Underworld Underworld

Underworld

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Il 3 ottobre 1951, al Polo Grounds di New York, si gioca una leggendaria partita di baseball tra i Giants e i Dodgers. Della palla con cui viene battuto l'altrettanto leggendario fuoricampo che assicura la vittoria e il campionato ai Giants si impadronisce un ragazzino nero di Harlem. La palla viene via via rubata, venduta, regalata: la ritroveremo anni dopo in possesso di Nick Shay, un waste manager, un dirigente dell'industria del riciclaggio di origine italiana che nel '51 era a sua volta un ragazzino, un passo più in là, nel Bronx. Nel romanzo di DeLillo i passaggi di mano della mitica palla sono il filo narrativo per la costruzione di un gigantesco quadro dell'America dall'inizio della guerra fredda fino al crollo dell'Unione Sovietica.



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Underworld 2019-09-16 11:45:16 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    16 Settembre, 2019
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TUTTO E' COLLEGATO

“La civiltà non era nata e fiorita tra uomini che scolpivano scene di caccia su portali di bronzo e parlavano di filosofia sotto le stelle, mentre l’immondizia non era che un fetido derivato, spazzato via e dimenticato. No, era stata la spazzatura a svilupparsi per prima, spingendo la gente a costruire una civiltà per reazione, per autodifesa. Eravamo stati costretti a trovare il modo di liberarci dei nostri rifiuti, di usare quello che non potevamo gettare, di riciclare quello che non potevamo usare. La spazzatura aveva reagito alla spinta crescendo ed espandendosi. E così ci aveva costretti a sviluppare la logica e il rigore che avrebbero condotto all’analisi sistematica della realtà, alla scienza, all’arte, alla musica e alla matematica.”

Cosa c’entra la spazzatura con la bomba atomica? E Lenny Bruce con Edgar J. Hoover? E un killer seriale che sceglie le sue vittime sulle autostrade del Texas con John Fitzgerald Kennedy? E il successo di una artista d’avanguardia con la scomparsa di un padre di famiglia o la storia di un ragazzo che dipinge graffiti sui vagoni della metropolitana? Apparentemente niente, si sarebbe tentati di dire. Ma in un mondo in cui “tout se tient”, De Lillo si erge ad artefice di un’opera titanica: quella di descrivere la storia americana del XX secolo attraverso l’accostamento di decine di micro-storie apparentemente slegate le une dalle altre, ma che in realtà risultano essere, nell’ambizioso piano dello scrittore, altrettante tessere di un puzzle gigantesco, la cui immagine complessiva vuole essere nientemeno che quella, poliedrica e composita, dell’America del secondo dopoguerra. “Perché alla fine tutto è collegato”, afferma Matt, uno dei tanti personaggi del libro a pag. 496. E Edgar J. Hoover, a pag. 615, gli fa eco con parole quasi identiche. Se “tutto è collegato”, la chiave di lettura di “Underworld” è allora quella di rintracciare i leit motiv, a partire da quello della palla da baseball che, dallo stadio dove si disputa la memorabile finale tra Giants e Dodgers, passa di mano in mano nel corso degli anni, per arrivare infine in possesso di Nick Shay, che la conserva come un simbolo tangibile del fallimento e della sconfitta, l’ambigua ipostasi di un’infanzia difficile e anche di un quartiere, il Bronx (raccontato in pagine di straordinario fascino evocativo, che tradiscono l’origine italo-americana dell’autore), a cui si è indissolubilmente legati da un equivoco rapporto di odio-amore, e che non lascia altra scelta se non rimanervi pervicacemente attaccati come un mollusco a uno scoglio per cercare di sopravvivere ai propri ricordi (come fa Albert Bronzini, con masochistica fedeltà alle proprie tradizioni) o fuggire invece verso altri lidi per inseguire un successo altrimenti impossibile (Nick, Klara) o semplicemente per liberarsi dal fardello del proprio insopportabile presente (il padre di Nick).
Ho detto della palla da baseball, il McGuffin di cui si serve De Lillo per scorrazzare avanti e indietro attraverso i decenni, del Bronx, vero cuore pulsante del romanzo, e di Nick Shay, non a caso l’unico personaggio a parlare in prima persona. Partendo da questi capisaldi e usando il procedimento della ramificazione o del domino, De Lillo introduce una dozzina di personaggi, alcuni reali (Hoover, Bruce, Sinatra), i più immaginari, seguendoli a ritroso nel tempo (questa è una delle più notevoli invenzioni del romanzo, dal momento che personaggi e avvenimenti acquistano senso solo retrospettivamente, man mano che si risale al contrario la corrente degli anni) e divertendosi a far intrecciare le loro traiettorie esistenziali. E’ così che ad esempio, nella seconda parte (“Elegia per sola mano sinistra”), da Marian, la moglie di Nick, si passa a Brian, suo collega, quindi a Marvin, il possessore della palla, e via via, successivamente, allo stesso Nick, a suo fratello Matt, ad Albert Bronzini (insegnante di Matt in pensione) e a suor Edgar (insegnante di religione nella stessa scuola). E i personaggi che non sono collegati direttamente, vengono da De Lillo associati per mezzo di una sofisticata tecnica di riferimenti pseudo-storici o culturali (ad esempio, la nave cisterna che trasporta da anni un carico misterioso di cui si favoleggia nell’ambiente di lavoro di Nick è la stessa che casualmente vede Marvin al porto mentre attende invano lo sbarco del presunto possessore della palla, l’aereo che Klara Sax sta dipingendo è lo stesso bombardiere in viaggio verso la Corea su cui vola il figlio dell’uomo che molti anni prima ha acquistato la palla, il quale a sua volta è l’autore della pubblicità del succo d’arancia sul cui cartellone appare miracolosamente il viso di una ragazzina morta davanti agli occhi di una folla di curiosi, tra cui c’è anche Ismael, l’ex Moonman graffitaro dei treni, e via così, in un gioco di continui, affascinanti e complessi rimandi intertestuali). Su tutto si stende l’ombra della guerra fredda (la partita tra Giants e Dodgers coincide con il primo esperimento atomico dei sovietici), della corsa agli armamenti (gli esperimenti segreti cui collabora il giovane laureato Matt e le dicerie sui tremendi effetti delle radiazioni sulla popolazione locale) e della paranoia (ben rappresentata dal “moriremo tutti quanti” di Lenny Bruce, ma anche dalle farneticazioni di un predicatore da strada che legge la fine del mondo nei simboli massonici presenti nei dollari americani o di Marvin, il quale avanza inquietanti sospetti sulla natura della macchia sulla testa di Gorbaciov o sulla reale esistenza della Groenlandia). Col passare degli anni la guerra fredda lascia il posto a un clima non meno inquietante, dominato dal potere pervasivo delle immagini (l’assassinio di Kennedy proiettato su una moltitudine di schermi televisivi, così come le imprese omicide del Texas Highway Killer) e soprattutto dall’avvento dell’era della spazzatura, delle scorie radioattive e dei rifiuti tossici, il quale chiude il cerchio con una simmetria impressionante (il viaggio di Nick nel Kazakistan, dove i russi distruggono con esplosioni atomiche le sostanze radioattive provenienti da tutto il globo: l’atomica diventata un business come gli altri!) e sancisce il passaggio dal “trionfo della morte” scampata al trionfo del capitalismo globale.
In uno dei capitoli iniziali del romanzo, Nick Shay e due suoi amici sono a Los Angeles per assistere a una partita di baseball seduti dietro al vetro di un ristorante interno allo stadio, e uno dei due si lamenta di non riuscire a sentire il rumore della folla, e quindi di vivere quell’esperienza in maniera asettica, quasi virtuale. Ecco, De Lillo in “Underworld”, da narratore di razza qual è (un narratore postmodernista, certamente, ma anche, per certi versi, ottocentesco, tolstojano, e comunque ben distante dal minimalismo così di moda in questi anni), vuole farci sempre avvertire la presenza della folla, e attraverso di essa lo spirito stesso della Storia (“sono i desideri su vasta scala a fare la storia”): anche se i personaggi che possono essere definiti principali sono all’incirca una dozzina, tutto intorno a loro, all’interno della vasta mole del libro, si agita un’intera umanità con i suoi sogni, le sue ossessioni, le sue paure, le sue miserie, le sue vittorie e le sue sconfitte, umanità simboleggiata dagli spettatori dell’evento sportivo posto in apertura (così come dagli altri avvenimenti “pubblici” tratteggiati più avanti, come la repressione delle proteste antirazziali negli anni cinquanta o la contestazione giovanile degli anni sessanta), e che funziona in qualche modo come il coro in una tragedia greca, sempre presente anche quando sta in silenzio, dietro le quinte.

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Underworld 2018-05-08 18:14:57 silvia t
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silvia t Opinione inserita da silvia t    08 Mag, 2018
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Underworld

Ho conosciuto Delillo grazie a Pynchon e al suo bellissimo “V” che ho recensito qualche secolo fa.
Appena uscito ho letto “Zerok” e mi è piaciuto, per molti motivi, ma che alla luce di “Underworld”,adesso, lo trovo deficitario di emotività.

“Underworld” è passato, presente e futuro condensato in un unico lunghissimo istante; il prima influenza il dopo, ma è vero anche il contrario; si comprende, si giudica, si vive leggendo questo libro.

Un lento scorrere di eventi, senza un fine, senza una storia, senza un inizio e senza una conclusione, la semplice forografia di un epoca, lo spaccato di una società in cui la storia ha lasciato il segno e ha condizionato gli individui nel loro privato, nel loro intimo.

La storia, spesso intesa come un fardello del passato, si trova tra gli anni cinquanta e novanta a essere protagonista della quotidianità: la paura della guerra nucleare, la costruzione dei rifiugi antiatomici, l’aria imbibita della caducità e insicurezza del futuro.

In questa America quanto mai potente, ma formata da individui impauriti e quasi paralizzati da una fine imminente alla quale di arrendono impotenti, una cosa unisce tutti e a tutti parla: il baseball, sport nazionale, foriero di spensieratezza e di miracoli.

Vera metafora della vita: quando tutto è perduto, il miracolo; quando si sta scendendo gli spalti col cuore in lacrime ecco il fuoricampo che concretizza il sogno, il colpo che ribalta la realtà.

Quella palla rappresentate di tutto questo, nella realtà fu persa e mai ritrovata, ma Delillo ne ipotizza la storia e la mette sullo sfondo di un racconto, ma non immaginate che essa sia protagonista, non immaginate un mero esercizio di stile in cui la palla scorre del tempo e sullo sfondo ci sono i personaggi; no, Delillo non farebbe mai una cosa così banale nel suo capolavoro, lui riesce a dare il giusto peso alla palla, a quell’idea di sogno, a quella scintilla che porta il cambiamento, ma che se non alimentata lo lascia a se stesso, come instante glorioso, ma relegato nel passato.

Allora ecco la palla si fa segreto cimelio di un mondo lontano in cui tutto era diverso, in cui la povertà incombeva e se anche si sarebbe voluto utilizzarla per altri scopi, si è costretti a darle un valore economico e non emotivo, materiale e non trascendentale.

La palla passa di mano in mano, come rappresentate di una speranza, cimelio segreto di una vita di stenti e di riprese, di sbagli e di redenzioni.

Tutto questo, che può essere riassunto in poche parole contiene l’essenza della vita stessa e la riporta con una forza tale da lasciare il lettore inerte alla conclusione delle novecento pagine che passano in un attimo, ma restano dentro come una pietra miliare.

Il tutto con lo stile assolutamente perfetto di Delillo che descrive ed emoziona rendendo la lettura un’esperienza quasi virtuale.

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Underworld 2016-08-27 10:50:06 the boy who read
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the boy who read Opinione inserita da the boy who read    27 Agosto, 2016
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Chi ben comincia è a metá dell'opera.....oppure no

Libro ampiamente sopravvalutato... mi era stato riferito che questo era il capolavoro di Delillo, il capolavoro del post modernismo, mai trovato più in disaccordo.
Certo lo stile è qualcosa di incredibile, ti lascia di stucco. Delillo infatti ha una spiccata dote descrittiva che emerge sopratutto nel primo e ahimè, unico meraviglioso capitolo. L'unico capitolo che è riuscito a fare un affresco dell' America del periodo.... veramente magistrale.
Passiamo alle noti dolenti: il libro per 500 pagine mi ha annoiato e basta, sciapo, senza uno straccio di senso, insomma descriveva la vita dei protagonisti.... e niente più. Ma ciò che manca è la palla, palla che dovrebbe essere protagonista della storia quando in realtà è quasi del tutto assente. Un'altra cosa che manca è l'America ovvero l'altra protagonista del libro, si ci sono dei cenni ma soltanto dei cenni.
Parliamo dei personaggi, tutti pieni di dilemmi, di problemi, pieni di scelte che dovrebbero fare ma non fanno e non si sa bene il perchè.
Spezzo una lancia in favore del libro perchè possiede dei momenti alquanto evocativi e di questo a Delillo ne dò atto ma per tutto il resto.....
Insomma qui vedo gente dare 5 stelle su 5, forse sono io che non ho afferato del tutto il libro o forse il contrario.... sinceramente non so. Resta il fatto che é un libro molto pesante e che per la prima volta non sono riuscito a finire un libro. Si ho letto 550 pagine ma poi mi sono arreso

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Underworld 2014-04-22 13:05:04 Matteo
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Opinione inserita da Matteo    22 Aprile, 2014

Immenso

Underworld è un'analisi soggettiva della storia americana dagli anni 50 fino al 1989, quindi dall'inizio alla fine della guerra fredda. delillo per attuare questa analisi utilizza un abile e sofisticato stratagemma ossia quello della pallina da baseball (lo sport nazionale popolare che unisce ma che divide, che è espressione immutabile di un collettivo), una pallina che dopo il fuori campo di una famosa partita (del 1951 inizio della guerra fredda) finisce nelle mani di un ragazzo di colore. questa pallina passa di mano in mano, di persona in persona, costruendo la narrazione soggettiva della storia americana dagli anni 50 alla caduta del muro di Berlino. ne esce fuori un immenso affresco storico e sociale che rappresenta la vera storia americana di quel periodo, una storia soggettiva di idee, fatti, persone e pensieri diversi ma tutti collegati a formare un unico grande collage. De lillo non vuole lasciare nessun messaggio morale, non vuole lanciare nessuna critica ma si affida alla storia e tramite essa ci sprona a riflettere e a pensare su ciò che siamo e su ciò che abbiamo fatto, il dubbio immenso che lascia questo capolavoro è: meglio vivere in una società dove gli ideali (con tutti i contro ben descritti, anche definibili dalla narrazione ideali spazzatura) contano e tengono uniti un popolo (l'America descritta dalla storia della guerra fredda) oppure in una società dove gli uomini sono soli, liberi da condizionamenti, capaci di distinguere in modo post-ideologico ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, ma vivono anche senza ideologie, senza speranze, senza valori e senza illusioni? questo è un romanzo immenso, stilisticamente perfetto, l'apice del postmodernismo la più alta riflessione mai letta non solo sulla storia ma sul tempo, a me ha lasciato una visione del mondo completa, ha emozionato, e naturalmente mi ha fatto riflettere (e non poco!).

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Underworld 2013-07-16 10:27:43 Cambè
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Cambè Opinione inserita da Cambè    16 Luglio, 2013
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la sublime opera di un grande narratore

Premetto che De Lillo per me è uno dei più grandi narratori degli ultimi 40 anni. Questo libro è molto diverso dalla produzione precedente. Sicuramente una lettura impegnativa, da una parte per la quantità di pagine, dall'altra per il cerebrale procedere delle pagine, ma mi permetto di dire che rasenta il capolavoro assoluto. Sublime la descrizione nelle prime 100 pagine del volo della palla da baseball e il susseguirsi di immagini di una potenza ineguagliabile: già solo per questo il romanzo meriterebbe onori e gloria. Geniale la vicenda della palla che passa di mano in mano. Geniale il lavoro del protagonista che attraverso ciò che sta nel "sottosuolo" e la "spazzatura" fa un'analisi dettagliata e crudele della società americana e occidentale.

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Pynchon, Ballard, Robbins, D.F. Wallace, Roth, Leyner, Tolstoj
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Underworld 2013-07-15 12:39:50 Todaoda
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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    15 Luglio, 2013
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L' enciclopedia dei difetti della società

L’individuo lasciato a se stesso. Underworld di DeLillo narra della perdita di identità sociale dell’americano medio, e per estensione di chi suole definirsi occidentale, alla fine della guerra fredda, quando viene a mancare cioè quella che agli occhi della società democratica - capitalista è l’incarnazione di ogni male: il blocco sovietico, il comunismo.
In qualsiasi dicotomia, bene – male, vero – falso, giusto – sbagliato, se viene a mancare uno dei due termini, dei due estremi, anche l’altro perde di significato. L’U.R.S.S. crolla, il muro di Berlino viene abbattuto, l’America non si sente più in dovere di ergersi a paladina del bene e così gli stessi americani non si sentono più tanti piccoli eroi votati fin dalla nascita a combattere il male, per eredità nazionale ed elezione divina. Ora sono soli, singole unità dentro un oceano di possibilità, non più legati da quella comunione di intenti implicita dell’ essere occidentali, del risultare alla anagrafe come Mr. Smith o Mr. Johnson.
Nel libro si narra la trasformazione del singolo come riflesso della trasformazione collettiva e questa trasformazione per alcuni aspetti rappresenta una perdita di valori, per altri è l’acquisizione di nuovi: ci si lascia alle spalle la patria, il nazionalismo, il comune senso del dovere e si acquista l’individualità, il personale senso di giustizia, la soggettiva misura di ciò che è corretto e di ciò che non lo è. O almeno così dovrebbe essere se tutto andasse per il verso giusto, se gli esseri umani fossero animali razionali, logici, ma così non è e DeLillo lo sa bene: con l’inesorabile sfilacciarsi della grande coperta del nazionalismo, che nascondeva ogni problema alla luce di un obbiettivo comune tanto aulico quanto fittizio, tutti i vizi e le virtù proprie dei normali, banali, esseri umani emergono, sbocciano, risaltano.
La nascita dell’uomo medio e la scoperta delle sue origini, Underworld è la storia recente della America vissuta attraverso le vicende dei singoli americani,ognuno divisio dalle proprie pareti domestiche, ognuno portavoce del proprio pensiero e giudizio.
Il nemico malvagio dunque si è disgregato, e i paladini della giustizia, l’esercito del bene, rischiano di fare la stessa fine, ma se le singole componenti di un ingranaggio si guastano l’intero meccanismo si guasta.
La società occidentale si guasta? Questo non è accettabile, vorrebbe dire la fine della civiltà, dunque come fare per tenerla unita di fronte alla nuova crisi? Lo stato, la nazione, con la sua potenza, nella sua globalità, può fronteggiare solo problemi su vasta scala contrapponendo “bene” al “male”, violenza alla violenza, ma se il problema non può essere risolto in questi termini, se è molto più sottile, invisibile, interno? Come si può operare per risolverlo? Non certo con un’altra guerra, e allora cosa?
Underworld è la concezione che ha DeLillo degli ultimi cinquant’anni di storia americana ed è una concezione nostalgica e ironicamente pessimistica: l’uomo che finalmente è lasciato a se stesso ha una crisi d’identità. E per via di questa non riesce più ad aggregarsi ai suoi pari poiché non ne condivide i valori, poiché in primis non accetta i propri di valori, non li riconosce più come tali.
Che fare? Nei momenti di crisi di solito si fa affidamento a delle entità superiori, ai simboli, a quegli oggetti che rappresentano l’idealizzazione di ogni cosa in cui si crede. Per i cristiani è Dio, per i mussulmani è Allah e per gli americani disillusi è il baseball: lo sport tipicamente nazionale, l’unico valore rimasto a una società in disfacimento per mancanza di stimoli (così la vede l’autore): la guerra fredda è finita, lo spauracchio sovietico anche, cosa rimane per sentirsi tutti uniti? Per la difesa di quale valore ora si può combattere, morire? Il baseball. Ma lo sport, se da una parte unisce una nazione, dall’altra la divide profondamente. Nell’insieme baseball, ma così è per ogni sport, si creano tanti sottoinsiemi, tanti quanti sono le squadre della lega. Se poi si tratta di arraffare un cimelio dal valore economico, storico e affettivo inestimabile, i sottoinsiemi si suddividono ancora di più: in tante parti quante sono le persone interessate, quante sono le persone allo stadio, quante hanno sentito alla radio del fuori campo. E si è di nuovo soli.
L’uomo mosso da un intento puramente egoistico dimentica nuovamente, cosa vuol dire far parte della patria, della stessa nazione, della stessa città, della stessa squadra e lotta con il suo vicino, lo insegue, lo picchia, lo deruba. Questo è l’eterno dilemma dello sport che unisce e disgrega, che abbatte le mura domestiche per accomunare ma anche per dissociare, per stringere la mano al proprio vicino e al contempo graffiargliela, mordergliela e strappargli il simbolo la cui proprietà acquisita ri-eleva il possessore a status di eroe, di paladino del bene.
Homo homini lupus, l’individuo lasciato a se stesso che vuole comunque essere superiore agli altri, a scapito degli altri. Underworld è la storia del disfacimento subliminale, limbico, sotterraneo (da qui forse il titolo) della società americana alla luce dei fatti degli anni novanta, della perdita di identità per via della perdita di una nemesi, il tutto narrato attraverso “gli occhi” di coloro che hanno, vogliono, ricercano o sono casualmente venuti in contatto con la pallina da baseball, con quella pallina di quel fuoricampo, di quella partita in quel giorno che simbolicamente potrebbe sancire l’inizio della guerra fredda. Un oggetto specifico, di una specifica partita, di uno specifico momento storico, che dunque trascende il suo banale significato di oggetto ludico e, trasformato in icona, diventa il simbolo della nostalgia, il simbolo del ricordo di quando si era tutti uniti e si sapeva cosa si faceva, di quando si era una nazione, di quando una pallina scagliata sugli gli spalti rappresentava l’identità di un popolo.
Un tempo un saggio disse che le religioni (e con esse i loro simboli) hanno ammazzato molti più uomini di quanti ne abbiano salvati. Se ciò è vero lo stesso vale sicuramente anche per i simboli laici: il denaro, la falce e il martello, la svastica, una pallina da baseball etc. etc. Forse è così, ma se non ci fosse più niente per cui lottare, neppure una palla, un guantone o una scarpetta chiodata, cosa rimarrebbe all’uomo? Al pari della palla, così per tutte le altre icone religiose e non, forse siamo noi che creiamo i simboli, che gli diamo valore, per nutrire quella sete di violenza intrinseca nell’uomo, per sfogare quel bisogno di lottare per quello in cui crediamo, forse è la natura stessa dell’uomo che ci porta a trovare per forza un nemico, anche quando questo non c’è, anche quando questo è solo il compagno di bevute durante la partita.
Homo homini lupus.
Forse è proprio l’uomo il simbolo e non sopportando di riconoscersi come l’estremizzazione di ogni suo vizio, anzi come l’estremo stesso, ha bisogno di esternare i propri sentimenti investendo un oggetto inanimato di valori che di per sua stessa natura l’oggetto non ha, sia questa una banconota, una falce, un crocifisso o una pallina da baseball; poiché se non lo facesse non gli rimarrebbe nulla, non gli rimarrebbe più nulla in cui credere, per cui lottare…non gli rimarrebbe più neppure se stesso.
Homo homini lupus. L’individuo solo e alla ricerca di se stesso per continuare a illudersi, Underworld è la presa di coscienza dell’uomo che non riesce a ritrovarsi negli oggetti, nel valore che attribuisce a questi. E’ la disillusione ed è lo sguardo nostalgico al tempo perduto, a quando non si avevano dubbi ma solo certezze, magari sbagliate, false, ingiuste, ma pur sempre certezze.
Ora invece ci sono i computer (gli anni novanta rappresentano l’inizio del boom informatico) e tutto sembra più facile, a portata di mano, di mouse, tutto è collegato, iper-collegato, le possibilità di accedere alle informazioni sono praticamente illimitate e l’occhio critico con cui si osserva la storia diventa più oggettivo, equilibrato…e se con questa visione totale, universale, divina, si scoprisse che quello in cui si era creduto per una vita intera era sbagliato? Se si scoprisse che ci si era ingannati, che quei pochi valori rimasti, che coincidono spesso con l’intima morale di ogni essere umano, non sono nient’altro che un inganno, un’ utopia, cosa ci rimarrebbe se non la nebbia del dubbio? Negli anni cinquanta, sembra dirci DeLillo, l’uomo sapeva cosa voleva, magari era un’illusione, magari era un inganno, ma almeno era una certezza, ora invece ci sono i computer e la visione è molto più ampia; attenzione però perché se è troppo ampia si perdono i dettagli, si perdono i particolari, i singoli elementi costitutivi, gli uomini e la loro storia, la propria storia, la propria vicenda personale e non si riesce a definire più cosa è reale e cosa non lo è fino a che persino ogni singola parola, persino la parola, l’ultima, quella con cui si chiude il libro, la più bella, rimane il dubbio che in realtà non esista, che in realtà, al pari della pallina da baseball, sia nient’altro che un simbolo, un’ utopia.
Potrei come faccio di solito aggiungere qualcosa sullo stile dell’autore, che alterna accattivanti note noir ad altre impregnate di un tale eccessivo lirismo da riuscire a sublimare ed eternare l’immondizia di una discarica a cielo aperto (non è una metafora, lo fa realmente), potrei anche aggiungere qualcosa sul forte, e al tempo stesso solo presunto, simbolismo dell’opera, talvolta così perfetto da far rivivere la sensazione di un’epoca, il sapore di una decade, talvolta così pretenzioso che ci si può aspettare da un momento all’altro la descrizione di un cesso che trascende la storia moderna per la sua marmorea lucentezza (stavolta è una metafora), e potrei poi tornare di nuovo a parlare dello stile, talvolta così ispirato e totale da riassumere in una singola frase tutto il significato del libro e altre volte così prolisso e fine a se stesso da non riuscire a spiegare il significato della suddetta frase neanche in novecento pagine. Potrei, ma sarebbe come osservare un quadro analizzando ogni singola pennellata, ogni millimetro di colore: un lavoro inutile, fuorviante, un lavoro persino anacronistico se si vuole dar adito alla mia interpretazione del messaggio di DeLillo, poiché trascurerebbe il significato d’insieme dell’opera, il suo impatto globale, le necessità dell’uomo moderno. Dunque proprio alla luce di quest’interpretazione, in cui i dettagli si svalorizzano cadendo in secondo piano rispetto al risultato finale del libro, alla luce della capacità dell’autore di aver concepito una simile opera, ed esser riuscito a realizzarla in maniera unita, legata e soprattutto sensata, alla luce di tutto ciò, non mi addentrerò oltre nell’analisi dello stile e dei significati e mi limiterò a dire che non c’è miglior modo di classificare Underworld se non quello di definirlo il caposaldo della letteratura contemporanea.
…sempre partendo dal presupposto che la mia interpretazione del messaggio di DeLillo sia valida.

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Underworld 2012-12-03 01:10:09 Giovannino
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Giovannino Opinione inserita da Giovannino    03 Dicembre, 2012
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L' America intorno ad una palla da baseball

Inizierò questa recensione con una premessa: se cercate un libro leggero, di facile lettura e da leggere senza troppo impegno, lasciate subito perdere. Questo romanzo è infatti tutt'altro che semplice. L'ho preso in libreria per due motivi: il primo è la curiosità verso De Lillo (è infatti il suo primo libro che leggo) ed il secondo motivo è la mia passione per il baseball, cosa che poi mi ha portato a leggerlo tutto, nonostante i momenti di calo che, seppur rari, ogni tanto troviamo in queste 880 pagine. Si, avete letto bene, 880 pagine. Un libro di un peso e di uno spessore notevole che unito allo stile complesso e ricercato dell'autore da come risultato un romanzo per nulla facile da leggere. Il libro inizia con la semifinale delle World Series di baseball tra i Giants ed i Dodgers, partita vinta dopo una grandissima rimonta da parte dei Giants e conclusa con quello che poi è stato definito "The shot heard 'round the world" e cioè il fuoricampo con il quale Bobby Thomson da la vittoria ai Giants. Ebbene, nella realtà, quella palla non è mai più stata trovata (essendo finita fuori dallo stadio) per la disperazione dei collezionisti, nel romanzo invece quella palla finisce sugli spalti e viene recuperata da un ragazzino di colore entrato allo stadio dopo aver scavalcato i cancelli. Dopodiché parte il romanzo, che seguendo i canoni del postmodernismo non anticipa mai le linee guide, bensì si limita a raccontare gli avvenimenti così come avvengono. E così i vari capitoli si avvicendano tra passato e presente seguendo i vari passaggi di mano di questa palla-cimelio. Non c'è un protagonista vero e proprio, anche se sicuramente Nick e Suor Edgar sono i caratteri di cui si parla di più nel libro, ma anche Brian, Marian, Grace, Lenny, Ismael e molti molti altri hanno il loro spazio. Tutti quanto entrano nel romanzo e ci lasciano qualcosa, per poi uscirne e lasciare il campo a lei, la vera protagonista del romanzo, l'America. L'America dal 1951 alla fine del secolo (campeggiano infatti sulla copertina del libro, uguale in ogni ristampa, le Twin Towers) con le sue paure, le sue contraddizioni, le sue certezze e i suoi costumi è l'unica "protagonista" che non abbandona mai la scena. Non è facile seguirlo tutto questo romanzo, un po' per la lunghezza, un po' per lo stile (che non aiuta) e un po' per i continui scambi tra presente e passato che spesso a distanza di poche pagine ci portano a leggere prima di un Nick adulto e poi di un Nick bambino, e così via. Tuttavia se avete la pazienza e la voglia di avventurarvi in una lettura simile potreste fare un viaggio attraverso l'America che non vi aspettate e scoprire poi che alla fine, nonostante le distanze spazio-temporali, non è poi così distante dal nostro paese. De Lillo va capito e seguito, non è per tutti, ma rimane comunque un grande della letteratura moderna.

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