Una terra chiamata Alentejo
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IL NIBBIO E LA FORMICA
“Ci sono, quante, venti persone, e ciascuna di loro sarebbe una storia, neanche si immagina, anni e anni di vita rappresentano un lungo periodo e tante vicende, se ognuno scrivesse la propria vita, che grande biblioteca, dovremmo portare i libri sulla luna, e quando volessimo sapere chi è o è stato Tizio, dovremmo andare nello spazio per scoprire quel mondo, non la luna, ma la vita”
Il nibbio e la formica. Questi due animali, che ricorrono con insolita frequenza nel corso di “Una terra chiamata Alentejo”, potrebbero ottimamente fungere da metafora per descrivere il modo in cui Saramago affronta le sue storie e osserva i suoi personaggi. Il suo punto di vista oscilla infatti come un pendolo tra distanza e partecipazione, tra distacco e coinvolgimento, tra ironia e pietà. L’atteggiamento del romanziere è un po’ quello di un dio che, dall’alto dei cieli proprio come un nibbio, ha sotto gli occhi il fluire incessante e inesorabile degli anni e delle generazioni, in una parola della Storia, ma non è così distratto e indifferente da non voler prestare la sua attenzione ai lamenti degli ultimi, alle sofferenze di coloro che nella grande macchina del latifondo sono solo dei numeri, a tutto ciò che è masticato, triturato e sputato come un rifiuto dalla Storia stessa, e per fare ciò (proseguendo in questa prospettiva – se così si può dire – cristologica) scende dal suo empireo per porsi finalmente ad altezza d’uomo (e di formica...). E’ questa posizione, che coniuga la lucidità di chi osserva le cose da un altro pianeta con la compassione di chi invece in questo mondo è immerso fino al collo, a fare di “Una terra chiamata Alentejo” un emozionante ibrido artistico.
Che cos’è infatti “Una terra chiamata Alentejo”? Una saga familiare, un romanzo sociale oppure un affresco storico? O ancora, un’opera realistica oppure fantastica? Individuale o collettiva? Credo che siano corrette tutte queste definizioni, a patto che le si integri e le si trascenda con l’ottica indicibile e ineffabile dell’autore – deus ex machina che esce ed entra continuamente dalla scena, beffandosi della cronologicità, della verosimiglianza e della costruzione classica del racconto. Prendiamo ad esempio questo passaggio: “Se rimanessimo da questa parte, se seguissimo la donna, …, e se ci accingessimo per esempio a giocare con suo figlio, non sapremmo che cosa succederà, ed è una cosa che non faremo assolutamente… Non siamo arrivati in tempo per assistere ai preliminari. Abbiamo perso tempo a guardare il paesaggio e a giocare con il ragazzino”. Saramago, come si può notare, non si cura affatto di celare la finzione, anzi si diverte a esplicitare il ruolo del narratore, rendendolo a volte onnisciente (il flashback con cui svela la lontana origine degli occhi azzurri di João Mau-Tempo o il flashforward con cui viene anticipata la morte di Domingos Mau-Tempo), altre volte divagante (quando si sofferma a parlare di personaggi che non c’entrano nulla con la storia, fingendo di perdere addirittura il filo della narrazione per suggerire al lettore l’esistenza di una miriade di altre storie accanto a quella del romanzo), altre volte ancora reticente (come nel brano sopra citato, in cui lo scrittore sembra muoversi e agire con i limiti di un personaggio fisico).
Da tutto quanto si è detto, si evince che “Una terra chiamata Alentejo” è un romanzo in qualche modo sperimentale, che non si lascia definire (basta pensare al bellissimo finale, in cui i morti si accompagnano ai vivi nella loro marcia trionfale verso le terre da occupare, il quale smentisce e rovescia in un simbolismo fantastico alla Garçia Marquez il sostanziale realismo di fondo). Eppure è altrettanto indubitabile che, oltre alle sperimentazioni linguistiche e ai voli di fantasia, “Una terra chiamata Alentejo” è un libro profondamente politico, un’opera di denuncia che attraversa l’intero Novecento e in cui la fede istintivamente marxista di Saramago si prodiga a denunciare le miserie, le ingiustizie e le violenze arrecate da quel perverso strumento di sopraffazione sociale che è il latifondo. “Il latifondo è un mare intero. Ha le sue torme di pesci minuscoli e commestibili, i suoi barracuda e pirañha di morte, i suoi animali pelagici, i leviatani o le mante gelatinose, …”. Il latifondo ha tanti personaggi al suo interno, il popolo con i suoi uomini e le sue donne perennemente alle prese con la fame, con i debiti, con le malattie, e i signori della terra, ferocemente abbarbicati alla loro ricchezza e al loro secolare potere, ma mentre dei primi Saramago conserva nomi, facce, gesti, come se fossero un prezioso campionario di umanità da preservare ad ogni costo per poterlo tramandare ai posteri, i secondi sono tutti sarcasticamente connotati da un’unica, onnicomprensiva, desinenza (Floriberto, Norberto, Sigisberto, ecc.) che mira ad annullarli come individui e a qualificarli come mera classe sociale, così come lo stesso nome, pur a distanza di decenni, hanno i rappresentanti della Chiesa e dell’Esercito (padre Agamedes, tenente Contente, caporale Tacabo), i quali, con le loro prediche pedagogiche e reazionarie e la sistematica repressione degli scioperi e delle rivendicazioni salariali, spalleggiano il latifondo, difendono i suoi privilegi e danno il loro determinante e odioso contributo al mantenimento dello status quo e dell’arretratezza sociale.
Del latifondo Saramago racconta le lotte e le repressioni, gli scioperi e le ritorsioni, fino ai “giorni di riscatto e di gloria” dell’occupazione delle terre, ma ancor di più il duro lavoro e la vita da bestie, la fame e la povertà, le umiliazioni e le sofferenze. Fianco a fianco, anche se per l’ignoranza della gente, l’isolamento geografico e la mancanza di mezzi di comunicazione così remota e distante da sembrare di appartenere a un altro continente, cammina la Storia. Gli echi attutiti dell’avvento della Repubblica, della nascita della dittatura di Salazar e della rivoluzione dei garofani scandiscono le vicende del romanzo, come una sorta di contrappunto che permette di meglio apprezzare e percepire, nell’immobilismo totale del latifondo, il lento e inesorabile trascorrere del tempo. “Una terra chiamata Alentejo” non possiede ancora la sbrigliata fantasia ed il pieno controllo dei mezzi stilistici del successivo "Memoriale del convento”, ma è un romanzo appassionante e commovente, che si legge come un poema epico o (non si trovi in ciò alcuna differenza) come i racconti tramandati oralmente dalla tradizione popolare, e che esprime con imperiosa urgenza quel bisogno così tipico di Saramago di narrare ad libitum, senza soluzione di continuità: “sono cose risapute, non c’è altro da raccontare, oppure non basterebbe l’eternità”.
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La piaga del latifondo
L’Alentejo, che vorrebbe dire al di là del Tejo, meglio conosciuto da noi come Tago, si trova a est di Lisbona ed è una terra destinata esclusivamente all’agricoltura.
Non sono trascorsi molti anni da quando l’immagine di questi territori propri dell’Europa del Sud richiamava subito alla mente i grandi latifondi, poco coltivati e con metodi quasi primitivi da miseri braccianti, sottopagati e in balia del potere dei padroni.
Una terra chiamata Alentejo (il titolo originale è Levantado do Chao) è stato scritto da José Saramago nel 1980 e racconta la storia secolare di una famiglia di braccianti in quel territorio.
Sono quattro generazioni della famiglia Mau-Tempo (Maltempo, un nome quanto mai emblematico) che vengono a comporre questa saga contadina, il cui elemento d’unione è la miseria più nera, in un periodo che va dalla fine della monarchia, attraversa gli anni neri del regime di Salazar e si conclude con la luce della rivoluzione dei Garofani (25 aprile 1974).
Nel corso di questo lungo periodo, mentre in Europa avvengono sconvolgimenti che incidono profondamente sulla storia, in questo remoto angolo, quasi dimenticato da Dio si passa dalla dura e inclemente battaglia per sopravvivere alle lotte per ottenere una condizione di vita almeno dignitosa.
Sì, perché quello che manca a questi miseri contadini è la dignità dell’essere umano, è la speranza in un futuro diverso. In balia dei latifondisti, sfruttati con orari di lavoro propri degli schiavi, aggrappati a una religione che diventa ulteriore mortificazione, vista la connivenza fra il clero e i padroni, si nasce, si vive e si muore in un’inedia provocata dai patimenti, dalle fatiche, dalle ingiustizie e dalla penuria di alimenti.
E’ inevitabile, dato l’argomento, che la mente corra subito allo splendido I Malavoglia di Giovanni Verga, il cui verismo fece conoscere realtà per convenienza sempre sottaciute.
In Saramago è evidente la formazione marxista che distingue la sua opera da quella di Verga, quest’ultima non ideologica e pertanto assai più cruda ed immediata.
Però, se anche si avverte nelle righe il pensiero politico dell’autore portoghese, resta un’immagine indelebile di un mondo arcaico e di torti, dove solo un elemento pare non partecipe, pur assumendo di fatto la caratteristica di personaggio principale: il paesaggio.
Infatti il romanzo inizia con “ La cosa più importante sulla terra è il paesaggio…” e le descrizioni di Saramago sono veramente splendide, tanto che sembra di vedere le pianure, i sughereti, i temporali improvvisi, perfino i rilievi.
Se non bastasse questa eccelsa capacità dell’autore, del tutto particolare è la forma della scrittura utilizzata, uno stile personale, una specie di scrittura orale che inserisce il parlato nel racconto, senza che vi siano pause o addirittura, spesso, punteggiatura.
In tal modo viene a essere vivacizzata la narrazione, necessariamente lenta altrimenti per l’assenza di eventi determinanti, e l’impressione che se ne ricava è che Josè Saramago esca dalle pagine e lì davanti a noi prosegua nel suo racconto, con una voce dal tono a volte acceso, ma più spesso ironico, una sorta di amico che ci partecipa le sue riflessioni su un mondo alla rovescia.
Una terra chiamata Alentejo è un autentico capolavoro.