto di cedere, è la morte, che sola è apparentemente in grado di garantire il ritorno agognato all’infanzia. Ma la morte è una non-soluzione, uno sterile inganno. Joana capisce al termine del libro che deve liberarsi da quel passato “che corrode il futuro”, affrancarsi finalmente dall’infanzia per poter realizzare se stessa (“verrà un giorno in cui ogni mio movimento sarà creazione, nascita, riuscirò a rompere tutti i no che esistono in me, proverò a me stessa che non c’è niente da temere, […] un giorno innalzerò dentro di me quello che sono, a un mio gesto si leveranno poderose le mie onde, acqua pura a sommergere il dubbio, la coscienza, […] quel che dirò suonerà fatale e completo!”).
Con questa sorta di dichiarazione di intenti, dal carattere inequivocabilmente autobiografico, la Lispector ha voluto terminare questo criptico romanzo, quasi prefigurando il suo luminoso, anche se sofferto, destino di artista. “Vicino al cuore selvaggio” non è comunque un’opera da cui è facile trarre un significato univoco e definitivo. Suddiviso com’è in brevi capitoli introspettivi, frammenti sparsi e disorientanti di un’esistenza dolorosamente scissa tra orgoglio e sofferenza, allucinato percorso di formazione in cui alla classica terza persona del narratore onnisciente si alterna un ostico stream of consciousness, con cui l’anima della protagonista viene mirabilmente indagata fin nei suoi più intimi recessi, il libro spiazza continuamente il lettore, a cui è richiesto uno sforzo considerevole per coglierne l’organica struttura, nascosta in una scrittura visionaria, immaginifica, caleidoscopica. La fatica della lettura è comunque ampiamente ripagata dalla bellezza delle splendide epifanie disseminate nel romanzo (l’episodio di Joana davanti al mare, quando al cospetto dell’immensità dell’oceano la bambina realizza per la prima volta che il padre è morto e viene attraversata da molteplici sensazioni contrastanti, un’illogica gaiezza che si sovrappone al dolore, la paura che si alterna a un senso di attesa – “come dentro una chiesa” – di cose che devono avvenire, mi ha ricordato alla lontana il pirandelliano “Ciaula scopre la luna”), nonché dall’algido incanto che, come ghiaccio bollente, promana dalla sua ermetica poesia. La scarsa decifrabilità del romanzo, la sua oscurità, non devono pertanto trarre in inganno. La Lispector si ferma intenzionalmente alle soglie della comprensione, della piena intelligibilità, lasciando il lettore spaesato e interdetto, perché ella non vuole, dopo averlo magicamente evocato con il suo stile ossimorico e sinestetico, rovinare il fragile mistero della vita. “Per poter discernere determinate cose è necessario un certo grado di cecità. È questo, forse, il tocco dell’artista. Qualunque uomo può sapere più di lui e ragionare con sicurezza, secondo verità. Ma proprio quelle determinate cose sfuggono alla luce accesa. Al buio diventano fosforescenti.”
Indicazioni utili
La spontaneità e l’intuizione
Clarice Lispector pubblica questo libro intorno ai ventiquattro anni (ma la stesura risale a quando l’autrice non ne aveva ancora compiuti diciannove), un libro miracoloso, a dirla tutta, non tanto per la precoce età dell’autrice, che pure è notevole, quanto per l’atmosfera di luminosa sospensione in cui galleggiano le pagine. Un miracolo che è però molto sacro e poco divino, o meglio, di un divino in ogni sua parte immanente alla realtà, e non trascendente. D’altronde le premesse filosofiche di questo libro sono da ricercare in Spinoza, che di fronte alla frattura fra res cogitans (il pensiero) e res extensa (il corpo) di stampo cartesiano, fa collassare tutto in una res divina: deus sive natura, Dio è la natura. Lispector fa propria la filosofia spinoziana e il libro continuamente annulla i confini fra corpo e ambiente, così la protagonista è ora un’onda del mare, ora un raggio luminosa, ora il suono di un orologio.
La suggestiva quarta di copertina definisce Calrice Lispector come una “Woolf amazzonica”, ma in realtà la medesima premessa (il movimento come forma delle cose, il ritmo puro dell’essere) porta a due stili molto diversi. Nella Woolf, e penso in particolare a “Le Onde”, la scrittura procede per dilatazione, espansione, rarefazione, per progressivo aumento di volume cosicché la coscienza si gonfia come una bolla via via più lieve; in questo libro, invece, lo stile procede, passatemi il termine, per colliquazione, come se la coscienza di liquefacesse continuamente in spazio e lo spazio si condensasse in coscienza senza soluzione di continuo. La differenza è di consistenza: in Lispector lo stile ha una sua gravità, un peso, procede per apnee e il lettore si ritrova preda di una corrente che può annegare.
La trama è, al solito, pretestuosa: Joana è una bambina prima, una ragazza poi, una donna infine, una i cui occhi sanno colmare gli
uomini di domande, che vive in una realtà più antica del tempo, alla ricerca di parole pure, che non conoscono linguaggio, di azioni che semplicemente accadono. Un'architettura certo precaria e instabile, vacillante a tratti sul finale, ma capace di stupire a ogni paragrafo, come se ogni riga fosse il primo passo su un pianeta vergine, primordiale, disabitato, una terra che nessuno ha mai detto, più profonda di noi, “cieca come un sasso che rotola”. Ecco, il valore incommensurabile di questo libro è la ricerca di una verità che può venire soltanto prima del verbo e che continuamente nega la parola per intuire il fondo delle cose nel ritmo. E l’intuizione è appunto il modo di procedere di Clarice Lispector: i vincoli causa-effetto si sciolgono e la realtà si dispiega come un teorema matematico, per squarci e illuminazioni. Lo scopo è sempre il medesimo: dire l’indicibile. Quello che in “Acqua viva” sarà indagato con un linguaggio esplosivo e antiletterario, la natura pura delle cose, qui è ancora in bilico con gli ultimi residui della drammatizzazione romanzesca.
“La visione consisteva invece nel cogliere il simbolo delle cose nelle cose stesse”: non una foresta di simboli, ma la crudezza delle cose in sé. E così, la ricerca psicologica di coscienze che fioriscono dal flusso stesso del divenire, una psicologia acutissima, trapassa già in una ricerca ontologica condotta con una prosa poetica. E in almeno due capitoli, “La zia” e “L’uomo”, l’autrice raggiunge, sulla pagina, la perfezione. Vicino al cuore selvaggio delle cose, dove tutto è entropia e divenire, Clarice Lispector prova ad afferrare, su fragili foglie prede della bufera, i segreti dell’essere.
Indicazioni utili
Woolf, Le onde