Una famiglia americana
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Eravamo i Mulvaney
“Eravamo i Mulvaney, vi ricordate di noi?”. Con questo incipit inizia la saga della famiglia Mulvaney che la raffinata penna di J.C. Oates descrive dettagliatamente entrando a gamba tesa nelle vicende familiari di un “clan” apparentemente perfetto, che vive ad High Point Farm, in una “casa da fiaba”, una fattoria della provincia americana nello stato di New York, vicino al confine col Canada.
Il talento creativo dell’autrice è tale da dipingere un quadro idilliaco di una famiglia borghese della seconda metà degli anni ‘70, senza difficoltà economiche composta da padre, madre, quattro figli ed un sacco di animali tra cani, gatti, cavalli, in cui emergono, tra l’altro, le doti imprenditoriali del padre, il fascino educato e discreto della figlia Marianne studentessa modello che gode di grande celebrità e che tutti vorrebbero come amica e fidanzata, il successo sportivo del figlio maggiore, asso del football. Sopra a tutto aleggia quell’austerità della provincia americana, in cui i saldi principi della famiglia, del lavoro, dello studio si combinano con la fede religiosa (cattolica o protestante poco importa).
Fino a quando “un evento” che coinvolge la figlia Marianne non entra prepotentemente nelle vite famigliari, un evento che nessuno ha il coraggio di chiamare col proprio nome ed attorno al quale la Oates gira e rigira, e che solo verso pagina 200 viene chiamato esattamente col suo nome. Quasi a significare che quella parola impronunciabile, che si teme, che si odia e che provoca dolore solo a pensarci una volta pronunciata, metterebbe a nudo tutti i membri del clan: “Nessuno sarebbe stato in grado di dire che cosa fosse successo, o avrebbe desiderato dargli un nome: stupro era una parola che non si pronunciava a High Point Farm”. Una volta giunti a questo punto l’autrice può spietatamente tratteggiare il rovescio della medaglia, rappresentando la caduta dei Mulvaney, una situazione paradossale nella quale la figlia diventa il capro espiatorio, in cui non c’è nemmeno più spazio per la fede, per la solidarietà tanto all’interno della famiglia quanto nel resto della società che sembra voltare le spalle alla famiglia portandosi dietro un’inevitabile discesa agli inferi. Ecco che Marianne diventa colpevole, connivente, la sua vicinanza crea fastidio e l’unica soluzione è rappresentata dalla progressiva emarginazione, l’allontanamento diventa la panacea di tutti i mali, agli occhi della famiglia prima e della comunità poi, alimentando altresì un’inevitabile senso di colpa in capo alla vittima stessa (“Commetto sbagli, errori di giudizio. Sono immatura, e sbadata. Deludo gli altri. Specialmente la mia famiglia”).
Quello che emerge è pertanto lo spietato ritratto di una società malata, paranoica, di un sistema giudiziario che non tutela le vittime di stupro (soprattutto se il presunto colpevole è una persona potente), tanto meno tutela le donne per cui vale il pregiudizio che non si possa parlare di violenza sessuale, che in fin dei conti se la sia cercata, che sia una poco di buono.
La Oates accompagna il lettore lungo 500 pagine di un libro vastissimo e denso, non risparmiando nulla ed entrando nei meandri delle singole vite dei personaggi, talvolta con l’impressione che certe parti, forse, si sarebbero potute sfrondare ridurre, senza nulla togliere al “sale” della vicenda. In sostanza fa sentire il lettore un membro della famiglia, gli fa provare le emozioni da loro vissute, i propositi di vendetta che solleticano le coscienze al fine di trovare una forma di giustizia su misura, il desiderio di riappacificazione e di catarsi. In queste pagine ho percepito quanto l’autrice sia stata un faro, un esempio per altri grandi romanzieri americani a partire da J. Franzen nel quale ho ritrovato meccanismi narrativi e tematiche simili.
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Lo sgretolamento di una famiglia
Judd è la voce narrante che ci racconta della sua famiglia, della casa da fiaba in cui vivevano e della caccia alla cerva di notte ("prendere la mira, premere il grilletto e uccidere"): è un preludio triste che propaga tensione nel lettore per la rabbia in quel gesto che in realtà non compie, ma carico di simbologia.
Sin da subito si percepisce che è "quell' evento" che cambierà per sempre i membri della famiglia, che sgretolerà quelle certezze su cui poggiavano le loro vite, che frammenterà gli animi inquieti e che li allontanerà l'uno dall'altro, sempre di più.
Si tratta di Marianne, giovane ragazza e sorella di Judd: solo a pag. 177 viene nominata la parola "stupro" non pronunciata prima, ma fatta intendere attraverso frasi scritte in carattere diverso che riflettono i pensieri nascosti dei vari personaggi. Il refrain ricorrente è "quella cosa", innominabile per la dignità che occorre preservare, o per il timore di sentirla pronunciare. "Quella cosa" avrà conseguenze devastanti per tutti: per la vittima, allontanata dalla famiglia e da se stessa, per i due fratelli Judd e Patrick che diventano complici nel mettere a punto la loro vendetta, per i genitori, così rigidi e inaffettivi.
Una famiglia, solo apparentemente serena, che si sgretola e si disperde poiché non conosce l' amore e il perdono: ciò che conta, in questa piccola città americana, è l'opinione degli altri e delle loro chiacchiere.
Il capitolo più toccante? "Lacrime" a pag. 347 in cui le lacrime salate diventano rivoli ghiacciati fuori al freddo, mentre Marianne rastrella le foglie o spala la neve.
Una scrittura magistrale quella della Oates, che incanta, che rende la narrazione fluida, scorrevole e così piacevole, da leggerlo in breve tempo.
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LA PARABOLA DI UNA FAMIGLIA
La famiglia del titolo è quella dei Mulvaney e quella che viene raccontata è loro storia nell'arco di circa quaranta anni, dagli anni '50 agli anni '90. Questa famiglia, quasi un clan, ci viene presentata in perfetto stile "mulino bianco" o sogno americano: padre che si è fatto da sè portando avanti con successo sia la vita professionale che famigliare, costruendosi tutto intorno la fama di uomo rispettabile; madre amorevole fervente cristiana e quattro figli i quali sembrano destinati ad avere davanti un radioso futuro: lo sportivo, lo scienziato, la dolce cheerleader ,e il piccolo di famiglia, che è anche il narratore della vicenda. Il tutto inserito in un contesto abitativo da favola: una fattoria immersa nella natura e piena di splendidi animali. Ma un giorno tutto cambia, la sorte, così benevola nei confronti dei Mulvaney, volta loro le spalle: un brutto episodio segna la vita dell'unica figlia femmina, Marianne, e questo solo accadimento, pur nella sua gravità, basta a far crollare un castello che sembrava solido, ma si rivela di sabbia: in primo luogo mette a nudo tutte le ipocrisie della comunità che circonda la famiglia Mulvaney, che subitamente gira loro le spalle, e via via di seguito, in uno spaventoso crescendo di dolore e smarrimento, porta alla luce tutte le debolezze dei componenti della famiglia che, trovatisi all'improvviso senza le certezze che finora li avevano accompagnati, non sanno fare quadrato intorno a sè proteggendosi gli uni con gli altri, come ci si aspetterebbe dalla famiglia amorevole e affiatata che ci è stata presentata, ma si smarriscono, annichiliscono sè stessi e gli altri membri di fronte al cambio di rotta, non reagendo ad esso, trovando gli uni negli altri la forza per farlo, ma allontanandosi e perdendosi, iniziando percorsi di vita, in alcuni casi allo sbando, in un modo che lascia il lettore esterrefatto. La forza e la bellezza del libro sta proprio in questo, si prova dolore e stupore davanti ad un evolversi di eventi che mai ci si sarebbe aspettati quando ci è stata presentata la famiglia Mulvaney, un emergere di sentimenti che sembrano i più disumani e incomprensibili all'interno di una famiglia come la loro, ma che alla fine sono forse quelli che davvero escono nei momenti cattivi della vita. Il finale può sembrare per certi versi una catarsi, ma, per me, solo a metà: non tutti i membri della famiglia riescono a "rinascere" o semplicemente rimettersi in carreggiata, qualcuno purtroppo, ed è davvero una parte dolorosa, non riesce ad uscire dai limiti del proprio orgoglio, della propria delusione di sè stessi e degli altri, percorso che non è possibile quando in discussione non viene messa solo la famiglia o la società, ma intimamente l'immagine di noi stessi che ci siamo costruiti nel tempo. Ho apprezzato tantissimo questo libro, il contenuto e lo stile, ricco di descrizioni e particolari di oggetti e scene di vita che all'inizio possono sembrare eccessive, ma che sono assolutamente necessarie alla comprensione dei sentimenti e dei comportamenti dei protagonisti; l’autrice riesce a fare immergere talmente il lettore nella vita dei personaggi che non si riesce a non gioire, ma soprattutto soffrire per quanto succede loro. Un libro che sicuramente lascia il segno, che fa pensare e riflettere anche dopo che se ne è finita la lettura.