V. V.

V.

Letteratura straniera

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V. è un'entità misteriosa, forse è il principio stesso della femminilità. V. assume molteplici aspetti e sembianze e sfugge a ogni precisa identificazione. V. è di volta in volta la dea Venere e il pianeta Venere, la Vergine, la città della Valletta a Malta, il Venezuela, l'immaginaria terra di Vheissu. E V. è anche molte donne: Vittoria, Veronica, Violet... Un romanzo enciclopedico, ambizioso, un infinito e corrosivo gioco di specchi, una grandissima prova d'autore.



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V. 2020-11-23 08:58:44 Molly Bloom
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    23 Novembre, 2020
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Romanzo mondo

In punta di piedi ho iniziato a leggere questo romanzo e altrettanto ne sono uscita. Attenta a non farmi male in qualche scheggia e scappare di corsa chiudendo il libro ma anche attenta a non rompere gli incantesimi e i frammenti di immensa bellezza che si incontrano lungo il cammino. Prima opera di Thomas Pynchon, uscita nel 1963, fortemente radicata al genere postmoderno, questo romanzo è un cubo di Rubik in mano al lettore. A prima impressione, può sembrare un insieme di racconti, gravidi di personaggi e che coprono un lasso temporale molto ampio, un secolo e mezzo, sconnessi tra loro e ambientati in territori sparsi per il mondo, addirittura viene creato una terra immaginaria, magica, Vheissu e nonostante si spera che l'autore metterà un po' di ordine nel marasma man mano nella narrazione, ciò non accadrà, anzi! Nel libro l'autore crea il cubo di Rubik ma non lo risolverà sempre lui, il compito spetterà al lettore a lettura conclusa. Thomas Pynchon, prima ancora di avere una mente letteraria, ha una mente matematica, e questo spicca molto nella struttura del libro che è in pratica una non-struttura, un romanzo scritto secondo un principio di "non-ordine", ma che non è dispersivo e non ci sono vicoli ciechi ma tutto è progettato a tavolino nella sua mente geniale. Pynchon è una perla rara nella letteratura, ossia un artista che scrive quando ha bisogno di dire qualcosa e perché ha bisogno di dire quella cosa. Non gli interessano la fama (infatti nessuno lo conosce, non da interviste, si rifiuta di ritirare premi), non gli interessa di farsi capire o giustificarsi con critici o lettori (è dell'opinione che se vuoi sapere una cosa su un suo libro, prendilo e leggilo bene), scrive unicamente per servire la letteratura, contribuendo al suo sviluppo. Infatti "V.", assieme a "Comma 22" di Heller pubblicato poco prima, segnò l'inizio del postmodernismo americano e influenzò la maggior parte dei scrittori attuali. Per leggere "V." servono: una buona e rapida memoria, carta e penna per le annotazioni dei personaggi e/o vari schemi, libero acceso a un motore di ricerca e ovviamente voglia di conoscere un grande scrittore.

Benny Profane e Herbert Stencil sono i protagonisti di questo romanzo, personaggi molto diversi tra loro ed entrambi alla ricerca di qualcosa. Nel caso di Stencil non ci sono dubbi: cerca V., una donna misteriosa che nel romanzo prenderà diverse sembianze e identità, motivo per cui viene anche chiamata con la sola iniziale e ciò che la identifica come V. sono i dettagli: un pettine, una dentiera di metalli preziosi, un occhio di vetro. Altra cosa che fa intuire la sua presenza al lettore è l'alone di mistero, di sacro e profano che la circonda e che aleggia sempre nell'aria quando c'è lei nei paraggi, così come aleggia una certa tensione erotica connessa in risposta "alle violenti emozioni che si sviluppano sempre nei momenti di tensione internazionale". E infatti i momenti di tensione internazionale non mancheranno, molti dei quali sconosciuti alla massa. Si parla delle due guerra mondiali ma anche di altri eventi turbolenti e genocidi meno noti. Da questo punto di vista la lettura di un libro di Pynchon arricchisce molto la cultura generale dei lettori, inserendo veri frammenti di storia realmente esistiti ma poco noti nella sua trama intricata. Così come James Joyce nel suo capolavoro "Ulisse", cambiava lo stile di scrittura in ogni "capitolo" adattandolo alla sostanza, all'episodio narrato, stessa cosa fa qui anche Pynchon: tutti i capitoli che seguono Stencil e in cui V. compare e nei quali si descrivono pezzi di storia, sono sublimi, con punte altissimo lirismo moderno e considerazioni che lasciano sbigottiti, e si vorrebbe leggerli e rileggerli e rileggerli! I capitoli invece che seguono le vicende di Benny Profane sono "inanimati" proprio come il mondo che Benny si sente intorno, si limita a una mera descrizione del presente, con un linguaggio molto scorrevole. Anche qui però ci sono delle "punte di diamante" nella narrazione, soprattutto nei dialoghi (vedi i dialoghi di Benny con Rachel o con i manichini). La ricerca di Benny Profane non ha una meta invece, è uno "yo-yo" che si lascia vivere dalla vita e dagli eventi, che sopravvive in un mondo sempre più inanimato che contagia persino le anime ("Perché Fina doveva comportarsi come se lui fosse un essere umano?"). Benny ha la percezione che la Grande Depressione ha portato via anche l'umanità e, ora nel 1956, c'è tutto ma è tutto vuoto, tutto e tutti come gusci di conchiglie.

La ricerca di entrambi i personaggi rappresenta uno stato di essere vivi, che nel caso di Profane è palese, ma anche Stencil in realtà si augura di non trovare mai V., perché ciò significherebbe la fine, più V. gli sfugge e più lui si sente in vita nel dargli la caccia. C'è un periodo presente, ambientato nel 1955-1956 a New York e vede protagonista Benny che si intreccia con un periodo passato dal diciannovesimo secolo in poi e che vede come protagonisti tutto ciò che riguarda V.. Personalmente ho apprezzato decisamente quest'ultimo periodo e che occupa gran parte della seconda metà del romanzo. Le pagine di storia sono degne del miglior Tolstoj in "Guerra e pace", e secondo Pynchon la storia è un serpente, e non ciclica come Tolstoj sostiene. Ci sono molte scene nabokoviane (si presume che abbia seguito le lezioni di scrittura di Nabokov, ritroviamo dei veri e propri omaggi a "Lolita"), c'è dentro Hugo, Faulkner e forse qualcosa anche di Melville. Ma c'è anche molta comicità e bizzarria in questo volume mastodontico, aneddoti e passi ironici in cui l'autore attacca la Chiesa, i preti, la chirurgia estetica, la politica.

V. è decisamente una esperienza di lettura, personalmente mi ci sono approcciata pensando che fosse più abbordabile in quanto opera prima ma con il senno di poi, forse sono meglio gli ultimi romanzi di Pynchon, come primo approccio, che sono molto più lineari, infatti nella sua bibliografia si assiste ad un cambio di rotta e l'assunzione di un filo più lineare della trama nelle ultime opere. Questo non per sminuire "V.", anzi, mi ha colta di sorpresa perché lo immaginavo più facile, ma comprendo anche che un lettore che non ha dimestichezza con certi stili, potrebbe facilmente arrendersi oppure peggio ancora considerare "V." un ammasso di storie che non si incrociano e chiedersi "ma che cosa sto leggendo?!". 

"I tedeschi, ovviamente, incarnavano il male assoluto e gli Alleati il bene assoluto. I bambini non erano i soli a pensarla così. Tuttavia, se la loro concezione di quella lotta potesse essere descritta con un grafico, non verrebbe rappresentata da due vettori della stessa grandezza, simmetricamente opposti - dove le punte delle due frecce formano una incognita X -, ma piuttosto da un punto adimensionale, il bene, circondato da un numero imprecisato di frecce convergenti, disposte a raggiera, i vettori del male, che puntano verso di esso. Ovvero il bene tenuto a scacco. La Vergine assalita. La madre alata protettiva. La donna passiva. Malta assediata... Questo diagramma sarebbe stato come una ruota: una ruota della Fortuna. Per quanto potesse girare, la disposizione fondamentale restava costante. L'effetto stroboscopico poteva far pensare che il numero dei raggi stesse cambiando, che il senso in cui girava stesse cambiando. Il mozzo però teneva sempre i raggi al loro posto ed era sempre il punto di convergenza dei raggi a definire il mozzo. La vecchia concezione della storia come evento ciclico riguardava solo il bordo della ruota, al quale erano legati tanto i principi quanto gli schiavi. Insegnava che la ruota era sistemata in verticale, che si saliva e si scendeva. Però la ruota dei bambini era perfettamente in piano, il suo bordo era solo quello dell'orizzonte sul mare; noi maltesi siamo una razza cos' sensuale, così "visiva"."

"Cercavo di guardare il bianco dei suoi occhi, così come si guardano i margini di una pagina, cercando di evitare con lo sguardo quel che c'era scritto nel nero dell'iride."

I capitoli che più mi sono piaciuti sono due. Uno è "Le confessioni di Fausto Maijstral", nel quale si descrive l'assalto a Malta durante la seconda guerra mondiale e nel quale si incontra V.. L'altro capitolo invece che ho adorato è "La storia di Mondaugen" nel quale viene narrato tra presente e passato il genocidio degli herero. Ho gradito invece meno tutte le avventure di Benny Profane e della Banda dei Morbosi, sempre a ubriacarsi e a prendersi a cazzotti e dove ogni uscita al bar finiva con l'arrivo della polizia. L'episodio su padre Fairing che evangelizzava i topi nelle fogne, pronosticati da lui come unica forma di vita che sopravviverà nel futuro, mi ha ricordato il romanzo "La ratta" di Gunter Grass, pubblicato nel 1986, che abbia preso lo spunto in "V."? Per me, è molto probabile.

"C'erano stati tradimenti e ipocrisie: perché i preti non avrebbero potuto fare lo stesso? Un tempo il cielo era il  nostro amico più fidato: l'elemento naturale del sole, il suo plasma. Un sole che il governo adesso sta cercando di sfruttare a fini turistici: ma in passato, ai tempi di Fausto I, il sole era l'occhio vigile di Dio e il cielo la Sua guancia pura. Però, fin dal 3 settembre 1939, erano cominciate ad apparire delle pustole, delle macchie, e i primi segni della peste: i Messerchmitt. Il volto di Dio si era ammalato e il Suo occhio aveva cominciato a vagare, a chiudersi (ad ammiccare, diceva invece quell'ateo furioso di Dnubietna). Ma la devozione della gente e la forza incrollabile della Chiesa sono tali che il tradimento non veniva attribuito a Dio, ma piuttosto al cielo; a una bricconeria da parte della pelle, capace di ospitare germi simili e di rivoltarsi quindi contro il suo divino padrone."

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V. 2020-05-13 13:47:41 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    13 Mag, 2020
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ALL'INSEGUIMENTO DI UN EMBLEMATICO MISTERO

“Dentro V., dentro di lei, c’è molto più di quanto nessuno abbia mai sospettato. Il problema non è tanto sapere ‘chi’ è, ma ‘che cosa’. Che cos’è? Dio non voglia che io sia mai chiamato a fornire questa risposta”

Sgombriamo subito il campo da un equivoco: anche se difficilissimo da trovare, esiste, all’interno delle sue innumerevoli trame e sottotrame e dei suoi continui salti temporali, un significato, un trait-d’union nel romanzo di esordio di Thomas Pynchon. Non sto parlando soltanto del fantomatico personaggio di V. che dà il titolo all’opera, ma di un senso unificante, di una morale in grado di definirla e di valorizzarla. Ma andiamo con ordine, partendo dalla trama, che è effettivamente ingarbugliata oltre ogni dire e che si cristallizza intorno a due personaggi principali, Benny Profane ed Herbert Stencil. Il secondo, un avventuriero inglese di mezza età, è colui che si imbarca nella strampalata ricerca di V., un nome trovato per caso nella corrispondenza del padre defunto, e fa di questa ricerca lo scopo stesso della sua vita. Stencil, che parla bizzarramente di sé usando la terza persona, approda a New York e qui congiunge le sue vicende a quelle di Profane, l’anti-eroe del romanzo, uno schlemiel che si lascia vivere senza alcun progetto esistenziale, tra risse, sbronze, domicili irregolari e rapporti (anche sentimentali) casuali e svogliati (non a caso viene presentato dall’autore dicendo di lui che fa lo yo-yo, una pratica che consiste nel sedersi in un convoglio della metropolitana e fare su e giù, da un capolinea all’altro, senza mai scendere). Se Stencil è il massimo della concentrazione, della determinazione a perseguire un obiettivo, per quanto folle esso sia, è il suo opposto, Profane, il vagabondo, il border line, a dettare i tempi e a dare il tono al romanzo, che risulta essere svagato, errabondo, centrifugo. Tanti sono infatti i personaggi che circondano i due protagonisti, sia nella parte contemporanea (Paola Maijstral, Rachel Owlglass, Esther Harvitz e il resto della Banda dei Morbosi, il chirurgo estetico Schoenmaker, il dentista Eigenvalue, il musicista jazz McClinton Spere, il marinaio Pig Bodine) sia, ancor di più, nei flashback ambientati, non però in questo ordine, nel 1898 in Egitto, nel 1899 a Firenze, nel 1913 a Parigi, nel 1919 a Malta, nel 1922 in Namibia e negli anni della Seconda Guerra Mondiale a Malta. Alcune figure ricorrono più volte nelle varie epoche (Stencil padre, i due Godolphin, Maijstral, padre Fairing), trasformando il libro in una sorta di puzzle, di cui V. costituisce l’unico elemento unificante. C’è di che perdere la testa per star dietro a tutte le tracce seminate da Pynchon con l’apparente scopo di confondere il lettore, ma l’impresa non è impossibile. Bisogna anzitutto leggere “V.” come un mix tra romanzo ottocentesco (le didascalie presenti all’inizio di ogni capitolo sono indicative al riguardo) e romanzo post-moderno (il gusto per il pastiche, l’alternanza di registri, il polistilismo), cercando di metabolizzare l’intenzionale dispersione del racconto, la struttura spesso a scatole cinesi (si pensi ad esempio al capitolo di Mondaugen, all’interno del quale si inserisce, come un racconto a se stante, la rievocazione da parte di un secondo personaggio dello sterminio della tribù degli herero; oppure la scena in cui Profane sta cercando di impedire che Pig violenti Paola, ricordandogli di essere in credito con lui per avergli salvato la vita anni prima quando entrambi erano in marina, a cui segue la lunga rievocazione dell’episodio e dei suoi antefatti). A questo effetto-matrioska, si devono aggiungere tutti gli episodi assolutamente superflui (uno per tutti, la visita di Profane all’appartamento dei suoi genitori, che in quel momento si trovano fuori casa), gli innumerevoli personaggi che vivono solo per qualche riga e che poi ritornano nel buio da cui sono spuntati (l’inventore di un bordello a gettoni che festeggia la sua settantaduesima invenzione respintagli dall’ufficio brevetti; il musicologo che ha dedicato tutta la vita alla ricerca del fantomatico concerto per kazoo di Antonio Vivaldi, il monaco che passa il tempo allevando scorpioni giganti, ecc.) e gli altrettanto numerosi aneddoti e singolarità di cui sono costellate le quasi seicento pagine del romanzo (la storia di padre Fairing, che si era messo in testa di convertire i topi di New York andando a vivere e a predicare nelle fogne della città, la caccia agli alligatori albini nelle fogne di New York, che riprende una diffusa leggenda metropolitana, l’espressionismo catatonico di Slab, che dipinge formaggi danesi come Warhol le bottiglie di Coca Cola, la psicodonzia di Eigenvalue, ecc.). Il talento enciclopedico di Pynchon si sbizzarrisce senza freni inibitori, attirato dalle stranezze, dalle pieghe inesplorate della Storia, dalle coincidenze e da una perversa logica per cui “tutto si tiene” e quindi tutto (ma proprio tutto!) può diventare materia di romanzo, in una visione onnicomprensiva che decenni più tardi è diventata il marchio di fabbrica di uno scrittore come David Foster Wallace. E’ necessario pertanto fare la tara di tutte le digressioni e di tutte le estemporaneità dell’opera per riuscire a filtrare il suo nucleo centrale. E in questo nucleo l’identità di V. è forse la cosa meno misteriosa. V. è infatti una donna che scopriamo quindicenne in Egitto e a Firenze con il nome di Victoria Wren, e poi via via a Parigi, La Valletta, Namibia con i nomi di Veronica Manganese o Vera Meroving, fino a ritrovarla nelle sembianze del Prete Cattivo a Malta quasi mezzo secolo dopo. A fare da trait-d’union tra le varie V. ci sono un pettine d’avorio che raffigura i volti di cinque uomini crocifissi e un occhio finto che nasconde al suo interno nientemeno che un orologio a molla. Quello che è davvero misterioso, e che non viene del tutto svelato, non è tanto se essa sia o meno (come viene fatto intuire nelle ultime pagine) la madre di Herbert Stencil (o addirittura la madre di Fausto Majistral e la nonna di Paula), ma cosa sta dietro a V. e ai personaggi che le ruotano attorno. In questo senso V. è un’entità molto più emblematica ed astratta di quanto appaia a prima vista. Dove c’è lei, per qualche oscuro motivo, si agitano turbolente le acque della Storia, vera o inventata: la crisi di Fashoda in Egitto, l’insurrezione di rivoltosi venezuelani a Firenze, i moti di marzo a Malta, la rivolta delle tribù del Sud-Est africano contro il dominio coloniale tedesco, i bombardamenti dell’Asse a Malta, il tutto legato da un filo conduttore rappresentato da una ipotetica cospirazione universale cui non è estranea l’immaginaria terra di Vheissu scoperta dall’esploratore Godolphin. E’ qui che si gioca la credibilità narrativa di Pynchon: c’è un nesso autentico che lega tra loro i vari personaggi del romanzo e i suoi episodi storici e pseudo-storici, oppure in fondo a tutto si può solo scorgere la vena beffarda dell’autore, capace di far balenare scampoli di trame avvincenti come in un romanzo spionistico o di avventura o ancora di horror alla Edgar Allan Poe, per poi lasciare il lettore con un palmo di naso e non portare alcunché a compimento? Il dubbio a mio avviso si scioglie se si pensa che tutto il romanzo è pervaso dall’inquietante e minacciosa presenza del mondo inanimato. E’ soprattutto Profane, lo schlemiel, ad essere in perenne lotta con le cose, che lo ossessionano e perseguitano senza tregua (ad esempio, perde il posto di lavoro perché la sveglia, pur essendo caricata, non suona all’ora dovuta). Per Profane, quanto mai inadeguato a vivere nel tecnologico mondo contemporaneo, appare legittimo domandarsi se esiste la possibilità che, quando si è al telefono, le parole cambino di senso mentre percorrono i cavi sotterranei. Ed è sempre lui a intrattenere paradossali dialoghi esistenziali con i manichini del centro in cui lavora durante i suoi turni da guardiano notturno. Ma il mondo inanimato si incarna in diverse altre sfaccettature nel corso del romanzo. Esther si fa operare al naso dal dottor Schoenmaker, che vorrebbe andare oltre e manipolarla come farebbe uno scultore con un blocco di marmo per tirare fuori la vera essenza della ragazza; Melanie, l’oggetto parigino del desiderio di V., sogna di essere un automa e che un uomo le infili una chiave tra le scapole per farla funzionare; e in una sorta di manichino si trasforma la stessa V. che, nelle sembianze maschili di un prete, viene letteralmente “smontata” da una banda di bambini dopo essere rimasta ferita nel corso di un furioso bombardamento aereo. Il grosso rischio che corre l’umanità contemporanea, sembra voler dire Pynchon, è la sua progressiva disumanizzazione, la sua reificazione, la sua riduzione a cosa tra le cose. E’ questa forse la fantomatica cospirazione universale che si paventa in “V.”, e che trova in quell’Eldorado immaginario che è Vheissu un simbolico e utopico contraltare di primitiva e genuina purezza. Sotto questo aspetto, lungi dall’apparire vacuo e disimpegnato, Pynchon risulta essere un autore addirittura “politico”, in quanto “V.” mette in scena, sia pure in forma quanto mai criptica, un’appassionata difesa della naturalità dell’uomo contro l’oppressivo e alienante dilagare della tecnologia, oltre a mettere alla berlina, attraverso la descrizione di pagine dimenticate della storia mondiale del XX secolo (come lo sterminio della tribù africana degli herero, una sorta di prefigurazione dell’Olocausto), la violenza insita nella politica e nella diplomazia delle grandi potenze per cercare di accaparrarsi il dominio del mondo.

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"Infinite jest" di David Foster Wallace
"Le perizie" di William Gaddis"
"L'arcobaleno della gravità" di Thomas Pynchon
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V. 2015-11-28 18:42:18 viducoli
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viducoli Opinione inserita da viducoli    28 Novembre, 2015
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L'opera smisurata che restituisce...

... il senso del nostro nonsenso

I miei interessi letterari si fermano quasi esclusivamente al periodo anteriore alla seconda guerra mondiale. Raramente quindi mi capita di leggere opere di un periodo posteriore, che considero una sorta di piano inclinato lungo il quale la letteratura ha via via perso la sua capacità di essere una forma di espressione artistica in grado di interpretare con originalità la realtà, quando non di prevederne i cambiamenti.
Sono tuttavia consapevole che questa mia lettura è inficiata da una certa dose di grossolanità, per cui ogni tanto e per alcuni autori faccio delle eccezioni, e mi avventuro nei territori per me abbastanza inesplorati degli ultimi decenni del ‘900 alla ricerca di una specie allora rara ed oggi pressoché estinta, la buona letteratura (buona per la mia sensibilità, ovviamente).
Tra gli autori del secondo novecento che mi affascinano c’è Thomas Pynchon, perché nelle sue opere trovo tratti, sia per quanto riguarda il contenuto, sia per la caratterizzazione stilistica che ad esse attribuisce, che le avvicinano – anche se a mio avviso solo relativamente alla maggior parte dei suoi contemporanei, e non in senso assoluto – ai grandi capolavori dell’800 e del primo ‘900 letterario.
Molti anni fa lessi 'Vineland', che mi piacque molto ma di cui per la verità non ho più un ricordo preciso (dovrò rileggerlo) e più di recente mi avventurai (è proprio il caso dirlo, visto l’argomento) nella lettura di uno dei suoi ultimi romanzi, 'Mason & Dixon', di cui rimasi entusiasta (in qualche meandro della rete ci deve essere ancora la breve recensione che scrissi allora).
Adesso ho affrontato la prima opera estesa di Pynchon, che è anche uno dei suoi libri più celebrati, ovverosia V.
Una prima considerazione: la edizione in cui ho letto V. (Rizzoli, La Scala, con copertina rigida e sovracoperta) contiene un equivoco clamoroso. Proprio in sovracoperta riporta, oltre al nome dell’autore e al titolo, la dizione Romanzo. Ora, io credo che uno dei tratti essenziali di V. sia proprio quello di non essere un romanzo; non è neppure, a mio modo di vedere, un’opera letteraria figlia della distruzione del romanzo operata dai grandi narratori del primo novecento, come Joyce, Proust, Musil: V. è qualcosa di completamente diverso, è un mix di cronaca ed epica, un frullato in cui ritroviamo gli elementi tipici del romanzo ottocentesco e del primo novecento come pure- qualcuno ha fatto notare – quelli del romanzo picaresco, ma anche i meccanismi del romanzo poliziesco, la colloquialità della letteratura della beat-generation che lo precede di poco, e molto altro. Insomma, V. è un mostro letterario, condito anche, a mio avviso, da una certa dose di autocompiacimento da parte dell’autore, che è complicato definire, ma che certamente non può essere definito semplicemente un romanzo. Sarà banale e scontato, ma a mio modo di vedere ancora oggi la definizione più azzeccata di V. è quella di opera che ha inaugurato la postmodernità. Cercherò di spiegare perché.
Se il romanzo moderno è stato lo strumento letterario dell’egemonia economica, politica e culturale della borghesia, la sua distruzione nei primi decenni del ‘900 ad opera dei grandi narratori europei è coincisa con (è stata figlia de) la grande crisi di questa egemonia. Il movimento operaio, la guerra mondiale, la rivoluzione d’ottobre avevano spazzato vie per sempre le sicurezze dei valori del positivismo; analogamente la letteratura aveva progressivamente spazzato via le proprie antecedenti modalità espressive, gli oggetti stessi di cui fino ad allora aveva trattato.
Negli anni ’30 e ’40 l’avanzata del totalitarismo fascista e la guerra che ne consegue spingono ad una necessità di serrare i ranghi culturali in difesa dei valori di democrazia, ancorché squisitamente borghesi, nei confronti della barbarie: sono gli anni della forzata fine delle avanguardie.
Nel secondo dopoguerra, per citare o quasi un grande classico italiano, tutto cambia perché tutto resti uguale: la società dell’affluenza e dei consumi, come antidoto al pericolo comunista si sviluppa nel mondo occidentale che vive sotto l’incubo nucleare. La letteratura in questa nuova situazione perde il proprio ruolo di arma principe di interpretazione e critica della realtà, soppiantata in questo da altre forme espressive più al passo con i tempi (cinema, musica…): da un lato diviene mero strumento di veicolazione del consenso al servizio della nascente industria culturale e dall’altro si rifugia in una serie di "neoqualcosa" che non testimoniano altro che l’incapacità di una espressione originale nel nuovo contesto sociale.
Ci sono però delle eccezioni, dei tentativi di mantenere alla letteratura quel ruolo di grande crogiuolo della coscienza critica di un’epoca che aveva da sempre esercitato: queste eccezioni, per riuscire, dovranno riprendere, in forme nuove, quella capacità totalizzante che ha da sempre contraddistinto la grande opera letteraria. Nella bella prefazione a V. di Guido Almansi è riportata una frase di Italo Calvino, tratta dalle Lezioni americane che è illuminante al proposito: 'La letteratura sopravvive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là di ogni possibilità di realizzazione.'
E’ proprio questo il tentativo che Pynchon a mio avviso compie, quale diretto discendente della grande letteratura antecedente, scrivendo V.: quello di comporre un’opera smisurata ed inusitata che dia il senso complessivo dell’epoca in cui è stata scritta. Siccome però per Pynchon quell’epoca non ha un senso univoco ed a prevalere è l’assurdo, siccome non si può capire questo non-senso se non raccontando anche i non-sensi che lo hanno preceduto, siccome non c’è più alcuna possibilità di comprendere quello che sta accadendo se non per piccole parti, ecco che V. non può narrare una sola storia, ma tante piccole sconclusionate storie, alcune individuali, altre corali, ciascuna imbastita con il sottile filo dell’assurdità e con grandi dosi di ironia e dissacrazione, storie con legami tra di loro apparentemente deboli ma tenute insieme dalla presenza (o dalla non-presenza) di V., il misterioso e multiforme collante sul cui significato si sono esercitate schiere di critici e lettori. Queste storie, poi, non possono svolgersi in un tempo univoco, ma saltare continuamente da un tempo all’altro (sempre comunque tempi di guerra e di rivolta, tranne – anche qui apparentemente – il 1956 della crisi di Suez in cui si muovono Benny Profane e la Banda dei morbosi). Infine, il non-senso della Storia e delle piccole storie narrate non può che riflettersi nell’acquisito non-senso della letteratura, che diviene quindi parodia di sé stessa, citazione dei suoi generi (questo per la verità era già stato fatto da Joyce).
In questo apparente caos narrativo, che lascia aperti infiniti piani d’interpretazione che a loro volta si possono disperdere in mille rivoli, quanti sono gli spunti allegorici, metaforici o semplicemente di riflessione che l’autore ci trasmette (come detto a volte con un certo autocompiacimento), mi è sembrato tuttavia di percepire un forte elemento ordinatore, un messaggio cifrato univoco che secondo me è il senso del non-senso di V. La vita di Benny Profane, il suo essere 'schlemihl e un po’ yo-yo', costretto a lavori assurdi per tirare avanti, la vita di Esther, che vuole il naso perfetto, la vita sconclusionata della Banda dei morbosi, oltre che essere la faccia triste della beat generation e, come detto, della’infanzia della società dell’affluenza e dei consumi, ha i suoi antefatti logici nelle vicende del colonialismo, della prima guerra mondiale, del nazismo, tutti pezzi di Storia apparentemente assurdi ma guidati da una logica ferrea, quella della conquista e della gestione del potere, che (e qui troviamo anche accenti che anticipano in qualche modo Philip K. Dick) condurrà ad una società sempre più spersonalizzata, se il grande olocausto globale non interverrà prima. Il caos, il non-senso sono da sempre assolutamente funzionali a nascondere ai più l’esistenza di un ordine imperscrutabile, che ci conduce incoscienti verso mete precise.
Termino non sottraendomi all’esercizio principale di chi legge il libro. Chi (o cosa) è V.? Perché nel corso del libro assume le sembianze di donne, di quadri famosi, di località vere o inventate? Quale è il loro comun denominatore, che ce ne spieghi l’essenza? Secondo me V. è il più atroce scherzo che Pynchon ci gioca: V. non è una cosa o un posto, non è un archetipo o una grande metafora. E’ semplicemente ciò che è in ogni parte del libro, è un diversivo che ci distrae da quello che sta realmente accadendo, è Pynchon che ci dice di guardare in una sua mano mentre con l’altra ci nasconde il trucco del suo gioco di prestigio. Se deve essere una metafora, V. rappresenta le armi di distrazione di massa che tanta parte hanno nella nostra società. Concentrandoci su V. e sulla sua ricerca, come Stencil, non capiremo i segreti giochi di potere che ogni storia ci narra, la barbarie che ha generato la barbarie ed il caos in cui viviamo. Penseremo che basti scoprire chi è V. per risolvere l’enigma del libro, ma V. non esiste proprio perché l’enigma del libro non è risolvibile.

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V. 2013-07-19 14:39:46 Todaoda
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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    19 Luglio, 2013
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V. come...

V. Chi è V.? Che cos’è? Quale entità superumana, collettiva, trascendente l’individualismo sociale del singolo essere umano rappresenta agli occhi dell’autore? E a quelli del lettore? Non me lo chiedo tanto per amore di dialettica, per tentare, scopiazzando le altre innumerevoli recensioni, di darmi un tono da saccente intellettualoide forbito nel parlare tanto quanto nel ragionare (purtroppo o per fortuna sono ben lungi dall’essere così), quanto perché sono fermamente convinto che la comprensione della prima opera di Pynchon, e dunque anche la sua valutazione, debbano per forza di cose passare per la comprensione del significato dell’opera e il medesimo significato a sua volta può essere intuito soltanto avendo una chiara visione di quelli che sono gli elementi principali dello scritto. In questo caso l’elemento portante, non tanto il protagonista, poiché questo o questi sono due o tre uomini, tutt’al più una banda (quella dei morbosi) o un modo di vivere rappresentativo di un epoca storica (quello dei giovani ribelli del dopo guerra che portano il peso di qualcosa che non hanno vissuto e lo rielaborano sfogandone la violenza implicita con atti ingiustificati e Hollywoodianamente iconici), dunque l’elemento portante, il filo conduttore attorno a cui ruota la vicenda è questa fantomatica, tentacolare ed enciclopedica presenza che è conosciuta come V.
Dunque è lecito riproporre l’interrogativo che migliaia di lettori, critici e letterati, si sono posti nell’arco degli ultimi cinquant’anni, da quando è stata pubblicata codesta opera: chi è V.? O per meglio dire, che cos’è?
Be V. è senza alcun dubbio il titolo del libro, questo l’ho capito e anche abbastanza in fretta a dirla tutta. Dopo qualche pagina comunque viene il dubbio che V. sia anche qualcos’altro: il modo in cui terminano i titoli di tutti i capitoli, qui ammetto di averci messo un po’ di più, ma intorno a pagina cento sono sicuro di esserci arrivato. Il problema vero è che arrivati appunto a pagina cento si ha la certezza che V. rappresenti qualcos’altro ancora, ma se chiara è la certezza sicuramente non si può dire altrettanto del significato di suddetta certezza.
L’interrogativo quindi rimane: chi è V.? Dov’è? E cosa vuole? Proseguendo la lettura la questione non si semplifica anzi, tempo di arrivare a pagina duecento e Pynchon ci presenta V. come tre o quattro donne diverse tra cui una possibile madre di uno dei protagonisti, o almeno l’amante del padre, ce la presenta come due o tre città differenti sparse qua e la per il globo, tra le quali anche l’inventata città di Veissù che forse non è poi così inventata, ma semplicemente uno pseudonimo di un luogo vero, il nome in codice di forse addirittura una nazione in cui si svolge un complotto, che prende parte a un complotto, che complotta lei stessa, la nazione, contro… non si capisce bene cosa, e per qualche motivo non se ne deve parlare e coloro che ne parlano gli succede Dio solo sa cosa, perché appunto non se ne deve parlare e non si deve sapere. Ma nessun timore, tempo un'altra decina di pagine e V. ritorna a essere l’amante del padre di uno dei protagonisti misteriosamente scomparso (il padre) durante un altro complotto, solo che questa volta il padre è un desaparecido di una città che appunto, forse, probabilmente, iniziava per “v” oppure il complotto è avvenuto proprio in una città dalla medesima iniziale, ad opera di cittadini ribelli del Venezuela, che guarda caso è uno stato che incomincia anche lui per “v.”
Ma ancora niente paura perché poi torna sempre il solito protagonista che cerca disperatamente quella donna di nome V. senza neanche sapere lui perché, solo perché sente che deve, solo perché intuisce, neanche lui sa come, che è legata alla sua storia, alla sua vita o a quella di suo padre e quale luogo migliore per cercarla se non a Malta, a La Valletta, che giusto per rimanere in tema, se qualcuno non ci fosse ancora arrivato, è una città che incomincia per V.? (Anche se a onor del vero inizierebbe con la L, ma non divaghiamo eccessivamente!)
Dunque cosa significa V.? Il, o la, V. del titolo? Forse io ne ho colto un altro significato, V. potrebbe essere anche interpretato come il numero romano cinque, V appunto, come cinque sono gli uomini crocifissi sul pettinino che si passano di mano eredi e discendenti, amanti di amori non corrisposti e progenie di amori che dunque forse erano corrisposti, ma solo per brevi istanti, solo per brevi situazioni, solo in luoghi, in città che rigorosamente iniziano tutte per “v”. Ma a ben pensarci forse il mio non è neppure un nuovo significato alla lettera V., forse non è neppure un significato, forse non è neppure tanto mio: qualcuno sicuramente avrà già interpretato il romanzo in questo modo, avrà sicuramente suggerito questa chiave di lettura, avrà sicuramente bene inteso il volere di Pynchon volto a…a che? A Cosa? E la domanda di nuovo è destinata a rimanere senza risposta perché, di nuovo, (e so che mi sto ripetendo, ma talvolta si ha la medesima sensazione leggendo il libro), perché di nuovo, arriva l’amico di quello che cerca V., e non è una comparsa di poche pagine, ma un altro vero e proprio protagonista, la cui storia si seguirà fino alla fine, che è legato, intrecciato anche lui a V. da…mah forse dal fatto che lui e quello che la cerca si sono ripassati la stessa donna un paio di volte.
E il quesito rimane insoluto ed anzi si tinge di tinte ancora più gialle, e dal chi è V.?, di prima si trasforma in “e mo cosa c’entra V.?” E la domanda è pertinente perché se il lettore aveva resistito in maniera stoica fino a questo punto ora irrimediabilmente sconfitto si perde nelle arzigogolate circonvoluzioni della storia, delle storie e di tutte le lori possibili interpretazioni.
Ma il ragionamento a livello subliminale continua e continuando a leggere, in sottofondo, a livello limbico continuiamo a trovare, tentare, creare e poi cestinare interpretazioni differenti con il rischio di partire per la tangente. Tipo si potrebbe leggere l’ormai ossessiva lettera come l’estremizzazione del concetto che non conta tanto la reale natura di una cosa quanto l’apparenza, o per meglio dire il significato che ognuno di noi attribuisce a quella cosa. Oppure si può leggere come la sintesi definitiva del concetto di femminilità, be questa è facile, è lo slogan scritto pure sul retro della copertina. Oppure potrebbe essere interpretata come la v di vittoria, la vittoria definitiva dell’oggetto sul creatore, dell’inanimato sull’animato, se ne parla anche durante il romanzo, è un’interessante riflessione/divagazione di uno dei protagonisti e dunque dell’autore stesso: vero siamo noi che creiamo gli oggetti, ma loro poi regolano il corso della nostra vita a seconda di come li sfruttiamo, a seconda dell’uso che ne facciamo, a seconda se li usiamo, li abbiamo, li capiamo, oppure no. In fondo è un po’ anche la solita vecchia diatriba che si sente ripetere in certi ambienti più o meno estremisti: una pistola, un’arma, è pericolosa? O meglio è qualcosa di sbagliato, cattivo, brutto? No, ci si sente rispondere da una parte, perché è un oggetto senza una volontà propria dunque non può avere queste qualità che sono prerogativa di un essere senziente, l’arma, e così gli altri oggetti, di per sé non hanno qualità positive o negative, dipende dall’uso che ne facciamo.
“E che uso ne vuoi fare di una pistola, ci spalmi la marmellata sul panino a colazione?”, ci sentiamo rispondere dall’altra parte, “d’accordo che non è cattiva, non vai in giro a redarguire un canne mozze perché s’è comportato male, però se non venisse neanche prodotto, e così tutte le altre armi, non andrebbero in mano a chi ne vuole fare un uso cattivo.” Resta poi da stabilire cosa sia l’uso cattivo, se l’uso buono relativo ad un oggetto è esclusivamente asservito alla sua funzione originaria allora ogni sparo di pistola è un buon uso, e ogni colpo che non centra il bersaglio è un cattivo uso, ma si sa bene che non è così e quindi si ritorna all’opinione dei pacifisti, che ogni uso è un uso cattivo, ricominciando un loop senza possibilità di risoluzione.
E come dicevo si parte per la tangente.
Tornando al libro comunque, e se V. significasse proprio questo, se fosse nient’altro che la semplificazione (si va be…) di questo concetto di dualismo uomo – materia, animato – inanimato. Se ne fa cenno nel romanzo, a questa dualità, chi è migliore? Qual è l’entità superiore? Chi regola chi? L’uomo regola la forma dell’oggetto, il suo utilizzo, o al contrario, l’oggetto, la sua forma, il suo utilizzo, regolano la vita dell’uomo? Non è un balzo sconsiderato questo, non è un’ipotesi astrusa, il viaggio di una mente sotto acido; basti pensare agli eccessi di oggi giorno, al bambino asiatico che vende i propri organi per avere un I-phone o alle scene di violenza davanti ai megastore americani all’inizio della stagione dei saldi e tutto per un televisore, una borsetta o Dio sa cosa. Assurdo, illogico, impensabile, ma purtroppo è realtà e in questo caso, chi regola chi e cosa regola cosa? L’uomo o la macchina?
Nel libro addirittura si arriva alla sublimazione del concetto, alla trasformazione totale, e questa è una delle pagine più belle: l’uomo che deluso, disilluso, ormai sociopatico vive la sua vita da spettatore esterno senza più avvertire emozioni, in preda solo al desiderio di stordirsi, di bere, di non pensare e proprio durante una di queste fasi, sotto forma di allucinazione, incontra l’oggetto inanimato che ha preso vita, il manichino da crash test che pensa, respira e vive una vita, dolorosa sì, ma per questo piena, completa, molto più intensa del suo custode, del reietto che vive ai margini della società per sua scelta. E la sublimazione si compie, l’oggetto diventa un meta-uomo che mantiene entrambe le sue nature ed assume una connotazione positiva, e l’uomo diventa meta-automa che mantiene anche lui entrambe le sue nature ma assume una degradante connotazione negativa. E dunque ecco un altro significato di V. , un significato autolesionistico, poiché alla luce di questa scoperta, della dualità di ogni vita in equilibrio tra uomo e oggetto, non conta più cosa sia la “v” ma conta cosa include, e cosa esclude, cosa contiene in se, le due nature: la donna simbolo di vita e la città degli uomini resi automi dall’obbiettivo, dimentichi o mai consapevoli dell’obbiettivo stesso, (proprio come gli oggetti di cui si servono), la città degli uomini senza volto, simbolo di distaccamento emotivo, di morte.
Forse la V. è la v di vita, quella dei protagonisti, quella dei ribelli, quella di quelli che sembrano ancora vivere, la banda dei morbosi, ma che portati all’eccesso per loro stessa natura poi tendono inconsapevolmente molto più alla morte, e dunque all’assenza di vita, o vitalità, di quanto addirittura riescano a rendersene conto.
Forse è la v di vita, e il punto dopo di essa significa che prima o poi finisce, significa tutto ciò che c’è attorno, gli oggetti inanimati, la storia dei nostri avi e del mondo, imprescindibilmente legate l’una all’altro come sono appunto la V e il punto. Potrebbe essere, infondo è un’altra interpretazione, abbastanza plausibile per giunta, giustificata da quanto si legge nel racconto, ma alla fine il dubbio rimane, la domanda iniziale sembra ancora non avere una risposta: alla fine, in sostanza che cos’è V.?
Provo a darne un’ulteriore interpretazione, l’ultima lo prometto: e se V. fosse solo un pretesto?
Se la V. del titolo non foss’altro che un abile stratagemma per tentare di legare, dare un significato, ad un’opera che ritrae in maniera disordinata, confusa, caotica la vita di un quattro o cinque persone. Se fosse solo un trucco per tenere l’attenzione del lettore ancorata ad un libro che annovera sì pagine di grandissima letteratura (leggasi l’incipit e il sopracitato passaggio con l’omino del crash test) ma che le affossa anche ingarbugliandole in una intricata serie di racconti, opinioni, punti di vista e salti geografico temporali tali da far perdere l’orientamento persino ad un Tom Tom?
Forse alla fine si svela chi è V. e che cos’è, o chi è stata e cosa è stata, ma il casino è tale e il disorientamento del lettore è così universale che anche quando lo si scopre non importa più nulla; Pynchon alla fine ci spiega chi è, ma sommersi dal mare di informazioni precedenti, quasi non gli si vuole credere. Possibile che sia tutto qui? No ci sta ingannando, in realtà V. è qualcos’altro è qualcosa di più.
Dunque alla fine chi è V.? Boh! Io non l’ho capito, letti e riletti diversi passaggi, capitoli, parti, non ci sono arrivato, forse è colpa mia, del resto si sa che non brillo per intelligenza, forse è colpa del momento, ero distratto, forse della troppo semplice spiegazione finale, ma se devo trovare per forza qualcuno a cui dare la colpa preferisco attribuirne la responsabilità a… V. stessa. Mi è molto più comodo pensarla così, tanto neanche lei, o lui, se esistesse ci capirebbe qualcosa, saprebbe chi è, cos’è e soprattutto dov’è.
E’ vero quel che dice DeLillo di Pynchon, che raggiunge vette letterarie inarrivabili ai più, o qualcosa del genere, è vero le raggiunge, il problema è che poi non si mantiene su queste vette, o per meglio dire, poiché pretendere una cosa del genere sarebbe troppo anche per Dante e Manzoni, il problema è che queste vette strabilianti, stupende, evocative, lucenti ecc. ecc. nascono sprofondante in gole di caos letterario (altrettanto irraggiungibili ai più) e dunque, per quanto le suddette vette siano superlative e splendenti, all’occhio del lettore che sta affogando nel mare dell’incomprensione, appaiono niente più che come delle piccole ancore di salvezza indispensabili per rifiatare tra un ondata di disorientamento e l’altra, indispensabili per raggiungere arrancando, un po’ in apnea, un po’ ad occhi chiusi, un po’ coi crampi la fine del libro.
Un romanzo enciclopedico, sì anche questa volta l’ultima di copertina ci ha azzeccato, ma proprio come un enciclopedia, che nessuno dotato di buon senso potrebbe mettersi a leggere dalla a alla z sperando di trovarci un filo logico, anche questo romanzo non ha un filo conduttore e tantomeno un significato.
Certo la poliedricità di punti di vista, di argomentazioni, la globalità narrativa dell’autore che non si limita alla singola vicenda ma che al contrario racchiude in un unico insieme diverse storie, opinioni, aneddoti ed epoche, potrebbe essere considerato da alcuni come un pregio più che come un difetto: l’insieme delle vite, delle storie, dei casi umani. l’insieme realtà. Ecco che per quest’ultima categoria di lettori mi sorge spontaneo un nuovo significato di V.: V. come il “vel” della teoria degli insiemi, quello di “out” e “vel”. Per tutti gli altri, se non vi ricordate cosa significa, terminata la lettura di V. andatevi a rileggere il libro di matematica della prima superiore…magari lo trovate anche più interessante.
Dicevo forse la poliedricità di V. se per alcuni non aiuta a chiarire il significato della storia e tanto meno la storia, per altri, i più masochisti, potrebbe essere invece considerato un pregio piuttosto che un difetto.
Ogni parere merita rispetto a prescindere da chi lo formuli a prescindere dalla fazione per cui vogliamo parteggiare. Parlando sempre di numeri, però, rileggendo ora la mi recensione, noto che la parola che ho usato di più dopo V. (e ci mancherebbe, ormai me la sogno pure di notte) è “forse.” Anzi a dire il vero vanno di pari passo, ad ogni V. qualche riga più in la troverete sempre un “forse.” Sarà un caso, sarà una coincidenza o sarà colpa di V.? Indovinate di quale fazione faccio parte io?...
Va bene, l’ammetto, mi sono lasciato prendere un po’ la mano, non è il caso di essere così sarcastici, è vero che molti punti sono incomprensibili e generano un senso di disorientamento globale, ma alcuni passaggi invece, i sopracitati e qualcun altro ancora, quei pochi, sono veramente degni di nota, anzi di più, proprio come dice DeLillo sono vette letterarie irraggiungibili, peccato siano solo così poche, e qui non lo dico cono sarcasmo. Peccato.
Vero in fondo si tratta solo della prima opera dell’autore, non si può pretendere più di tanto, eppure è così famosa, così rinomata, così consacrata nell’echelon dei grandi romanzi del novecento; era lecito aspettarsi qualcosa di più, qualcosa di almeno relativamente comprensibile o sensato. Peccato.
Le premesse c’erano, l’incipit è stupendo e alcuni passaggi (ma l'ho già detto e ridetto migliaia di volte)ma il resto… peccato.
Forse sono io che sono troppo presuntuoso e non avendolo capito, giudico male il libro, forse sono io che mi aspettavo troppo, ma le attese quando lo acquistai erano grandi, di nuovo, è vero che sapevo si trattava di un opera prima, che non potevo pretendere più di tanto e non era lecito aspirare al romanzo perfetto, ma almeno almeno a qualcosa di vagamente leggibile?
Peccato!

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V. 2013-04-24 17:50:19 silvia t
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4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
silvia t Opinione inserita da silvia t    24 Aprile, 2013
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V.

Non stupisce che l'opera prima di Thomas Pynchon sia stata un successo di critica e di pubblico nell'ormai lontano 1963; esemplare prodotto della corrente post-moderna, racchiude in se stesso la percezione in toto di un'epoca, in cui confluiscono passato, presente e futuro.

«[...] Dentro V., dentro lei, c'è molto di più di quanto nessuno abbia mai sospettato.
Il problema non è tanto sapere "chi" è, ma "che cosa". Che cos'è? Dio non voglia che io sia mai chiamato a fornire questa risposta, né in questa sede, né in qualsiasi rapporto ufficiale.[...] »

Così come dentro V. c'è qualcosa di più di quel che appare, così dentro al romanzo c'è un mondo di difficile comprensione raccontato con uno stile semplice e immediato, privo di virtuosismi letterari, ma con un lessico ricco e ricercato. I personaggi sono caratterizzati in modo attento e ognuno ha un ruolo fondamentale nella struttura del racconto, la quale può ad una lettura superficiale, apparire confusa e casuale, ma che, al contrario, è precisa e mai ridondate. In sintesi la trama è composta da due fili: il romanzo di Stecil che ricerca V. e il romanzo di Benny che cerca di sopravvivere con stenti e privazioni in un'America ormai priva di una guida e di valori, egli uomo inetto che si troverà a far parte della "banda dei morbosi" in cui ogni individuo vive di espedienti, felice di farlo. I due fili si intrecciano in un modo che appare casuale, ma quasi prestabilito da una Storia che si riflette in se stessa ripetendosi in un ciclo infinito e immutabile. I personaggi secondari sono le fondamenta su cui si poggia tutto il romanzo, creano la base forte e resistente che sostiene il peso di concetti inespressi, ma tangibili. Attraverso di essi Pynchon urla a gran voce il suo pensiero, antirazzista contrario ad ogni forma di oppressione, utilizza avvenimenti storici, come la rivolta e lo sterminio degli Herero rappresentandoli come irreali, descrivendo la barbarie e l'inumanità della vicenda, producendo un senso di straniamento nel lettore che non comprende più ciò che è reale e ciò che non lo è, poiché l'autore si diverte con esso, lo confonde, lo pone di fronte alla sua ignoranza.
Proprio questa impertinenza è la forza del romanzo, perché non si limita a citare, in un nozionismo sterile, spiega, racconta , descrive, arricchendo il lettore, ma confondendolo, poiché se privo della cultura necessaria, dovrà documentarsi per comprendere qual è la verità e quale la finzione.
Un gioco di specchi in cui ogni personaggio si riflette nell'altro vedendo i propri difetti e rifuggendoli, ma senza riuscire a liberarsi di essi, in cui gli eventi non riescono a riconoscersi e a cambiare, l'olocausto degli Herero richiama quello degli ebrei, la rinoplastica di Ester, giovane dall'adiato naso adunco, si fa metafora della condizione del popolo ebraico e gli esempi potrebbero continuare senza soluzione di continuo per molto tempo.
Una bellissima immersione in un mondo fin troppo reale, in cui gli odori si sentono, l'oscurita e lo squallore si vedono, in cui niente è solo ciò che è rappresentato, ma si fa metafora di un concetto universale, in cui ogni tassello serve a comprendere la complessità di V., che è tutto ed è nulla, evanescente ed inutile come solo la vita sa esserlo. Forse alla fine V. non è altro che l'essenza dell'esistenza, quell'inseguire uno scopo che non esiste, quel cercare significati a ciò che significato non ha.
Opera cardine della corrente post moderna che non può mancare al bagaglio culturale di un lettore, ma che deve seguire, senza ombra di dubbio, un senso cronologico, deve essere posta al suo giusto posto nella disgregazione, tutta novecentesca, del romanzo classico, altrimenti appare vuota e incomprensibile.

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