Venivamo tutte per mare
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UNA BIOGRAFIA CORALE
L'autrice sceglie di raccontare una biografia corale, non c'è una sola storia o una sola protagonista, queste spose sono tutte insieme l'anima di questo libro, ci fanno sorridere, soffrire, provare rabbia e disgusto ma ad un certo punto, vorremmo solo abbracciarle.
Sono donne che sperano in una vita migliore, lasciano il loro paese, la loro famiglia di origine, la loro casa, le loro tradizioni per sposare un uomo che hanno visto solo in fotografia. Per loro il viaggio che le portò in America, è di speranza in un futuro diverso, in una persona che le possa amare e proteggere, in un lavoro meno doloroso di quello dei campi.
"Di notte sognavamo i nostri mariti. Sognavamo sandali di legno nuovi e lunghissime pezze di seta color indaco, e sognavamo di vivere, un giorno, in una casa con il camino. Sognavamo di essere belle e alte. (cit.)"
I loro sogni erano semplici in fondo, volevano solo condurre una vita dignitosa, lavorare, essere delle bravi mogli e poi anche delle madri, costruirsi un futuro migliore di quello che sarebbe stato il loro destino, se fossero rimaste in Giappone.
"Sulla nave ciascuna di noi doveva compiere delle scelte. Dove dormire, di chi fidarsi, con chi fare amicizia e come."(cit.)
Arrivate a San Francisco, però la realtà fu molto diversa da come se l'erano immaginata, entrarono in un mondo di bugie e di castelli di sabbia che a poco a poco crollarono sotto ai loro piedi. I loro mariti erano tutt'altro che teneri, non era facile integrarsi in un paese così diverso dal loro, imparare la lingua, farsi accettare ma anche affrontare delle lunghe giornate di duro lavoro e sapere che non sarebbero potute tornare indietro. Potevano scappare ma con quali soldi? I loro mariti non le mantenevano e sperperavano tutto il poco denaro che c'era al gioco, alcune non ce la facevano a sopportare tutto questo, altre vennero "comprate" da alcuni marinai incontrati sulla nave e così potevano andarsene e altre ancora resistettero.
La maggior parte di loro erano poco più che bambine, vergini e ingenue, vendute dalla loro famiglia come oggetti, nulla le poteva riportare indietro, nulla avrebbe potuto alleviare il loro dolore.
"Se torni a casa, ci avevano scritto i nostri padri, recherai onta all’intera famiglia. Se torni a casa, le tue sorelle minori non si sposeranno mai. Se torni a casa, nessun uomo ti vorrà più. "(cit.)
Sono delle storie strazianti e commuoventi, il racconto dei vari soprusi subiti, delle umiliazioni, della solitudine, della vergogna, dell'accettazione di essere state ingannate, delle false speranze ma anche del dolore, della fatica e della nostalgia della loro infanzia e della loro casa.
L'autrice con questo testo vuole raccontare un argomento storico poco conosciuto ma soprattutto ridarà dignità a quelle donne, che erano delle persone con dei sentimenti, dei sogni e delle speranze.
L'utilizzo della prima persona plurale può essere stata azzardata ma non in questo caso, i verbi vengono ripetuti molte volte nel giro di poche righe, proprio per sottolineare le varie esperienze e i vari punti di vista delle donne, non c'è solo una versione della storia ma ce ne sono molte e diverse tra di loro.
Un testo breve ma potente, intenso, drammatico e crudo che non si perde in giri di parole e colpisce il lettore nel profondo, per quanto il racconto sia a volte così schietto e atroce e ti fa capire la disperazione e poi la rassegnazione di queste donne di fronte alla realtà della loro vita. Quando si perde anche la voglia di combattere non ci resta altro che arrendersi al proprio destino.
L'autrice si è documentata molto per scrivere questo libro, che è una sorta di omaggio alla vita difficile di queste donne, perché altre persone possano ricordarle e sapere quello che hanno subito.
Un libro e una parte della storia recente che dovrebbe essere conosciuta da tutti.
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Qualcuno almeno saprà che sono qui?
"Spose in fotografia": donne giapponesi venute negli Stati Uniti all’inizio del ‘900, per sposare i connazionali emigrati in precedenza. Questo libro narra di loro.
Come un grande coro di piccole voci, racconta l’abbandono dei villaggi, il viaggio in nave, l’arrivo e la conoscenza dei mariti, il duro lavoro, il nuovo paese. La perdita di identità.
E poi la guerra, Pearl Harbour e la decisione di Roosevelt di considerare “potenziali nemici” i cittadini americani di origine giapponese. Gli avvisi, l’abbandono coatto delle proprie case (e non solo), l’internamento.
La perdita della memoria di sé e nella mente degli altri.
Fatti noti, ma quello che mi ha convinto davvero, in questo libro, è stata la scrittura.
Una voce narrante in prima persona plurale. Un “noi” che sono le ragazze giapponesi sulla nave, prima. E poi le novelle spose, più o meno infelici. Le donne che si sfiancano di lavoro fino a perdere identità e memoria. Le madri che vedono i figli “disimparare” i nomi dei fiori e dei colori in giapponese e vivere “le loro giornate nella nuova lingua” e pronunciare perfettamente la “r” e la “l”.
Le stesse donne che per anni lavorano per e con i nuovi vicini: contadine, governanti, cameriere, lavandaie, negozianti, ma che a un certo punto sono guardate con sospetto, come i loro mariti. Che nascondano armi? Che siano spie?
Costrette ad abbandonare le loro case, i loro negozi, animali, oggetti… a cederli per pochi soldi a rigattieri veri o improvvisati:
“Vicini con cui non avevamo mai scambiato una parola ci avvicinavano nei campi e ci chiedevano se volevamo sbarazzarci di qualcosa. Quel frangizolle, magari? Quell’erpice? Quel cavallo da tiro? Quell’aratro? Quel cespuglio di rose Regina Anna che ammiravano da anni nel nostro giardino? (…) Un altro uomo disse che viveva da solo un una roulotte vicino al cantiere navale e sarebbe stato felice di prendere un gatto usato. “Sa, è dura star soli.” A volte vendevamo in fretta, e a qualunque prezzo, e altre volte davamo via le nostre teiere e i nostri vasi preferiti cercando di non prendercela, perché le nostre madri ci avevano sempre detto: Non bisogna attaccarsi troppo alle cose di questo mondo.”
Viene in mente quello che è successo solo una manciata di anni prima a una certa famiglia Joad in Oklahoma.
E dopo la partenza, il “noi” non sono più le donne giapponesi, ma gli americani.
“Per qualche settimana alcuni di noi continuano a nutrire la speranza che i giapponesi ritornino, perché nessuno ha detto che sarebbe stato per sempre. (…)
Forse avremmo dovuto presentare una petizione al sindaco. Al governatore. Al Presidente in persona. Per favore, lasciateli qui. O semplicemente bussare alla loro porta e offrire aiuto. Se solo, ci dicevamo, avessimo saputo. Ma l’ultima volta che qualcuno di noi lo aveva visto dietro la sua bancarella di frutta, il signor Mori era stato cordiale come al solito. “Non mi ha mai rivelato che stava per andarsene” dice una donna. Eppure tre giorni dopo non c’era più. (…)
Un coro, appunto, in cui ciascuna voce canta una piccola frase che è la sua storia, mai approfondita. Una pennellata che lascia intuire un quadro che non si vedrà mai, perché si è perso nella routine quotidiana, di chi se ne è andato e di chi ha potuto rimanere. Passa una stagione e la memoria si confonde. Si chiamavano Kato o Sato? Ci sono inquilini nuovi, qualcuno si è occupato dei gatti o dei cani. Qualcuno ha stampe giapponesi in casa, che prima non c’erano. Qualche signora usa le bacchette per fermare i capelli. Qualcuno rimpiange quegli inquilini puliti e tranquilli. Qualcuno pensa che – come sempre – ce ne fossero di buoni e di cattivi. E poi si assomigliavano tutti.
E questa scrittura quasi sempre in “noi” (o “loro”), di frasi brevi con soggetto e verbo e molto ripetuti è proprio convincente per narrare queste vite che – da fuori – sembrano tutte uguali. Come tutti uguali sembrano gli orientali. Che però poi sono uguali ai Joad. E a noi, che al giro saranno i nostri occhi a non essere abbastanza azzurri o abbastanza rotondi.
Vi lascio nel commento un piccolissimo saggio, dal giorno della partenza per l’internamento e… vi consiglio sicuramente di leggerlo.
(Nota dolente. L’edizione italiana è un tantino approssimativa, specie per quanto concerne la punteggiatura).
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sentimenti silenti
Una storia vera che tocca tutte le corde del cuore: la speranza, la nostalgia, lo stupore, il disincanto, la violenza, il dolore, il silenzio, la paura.
Una narrazione corale per dar voce alle tante donne giapponesi andate in sposa, agli inizi del Novecento, ai connazionali espatriati negli Stati Uniti; giunte – per mare, appunto – in una realtà di cui ignoravano lingua e costumi.
Un grande affresco per raccontarne le vite, il riscatto attraverso figli e nipoti, la presenza “trasparente” nella società americana.
L’autrice sceglie di scrivere in prima persona plurale: è il “noi” delle protagoniste, certo, ma è anche il noi di chi legge, per interrogarsi – ancora una volta – sul destino di tante donne.
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Bello ma lo stile no...
Sotto consiglio ho letto questo libro e devo dire che nella sua totalità mi è piaciuto e non mi è piaciuto.
Nel senso che il contenuto è impeccabile: la scrittrice ci propone una dura e cruda realtà che spettava a queste donne che per mare andavano in mogli a degli sconosciuti, pensando di vivere una vita diversa da quella che avrebbero dovuto affrontare in Giappone. Un tema che sinceramente non avevo mai approfondito e del quale nemmeno avevo sentito parlare, dunque leggerlo così, e venendo a conoscenza di come erano le cose per loro ti sciocca profondamente, ma...
Questa narrazione corale ha il suo perché, ma sinceramente, essendo quasi più simile ad un saggio rispetto ad un romanzo, passate le prime pagine mi sono resa conto con non riuscendomi ad identificare con nessuno il tutto diventava monotono e non riuscivo ad entrare più di tanto nel libro, dunque l'ho letto molto speditamente con un ritmo martellante.
Tutte queste "voci" rappresentano un realismo crudo, bellissimo e ti lascia senza parole, ma dopo poche pagine mi sono detta: meno male che è breve.
Non so forse, per quanto riguarda la mia sensibilità, questo libro a causa della scelta stilista non mi è rimasto impresso e anzi... d'altro canto devo ammettere che il contenuto, come ho detto prima è davvero un secchio d'acqua freddo buttato in faccia di primo mattino, quando si è ancora nel letto al calduccio, dunque non consiglio di non leggerlo, anzi, leggetelo, ma rimango con le mie riserve.
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Un coro di voci
La definizione di romanzo o racconto calza davvero stretta a questo lavoro di Julie Otsuka, giornalista e scrittrice statunitense.
Il libro in questione assume la forza e l'immediatezza di un album fotografico, immortalando con nettezza e semplicità una realtà oramai lontana e sicuramente poco conosciuta; migliaia di immagini che ritraggono le sorti delle giovani giapponesi che agli inizi del Novecento giungevano spose a connazionali immigrati sulle sponde della California.
La scelta stilistica dell'autrice fa di questo scritto un racconto corale; non ci sono protagonisti ad aspettarvi tra queste pagine, non c'è un nome, non un volto, bensì un coro di voci.
L'effetto polifonico è stupefacente e avvolgente, portando la narrazione ad un ritmo serrato e tagliente; alla rapidità delle immagini fa da contraltare un'infinità di sentimenti che assale il lettore, dal dolore allo sconcerto, dall'indignazione all'incredulità.
Le immagini scattate dalla penna della Otsuka, sono state raccolte consultando documentazione dell'epoca e diari contenenti testimonianze.
Nessuna finzione, solo tanta amara e cruda verità storica; una pagina di storia dell'umanità che merita di essere ricordata e conosciuta.
Un esercito di giovani donne schiavizzate, abbruttite da una vita infernale, massacrate dal lavoro agricolo; donne che sognavano semplicemente amore e serenità, il calore di una famiglia ed una casa da accudire.
Donne che attraversavano l'oceano con un sogno da realizzare e trovavano ad attenderle un mondo fatto di inganno e di dolore, da cui non si faceva più ritorno.
E' un genere di lettura di grande interesse sul piano storico-sociale ed in grado di trasmettere commozione vera al pubblico.
Porta alla luce uno spaccato della storia americana poco indagato, anzi spesso celato tra le pieghe del silenzio.
Julie Otsuka ha deciso di parlare e raccontare, facendosi portavoce di tutte le immigrate nipponiche che non possono più farlo.
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E Morfeo narrò
La prima cosa su cui mi vorrei soffermare è la fotografia ritratta in copertina di questo libro. E’ stata fotografata un donna, stesa a terra. Non vediamo il volto della donna per intero, ne intravediamo un solo occhio, ma ciò che è si vede per intero sono i suoi capelli. Degli splendidi capelli, lunghi, neri. Ogni ciocca forma un’onda, ed è come se i capelli fatti di mare trascinassero con se il viso della donna ….”venivamo tutte per mare”.
la storia è quella di tante giovani donne giapponesi che nei primi anni del novecento furono “costrette” dalle più svariate motivazioni, a sposare uomini giapponesi emigrati in America. La cosa che le accumuna è l’aver sposato uomini che hanno visto solo in fotografia. Ma il romanzo non è solo questo, è anche il racconto di ciò che accadde a queste donne e alle proprie famiglie durante il secondo conflitto mondiale.
Leggere questo romanzo è stato come aver fatto un sogno, e Morfeo avesse parlato di queste storie unendole in una sola voce. Non troviamo storie complete, non troviamo discorsi finiti. Ma frasi, frasi che racchiudono tanto significato quanto quello trattato in ogni singolo capitolo. Sono le tante frasi che fanno il racconto.
Non posso dire però che questo libro mi abbia entusiasmata. Purtroppo a me piace quando l’autore del libro ci fa entrare a fondo nelle persone, mi piace conoscere i personaggi dei libri. L’autrice in questo caso non l’ha fatto, anzi, ha reso la “Storia” il personaggio di questo romanzo, si è servita di tante donne per narrarci questo triste periodo.
Questo ovviamente è un gusto personale, sicuramente è un bel romanzo e credo debba essere in ogni caso letto, anche solo per il fatto che narra una vicenda storica non narrata frequentemente, ma a me ha lasciato un po’ di imcompletezza.
E’ stato un caso per me leggere questo libro in questo periodo, appena disponibile in biblioteca l’ho preso in prestito. L’ho finito proprio oggi e proprio mentre comincio a scriverne la mia recensione mi accorgo che le due recensioni già presenti sono state scritte esattamente 1 anno fa, l’8 marzo 2012 e credo sia stato un po’ il destino. Questa giornata è molto più che una bella mimosa, è un’occasione per ricordare tante donne che hanno e stanno purtroppo ancora soffrendo e io ho avuto l’onore di farlo così, parlandovi di questo romanzo.
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Storie di coraggio di tante donne
"nessuna parola di questo libro cade nel vuoto. Tutte colpiscono al cuore". Poco più di un centinaio di pagine hanno saputo descrivere e raccontare la situazione femminile di molte donne giapponesi negli anni Trenta e Quaranta del Novecento. A dar voce alle loro storie è la pluripremiata Julie Otsuka, californiana, ma di origini asiatiche, autrice di questo bestseller ormai considerato un classico contemporaneo.
Venivano tutte per mare è un romanzo intenso, corale, vibrante, profondamente drammatico, che narra la storia di donne, rimaste sconosciute e unite da un unico destino che le ha classificate nella categoria delle “Spose in fotografia”. Erano donne che abbandonavano il loro Paese e si imbarcavano cariche di speranze e di sogni alla volta delle coste americane, meta in cui avrebbero conosciuto di persona il loro futuro sposo e quella che sarebbe diventata la loro vita segnata da un destino sempre diverso da come se lo erano aspettato. Lasciavano famiglie umili convinte di sposare uomini che le avrebbero portate ad un’ascesa sociale che veniva disillusa dalla cruda realtà del lavoro dei campi e da altre mansioni umili e si ritrovavano a vivere una vita peggiore di quella da cui erano fuggite e dove i loro sogni venivano spazzati via, i loro cuori venivano infranti e la loro esistenza diventava un nulla che si susseguiva un giorno dopo l’altro, mentre tentavano di sopravvivere al loro triste destino.
VOTO 9
Un’altra scrittrice non avrebbe saputo raccontare in maniera così coinvolgente una storia tanto delicata, intima, che appartiene ad una moltitudine di donne, ad una generazione intera, quelle delle immigrate negli Stati Uniti nel periodo in cui gli stranieri ed, in particolare, i giapponesi non erano ben visti dagli americani. La discriminazione razziale era molto forte.
Per raccontare le loro misere esistenze, Julie Otsuka non sceglie una particolare figura femminile, ma le accomuna tutte in una narrazione corale, dove un “noi” sempre presente dipana in un filo unico le tante vite che formano la matassa accomunata dalla tristezza di un destino senza sogni e speranze. Ogni tanto esce fuori un nome da un groviglio di esistenze sofferenti, ma non per questo meno combattive nel loro tentativo quotidiano di combattere per sopravvivere ad una società che non le accetta, le considera diverse, umili e di una razza diversa, da escludere. Gli anni della Seconda Guerra Mondiale segneranno la fine delle anime deportate in luoghi non precisati. Ciò avviene a causa delle vicende storiche che vedono su due fronti nemici il Giappone e gli Stati Uniti. Quando inizia la deportazione del popolo giapponese che viveva e lavorava in America, la narrazione corale cambia. A narrare non è più il gruppo delle donne che “Venivano tutte per mare”, ma diventa quello, sempre corale, degli abitanti delle città da cui i giapponesi sparivano.
Soltanto otto capitoli (“Venite, giapponesi!”, “Prima notte”, “Bianchi”, “Bambini”, “I figli”, “Traditori”, “Ultimo giorno” e “La scomparsa”) per un totale di poco più di cento pagine per raccontare vite vissute che non vogliono essere annientate come, invece, è accaduto. Ogni capitolo raccoglie un argomento e lo approfondisce, sempre mediante il racconto corale e seguendo un arco temporale in evoluzione.
Il racconto serve a non dimenticare quella generazione che sembrava essere caduta nell’oblio della storia. La Otsuka, anziché scrivere un saggio che sarebbe potuto essere lunghissimo, quasi interminabile, tante erano le testimonianze e i reperti che aveva raccolto, ha pensato bene di riassumere tutto in una narrazione coinvolgente e intensa verso un destino segnato fin dall’inizio, di cui il lettore è già ben consapevole fin dalle prime pagine. Mano a mano le speranze di cancellano, le vite delle donne si trasformano grazie alla cruda realtà che devono affrontare e tutte, chi prima chi dopo, sono destinate a crollare.
La copertina sembra raccogliere quelle che erano le loro grandi speranze, prima che la realtà delle loro esistenze la cancellasse.
Mi è piaciuto molto questo libro che si legge scorrevolmente. La narrazione in prima persona plurale non stanca, ma rende il racconto più incisivo, commovente, accorato e disperato.
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Le donne venute da lontano
Sulla nave eravamo quasi tutte vergini.Avevamo i capelli lunghi e neri,
i piedi piatti.Alcune venivano dalla montagna e non avevano mai visto
il mare.Alcune erano figlie di pescatori e non avevano mai visto la neve.
Tutte avevamo la foto del nostro futuro marito.Le immagini erano quelle di giovani bellissimi che scrivevano di possedere case e di svolgere lavori interessanti.
Quando sbarcammo alcune di noi trovarono ad attenderle gli stessi uomini delle foto ma con vent'anni di più (le foto che avevano inviate erano di quand'erano giovani),alcune scoprirono che le foto erano di amici, di cugini, di fratelli.
Tutte noi trovammo contadini e operai,braccianti,mercadali che non possedevano nulla.
La prima notte di nozze ci presero dolcemente, ci presero supine sul pavimento di un motel,ci presero in luride stanze, ci presero prima che fossimo pronte e sanguinammo per giorni, ci presero con i nostri kimono bianchi attorcigliati sulla testa e credemmo di morire.Ci presero al buoi,ci presero anche se li mordevamo, ci presero anche se li insultavamo.
Ci portarono nei campi dei bianchi e ci dissero di raccogliere le loro fragole,i loro fagiolini,le loro mandorle,i loro asparagi etc etc.Ci insegnarono a dire "acqua" e ci dissero che questa parole ,nei campi,ci avrebbe salvato la vita.Ci misero a servizio delle donne bianche,fummo gentili,fummo docili, pulimmo la loro sporcizia,accudimmo i loro bambini,ascoltammo i loro lamenti,mentimmo per loro e qualche volta,quando loro non c'erano,il Boss(il padre dei loro figli), ci prese come i nostri mariti.
Ci insegnarono una nuova lingua,una nuova cucina, ci diedero nuovi abiti,ci cambiarono i nomi.
Partorimmo in capanne,in bettole,lungo la strada, nei campi.Partorimmo da sole, con l'indovina, con nostro marito.Continuammo a pulire,zappare ,servire e quando scoppiò la guerra,nonostante noi e i nostri figli avessimo inparato la loro lingua,servito nelle loro case, lavorato la loro terra, costruito le loro strade,le loro case,le loro chiese, ci misero sui treni e ci spedirono nei campi di concentramento perchè non eravamo esseri umani,ma musi gialli.
Questo libro parla delle donne giapponesi ,piccole bambine di quattordici anni che a migliaia il secolo scorso,a bordo di navi attraversarono l'oceano direzione California,sposate per procura,costrette ad accetare un marito mai conosciuto in un paese lontano per non morire di fame.Un libro simile,sono convinto,potrebbero scriverlo le migranti italiane,irlandesi,polacche,russe,turche,congolesi,nigeriane etc etc l'unica differenza sarebbe la lingua, ma le sofferenze e le umiliazioni subite sarebbero le stesse.
L'8 marzo è troppo poco per ricordare tutte le donne che sono venute dal mare con la speranza di sbarcare nella terra promessa ed invece si trattava dell'inferno.
l'8 marzo è troppo poco per ricordare a noi uomini che veniamo da una donna e che solo per questo meriterebbe il rispetto che merita chi il segreto della vita lo porta con se dall'inizio alla fine dei suoi giorni.
di Luigi De rosa