Una cosa divertente che non farò mai più
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Viziati fino allo stato uterino di nullafacenza
Dopo aver letto Infinite Jest, David Forster Wallace aveva segnato la mia coscienza di lettrice facendomi apprezzare il postmodernismo americano e uno stile di scrittura straordinario che non avevo ancora assaggiato. Abituata ad apprezzare i classici dell’Ottocento, con qualche capatina anche nel Novecento e nel contemporaneo, all’ inizio mi sono trovata completamente disorientata, ma poi sono riuscita ad apprezzare in pieno tutto il voluminoso libro, note comprese.
Le opinioni che qui ho letto sono abbastanza negative, il mio giudizio sarà controcorrente. Per apprezzare questo libro, bisogna dimenticare Infinite Jest, si tratta di due figli dello stesso padre ognuno con le proprie caratteristiche e la propria “fisiologia”. Fisiologia perché “Una cosa divertente che non farò mai più” è un reportage sui generis di una crociera extra lusso e non è pensato come un romanzo, una lunga storia di ampio respiro dai mille personaggi e dalle mille storie.
Intenzioni diverse, obiettivi diversi, il virtuosismo stilistico è lo stesso però. “Una cosa divertente che non farò mai più “ è breve e circoscritto, meno faticoso da leggere, molto più umoristico. A me è piaciuto veramente tanto, mi ha regalato qualche ora rilassante e tante risate! Non leggo per sorridere, ma di questi tempi ben venga la sana risata, questo libro contiene scenette esilaranti! E non si scende nel banale e nel trito, lo stile di Wallace così ironico, così tagliente nel rappresentare l’animo umano in tutte le sue sfaccettature, le sue stranezze, le sue manie. Il libro è una recensione che lo scrittore realizzò per la rivista Harper ‘s che gli chiedeva un reportage sulla crociera extra lusso Zenith (ma che l’autore battezza col nome opposto, Nadir, in barba alla compagnia Celebrity Cruises) in rotta verso i Caraibi dove ha imparato che “ in realtà ci sono intensità di blu anche oltre il blu più limpido che si possa immaginare”. Una crociera che si impone come obiettivo quello di coccolare e viziare i suoi ospiti paganti a bordo con feste, simpatici concorsi a premi, spettacoli vari e tanto tanto cibo, dalle colazioni luculliane ai Buffet di Mezzanotte.
E i personaggi che incontra? Un ricco campionario di uomini, donne, persino ragazzini, che Wallace descrive come se fossero degli esemplari unici nel loro genere. Dalle prime pagine, fa l’elenco di tutte le prime volte e le cose che ha imparato:
“Sono stato oggetto in una sola settimana di oltre 1500 sorrisi professionali. Mi sono scottato e spellato due volte. Ho fatto tiro al piattello sul mare. È abbastanza?(...) Ho sentito – e non ho parole per descriverla – una musichetta da ascensore in versione reggae. Ho capito cosa significa avere paura del proprio water. Ho imparato ad avere il «piede marino» e ora mi piacerebbe perderlo.”
Ho riso tantissimo, di cuore, quando ho letto le pagine sullo sciacquone “ad alto tiraggio” e lo spiacevole esilarante episodio successo alla signora Peterson il cui marito sembra “sempre in posa per una fotografia che nessuno sta scattando”.
Giunge però ad un certo punto il pensiero più vero e profondo di Wallace, quello che spesso lo sorprendeva e che lo ha poi portato a togliersi la vita, la depressione, l’horror vacui della solitudine più profonda e più autentica:
“In queste crociere extralusso di massa c’è qualcosa di insopportabilmente triste. Come la maggior parte delle cose insopportabilmente tristi, sembra che abbia cause inafferrabili e complicate ed effetti semplicissimi: a bordo della Nadir – soprattutto la notte, quando il divertimento organizzato, le rassicurazioni e il rumore dell’allegria cessavano – io mi sentivo disperato. Ormai è una parola abusata e banale, disperato, ma è una parola seria, e la sto usando seriamente. Per me indica una semplice combinazione – uno strano desiderio di morte, mescolato a un disarmante senso di piccolezza e futilità che si presenta come paura della morte. (...) angoscia. Ma non è neanche questo. È più come avere il desiderio di morire per sfuggire alla sensazione insopportabile di prendere coscienza di quanto si è piccoli e deboli ed egoisti e destinati senza alcun dubbio alla morte. E viene voglia di buttarsi giù dalla nave”.
Anche in questo libro le note sono parte integrante del testo, vanno lette per una conoscenza globale dell’opera, si presentano talvolta dei veri e propri racconti scritti in font più piccoli.
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Alla volta dei Caraibi
È grazie a “Una cosa divertente che non farò mai più” che i lettori italiani hanno conosciuto David Foster Wallace, classe 1962, venuto a mancare nel 2008 e autore di titoli fortemente noti quali “Infinite Jest” o “La ragazza dai capelli strani”. Questo lungo racconto-reportage tratta della settimana che va dall’11 al 18 marzo 1995, settimana in cui dietro compenso vi è stata la sottoposizione volontaria alla crociera “7 notti ai Caraibi” (7NC) a bordo della m.n. Zenith, soprannominata Nadir, una nave da 47.255 tonnellate, di proprietà della Celebrity Crociere, una delle oltre venti compagnie di crociera che operano fra la Florida e i Caraibi.
Questo è però uno scritto molto diverso dagli altri lavori dell’autore in quanto impostato come una cronistoria, un resoconto, quasi un diario di viaggio, se vogliamo osare. Contiene al suo interno aneddoti di gran simpatia che fanno sorridere ma al tempo stesso non facilita lo scattare dell’empatia e anzi, la rende ardua. Si presta pertanto ad una lettura non di tutti e per tutti, è maggiormente consigliato magari a chi una crociera ha avuto modo di farla e a chi non ama volumi meramente di narrativa quanto al contrario fatti quotidiani, resoconti, relazioni. Un elaborato molto vicino, seppur con una diversa ironia, può essere considerato “Mediterraneo in barca” di Georges Simenon e riproposto da Adelphi lo scoro anno.
«Ormai è una parola abusata e banale, disperato, ma è una parola seria, e la sto usando seriamente. Per me indica una semplice combinazione – uno strano desiderio di morte, mescolato a un disarmante senso di piccolezza e futilità che si presenta come paura della morte. Forse si avvicina a quello che la gente chiama terrore o angoscia. Ma non è neanche questo. È più come avere il desiderio di morire per sfuggire alla sensazione insopportabile di prendere coscienza di quanto si è piccoli e deboli ed egoisti e destinati senza alcun dubbio alla morte. E viene voglia di buttarsi giù dalla nave.»
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In crociera con Wallace
Tutte le recensioni a questo libro-reportage di Wallace sono positive. Io sarò la voce fuori dal coro: mi ha annoiata molto. La copertina preannuncia "un libro che non si smette di leggere nemmeno quando ci si lava i denti" il che trovo fuorviante almeno per quanto mi riguarda. Si, ha delle scene comiche (la più comica per me è stato l'aneddoto di un marito sulla moglie risucchiata dal water ad alto tiraggio, bello anche lo stile descrittivo, praticamente una frase unica lunga due pagine e mezzo), ti fa vivere l'esperienza della crociera con molto realismo il che vuol dire che è onesto, non fa di certo pubblicità al mercato delle crociere, anzi, questo lo si evince già dal titolo, ma nell'insieme l'ho trovato piatto e non vedevo l'ora di finirlo.
Ma c'è un perché dietro a questa mia opinione anomala: ho conosciuto Wallace con Infinite Jest. Il genio di Wallace incontrato in IJ, che lascia a bocca aperta, è molto lontano da ciò che ho letto in questo libricino. Stessa cosa è successo anche con altri racconti di Wallace che ho provato a leggere successivamente come per esempio "La ragazza dai cappelli strani" e "Considera l'aragosta". Niente, non scatta l'empatia. Sicuramente la sua intelligenza spicca evidente così come il suo stile narrativo ma non riescono a soddisfarmi come lettore. Per me Wallace è Infinite Jest, uno dei libri contemporanei più belli che abbia mai letto. Ho in attesa di lettura "La scopa del sistema", magari mi farà cambiare opinione, anche se sicuramente non raggiungerà IJ. E' strano perché con altri scrittori, pur leggendo loro capolavori, successivamente non mi hanno lasciata così indifferente le loro opere minori.
Ritornando al reportage, esso è un racconto ironico di una crociera-regalo di Wallace sulla nave Zenith (ribattezzata Nadir nel libro). Sicuramente è indicato a chi una crociera l'ha già fatta, forse dissuaderà coloro che hanno intenzione di farla, ma che comunque tirerà fuori un po' di verità scomode su questo mercato turistico, alcune di esse già intuite, altre invece no. Contiene una lieve critica anche verso gli americani e ho apprezzato davvero l'onestà di Wallace che lo contraddistingue. Lui addolcisce la sua prosa con l'ironia e con il humor, mai con le menzogne che cercano di vedere il lato bello delle cose, è principalmente un autore depresso nella sua comicità.
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Un sogno da incubo
Questo libro annuncia sé stesso fin dal suo titolo, mantenendo niente più e niente meno di quel che promette.
"Una cosa divertente che non farò mai più" è un reportage di David Foster Wallace, che nell'anno 1995 accetta di "impegnarsi" a fare una vacanza su una nave da crociera e scrivere un reportage della sua esperienza per una rivista. Lo stile di Wallace è davvero spassoso, e si adatta perfettamente al tipo di narrazione sempre in bilico tra il comico, il critico e l'ammirato. Ovviamente, si percepisce spesso che l'opinione dell'autore è strettamente personale, e va presa in quanto tale. Certe osservazioni vi strapperanno più di una risata, ma è chiaro che la concezione di questo tipo di vacanza da parte di Wallace può essere diversa dalla concezione che può avere una qualsiasi altra persona; dunque, se non siete mai stati su una nave da crociera, non spaventatevi per quel che dice l'autore.
Le persone che sono state almeno una volta nella vita a fare una vacanza su una di queste navi bellissime (come me), probabilmente apprezzerà di più il "racconto" dell'autore. Tornerà con la mente a quei fantastici giorni di relax, di escursioni e di attività ininterrotte. Spesso noterà le stesse stranezze notate dall'autore: l'incredibile precisione degli addetti alle pulizie, che sembrano prevedere ogni vostro movimento o spiarci, per come riescano a entrare nella nostra cabina proprio quando non ci siamo; l'incredibile potenza del water a risucchio; la gentilezza (a volte forzata, a volte no) del personale di bordo, che sembra non dormire mai; l'incredibile varietà di personaggi anche strampalati che si incontrano nel piccolo ecosistema che si viene a creare in quel breve periodo di vacanza.
Ci sarà molto da ridere, di questo potete star certi (ditemi se non vi sbellicherete quando Wallace deciderà di portare la sua valigia in camera a discapito di un povero facchino libanese), ma a volte vi ritroverete anche a soffermarvi e a fare qualche riflessione su quello che è il dilemma della natura umana, che a quanto pare riesce a farsi vivo anche nei posti più impensati.
Dunque anche su una nave da crociera.
"E questo individuo di alto rango viene da me alla cabina 1009 dopo cena, sabato sera, per scusarsi in nome e per conto dell'intera compagnia navale e della famiglia Chandris e assicurarmi che le teste di questi libanesi pezzenti già rotolano nei vari corridoi come punizione espiatoria per avermi lasciato portare la valigia da solo."
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Fragile genialità
A tutti è capitato di vivere una situazione in cui ci si aspettava da noi divertimento e allegria e che si è rivelata invece un’esperienza da dimenticare, in cui ci si è sentiti un po’ pesci fuor d’acqua. Solo il talento letterario, la capacità di osservazione e l’intelligenza analitica di David Foster Wallace sono in grado di trasformare un’esperienza di questo tipo in un’opera d’arte.
Una cosa divertente che non farò mai più è un reportage, commissionato dalla rivista Harper’s, su una settimana di crociera ai Caraibi. Ma non solo. L’autore, da osservatore intelligente e un po’ schizofrenico, estende il suo sguardo ovunque: sull’industria del divertimento, sulle persone, sulle dinamiche sociali dei crocieristi, su se stesso.
Ne esce innanzitutto un quadro lucido e ironico del turista medio e dei suoi comportamenti, che non fatichiamo a ritrovare nel nostro vissuto. Chi non riconosce “Capitan Video” costantemente occupato a riprendere con la telecamera, o la mania di giustificarsi di essere andati in vacanza solo perché stanchi/malati/stressati, sempre per bisogno - mai per piacere, oppure la frenesia di chi non vuole perdersi nemmeno una delle attività micro-organizzate, in preda all’ossessione di “sfruttare” ogni minuto? Queste descrizioni ci strappano un sorriso, è vero, ma non sono volte a ridicolizzare o grottescamente calcare la mano, anzi, al lettore viene presentata una rappresentazione rispettosa. Sta a lui poi decidere come interpretarla o come riconoscersi.
Tutti devono essere ricchi e felici, il cielo deve essere blu, il viaggio deve essere indimenticabile. L’industria del divertimento crea così una bolla di benessere e opulenza, di omologazione e di totale annullamento, facendo leva proprio sul bisogno dell’uomo di appartenere a un gruppo. E tutti sorridono in questa vacuità programmata, senza nemmeno accorgersi che a viziarti è un equipaggio di immigrati malpagati che coccolano per contratto e paura del licenziamento.
David Foster Wallace è in grado di guardarsi intorno e leggere i meccanismi della macchina di business in cui si trova immerso con lucidità di analisi, competenza (si vedano le mille note a piè di pagina piene di dettagli su ogni cosa, persino i dati tecnici) e talento letterario, coniando espressioni e similitudini originalissime. Nonostante ciò, non appare come l’intellettuale che teorizza e giudica dall’alto della sua torre d’avorio. Anzi, cerca di leggere introspettivamente se stesso e le sue reazioni a questo mondo di benessere costruito e vuota finzione. E ne esce un uomo fragile, agorafobico, che non riesce a ritrovarsi nei riti e nei meccanismi del gruppo di crocieristi ma, quando chiede la cena in camera per ritrovare i suoi spazi di solitudine, sparge fogli sul letto per dissimulare una presunta occupazione che non lo faccia apparire un sociopatico agli occhi del cameriere. E non ci sembra allora così distante da tutti noi, con i suoi malesseri interiori, le sue insicurezze, i suoi pensieri fuori dal coro e le sue contraddizioni.
E alla fine non possiamo che ammirarne la genialità, così straordinariamente fuori dal comune, e provare empatia per le sue sensazioni, così semplicemente fragili.
Da leggere.
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Viziati a Morte
Una Cosa Divertente che non Farò mai più – David Foster Wallace, 1997
Nonostante ami l’acqua in ogni sua forma, l’idea della crociera (che tanto appassiona mia mamma) mi ha sempre evocato un istintivo orrore. Non solo per l’odierna – oggettiva – bruttezza delle navi da crociera, ma proprio per la cosa in sé. Un condominio sovrappopolato di sconosciuti, rumorosi, vocianti e smaniosi di divertirsi. Da girone dantesco.
Anche se devo ammettere che dal punto di vista scientifico potrebbe essere interessante…
Una nave è un po’ come un’isola.
Potrebbe essere interessante immaginare un’epidemia o qualche esperimento sociale a bordo.
Quindi, con grande entusiasmo ho affrontato per la prima volta il genio di DFW, su questo delicato tema. E non sono stata delusa.
In poco più di cento pagine, che si leggono agili e veloci, corredate da note continue, a volte veri e propri raccontini all’interno del testo, l’autore fa una serie di ritratti mordaci ed impietosi.
Ai suoi compagni di viaggio, a sé stesso e alla nostra società «perennemente in posa per una fotografia che nessuno sta scattando.»
L’autore si dimostra un osservatore acuto, quasi ai limiti della sociopatologia (e non lo dico solo perché alcune somiglianze mi hanno inquietato!) e permette di fare qualche riflessione.
Alcune molto “facilone” (come non sorridere alle descrizioni – perfette – dei turisti americani?) altre un tantino più insidiose.
A partire da quella, quasi iniziale, che nessuno va in crociera perché ci vuole andare/gli piace andarci.
Tutti ne hanno bisogno. Perché hanno vissuto un periodo di stress, perché hanno avuto una malattia o un lutto. Il nostro è piuttosto “perfido” e gira il coltello nella piaga. Sono gli stessi che non hanno “voglia” di una sigaretta (ma va bene anche dolce, salato, sesso o qualsiasi altra cosa piacevole), ma ne hanno “bisogno”.
Oppure lo fanno per qualcun altro.
Voi non avete conoscenze che sono costrette ad andare in vacanza solo perché costretti da genitori/partner/coniugi/figli/fratelli/amici, che sono preoccupati per loro, poverini, che non si riposano mai? E, ovviamente, se vi azzardate a dire che andate in vacanza perché vi piace, vi guardano con malanimo e scorre il sottotitolo “egoista!!”.
Non sono da prendere amabilmente a sberle fino al momento in cui non avranno davvero BISOGNO di qualcosa (un chirurgo maxillo-facciale, per esempio)?
Perché serve la giustificazione per fare qualcosa che piace?
(e se sapete la risposta, io l’aspetto).
Poi c’è la questione del VIZIARE.
Scopo manifesto della crociera extra lusso è viziare il passeggero.
Non pare esserci nulla di strano. È un termine molto amato dalla pubblicità, tanto che “viziare” è diventato quasi sinonimo di “prendersi cura” o “coccolare”.
Invece il nostro (o il traduttore, non so) lo riporta alla giusta connotazione.
Chi si vizia? I bambini piccoli.
Personalmente il viziare, più che una “coccola” (che in certi contesti ci può stare, come la galanteria), mi pare un’accettazione della palese imbecillità dell’altro: non ce la fai e se ti spiegassi non capiresti. Ergo levati dai piedi e lascia fare a me.
Non faccio qualcosa per te perché ti voglio bene.
Faccio qualcosa che so che faresti male, perché sei troppo stupido e non ho voglia di perdere tempo.
Nel contesto di DFW è ancora peggio, perché ci sono persone pagate (poco) per far sentire il passeggero un imbecille, prevenendo i suoi desideri e rendendolo un bambino vizioso e capriccioso.
[Non vi viene la stessa irritazione quando il mai abbastanza vituperato windows 10 invece di fare quello che VOI gli dite (dannata, stupida macchina) si mette a prevedere quello che potreste volere in base a qualche misterioso algoritmo che sa solo lui?]
E infatti, cosa dice la pubblicità della crociera?
«IL VOSTRO PIACERE», dicono tutti gli slogan delle megacompagnie, «È IL NOSTRO LAVORO».
O come osserva DFW «PENSATE SOLTANTO AGLI AFFARI VOSTRI, E LASCIATE CHE DEL VOSTRO PIACERE CI OCCUPIAMO NOI PROFESSIONISTI, PER AMOR DI DIO».
La tecnica funziona perché si innesca un circolo (vizioso, obviously).
Il “bambino” viziato diventa sempre più viziato e scontento.
E si continua con altre riflessioni piuttosto cupe.
Persone pagate (poco) per trattarti come un deficiente.
«Qui viene alla luce un tratto essenziale delle crociere extralusso: si viene intrattenuti da qualcuno a cui state chiaramente antipatici e si ha la sensazione di meritare l’antipatia nel momento stesso in cui ci si sente offesi.»
Qui non so se lo seguo.
Secondo me la maggior parte delle persone non coglie l’antipatia dello “schiavo” addetto al servizio. Ed è proprio qui la cosa subdola, per me. Molte persone – non necessariamente malate di mente – con cui ho parlato sono convinte che gli animatori dei villaggi turistici si divertano.
Ora possiamo discutere e fare la classifica del dolore. Sicuramente sono peggio le miniere del sale e il Deserto del Gobi, non lo nego. Ma… divertirsi?
Ma d’altro canto ci sono “clienti” convinti che le prostitute “godano” della loro compagnia, quindi non mi meraviglio.
Infine, la cosa forse più orripilante – almeno per me – è l’annichilimento dell’individuo, che non esiste in quanto tale, ma in quanto passeggero e che si deve divertire. Perché sì.
«Non avrete altra scelta se non quella di divertirvi.»
Non sembra un titolo un po’ horror?
«Come fanno a saperlo?»
Si chiede ad un certo punto DFW, chiedendosi come faccia il personale a cercare di anticipare i desideri della clientela.
Semplicemente non lo sanno.
I passeggeri si divertiranno perché hanno pagato per farlo e vengono “viziati”.
Molte gente vorrebbe essere al loro posto.
Quindi si divertiranno, come fanno spesso le persone al veglione di capodanno, alla settimana bianca, alla pizza con i colleghi o in ferie. O su Facebook.
DFW si chiude in cabina, come io mi chiudevo nel loculo della roulotte per sfuggire alle animazioni. Pure un po’ irritata dal dovermi giustificare per questo.
Però in cabina si può godere di un porta sapone scientificamente concepito per fare il suo mestiere.
Non male, no?
(E nel loculo si poteva leggere ed ascoltare la musica).
Anche meglio, vero?
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Una cosa divertente che... no, non farò mai
1997 (credo). "Harper's" spedisce David Foster Wallace in crociera ai Caraibi commissionandogli un reportage sul viaggio e aspettandosi molto probabilmente quello che Foster Wallace ha poi prodotto: un testo spietato e allo stesso tempo divertente.
Per leggere questo libro ci ho impiegato solo un paio di giorni, è molto scorrevole... se si passa sopra alle chilometriche note che per l'autore, a quanto ne so, erano un'abitudine e si trova un modo per leggerle senza guastare la scorrevolezza della prosa (sono irrinunciabili pezzi di umorismo nell'umorismo).
Nel corso di tredici brevi capitoli l'autore vaga per un'immensa scatola di metallo osservando tutto ciò che può, sottoponendosi a vari rituali collettivi, facendo la conoscenza dei vacanzieri e scoprendo tutta l'umanità che lavora sulle navi da crociera, una replica impermeabile della già discriminatoria terraferma.
Il suo racconto ci fa considerare più obiettivamente quelli entusiastici di chi in crociera c'è stato e perso nell'abbondanza e nell'inesauribile disponibilità di questa ha tralasciato di notare tanti piccoli particolari che a terra avrebbe valutato diversamente (la qualità degli spettacoli ad esempio, o i ritmi di lavoro dello staff).
Eppure il libro non è solo racconto e descrizione; in alcuni punti Foster Wallace passa alle riflessioni e quel che ne viene fuori è un'analisi lucida e a tratti inquietante di un modo di fare e vendere vacanza.
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Pensarci e ripensarci
Vi racconterò un aneddoto, anzi più che un aneddoto una breve storia, e scusatemi se inizio una recensione in maniera così bizzarra e personale ma ho come la sensazione che questo sia il modo migliore, se non l'unico, che mi è concesso per spiegarvi cosa significa veramente leggere questo libro. Dunque ecco la storia: ho un buon amico d'infanzia, ormai ci conosciamo da più di venticinque anni, che condivide la mia stessa passione per i libri e spesso ci ritroviamo davanti a una birra, un caffe o, grazie ai mezzi di comunicazione che il web 2.0 da qualche anno ha messo adisposizione, davanti a uno schermo piatto e una tatiera inesistente, a discutere delle nostre ultime letture, di quelle che ci sono piaciute di più e quali di meno, insomma a scambiarci i nostri rispettivi punti di vista e opinioni sul panorama letterario attuale e non. Questo amico è una persona senza dubbio intelligente, equilibrata e divertente (è lui tanto per darvi un'idea che mi ha convinto a leggere alcuni grandi contemporanei come Roth o Bellow) tuttavia, pur avendo tutte queste apprezzabili qualità, agli occhi di un cinico miscredente quale sono io, ha un odioso difetto: è una persona che vuole a tutti costi credere nei sogni. E badate bene non ho detto "che crede nei sogni" ma che vuole a tutti i costi crederci, e la differenza secondo me è fondamentale poichè uno che ci crede e basta, un sognatore, non ha altra scelta se non quella di essere così com'è; noi cinici lo vedremo sempre come un romantico naive immancabilmente destinato alla delusione, ma lo capiremo e lo apprezzeremo per quel suo idealismo sconfinato e un po' adolescenziale che almeno una volta nell'arco della nostra vita, per anche forse solo una singola cosa, anche noi abbiamo provato, non so l' amore, l'eroismo, la giustizia, o da sano maschietto quale sono mi viene in mente la squadra del cuore, il supererore i cui fumetti leggevamo da piccoli o l'invincibile mito del cinema d'azione, il Chuck Norris o lo Schwarzenegger che masticava proiettili a colazione... Una persona così dunque non ha scelta, crede nei sogni punto e al limite noi possiamo guardarla sorridendo bonariamente sapendo che si sbaglia ma in fondo, sotto sotto, sperando che non si sbagli più di tanto; ma il mio amico no, lui non è di questi, è uno che invece VUOLE credere nei sogni, e fa di tutto per convincersi che ci crede. E se permettete che divaghi ancora per qualche riga, a mio parere la differenza sta proprio tutta qui, in quel "Vuole", ovvero lui sa che le cose di cui si convince di credere non sono quasi mai vere o almeno possibili in un mondo reale (il male assoluto, il bene assoluto, la perfezione, sempre assoluta) eppure è come se non volesse ammetterlo, o per dirla a suo modo "non volesse arrendersi all'imperfezione della vita". E questo agli occhi del cinicio è un qualcosa di quanto mai fastidioso e insopportabile: lui a differenza del sognatore ha una scelta, sa com'è la realtà eppure vuol continuare ad ingannarsi, perchè?! Capisco che è più bello vivere in un mondo fittizio dove tutto è certo, sicuro, a suo modo tranquillo, ma, e Matrix insegna, chi preferirebbe l'irreale al reale?
Ma lui no, imperterrito va per la sua variopinta e soffice strada, senza prestar ascolto, e così ogni volta che nelle nostre conversazioni se ne veniva fuori il nome di David Foster Wallace, lui, storcendo il naso, diceva cose del tipo: bah, sì ho guardato qualche suo libro, è sicuramente bravo ma non lo leggo, non mi interessa, non fa per me. Ed era naturale che dicesse così, poichè con la sua intelligenza e la sua esperienza (ho già menzionato che è in grado di leggersi un paio di libri da seicento pagine in meno di una settimana? E lavora! Ha una vita normale!) gli era bastato sfogliare qualche pagina di quei libri per rendersi conto che D.F.W. è il più grande distruttore di sogni che la letteratura moderna abbia mai partorito. Dunque lui, il finto sognatore, diceva cose del tipo, "no, no, son sicuro che non mi piacerebbe ecc. Ecc.." E così è andato avanti per anni, finchè vuoi per la mia costante e strenua opera di convincimento, vuoi per una suo raro momento di illuminazione, o di normalità, si è deciso a prendere in mano Una cosa divertente che non farò mai più...
E il miracolo s'è avverato: ha cominciato a leggere tutti i suoi libri e da allora non ho mai sentito qualcuno parlare meglio di un autore che in realtà uno come lui non può far altro che detestare! Già, perchè in realtà ancora adesso non gli piace, Wallace va contro a tutto ciò in cui lui crede, ah no scusate vuole credere, eppure al contempo, con una di quelle stupende contraddizioni tipiche dell'essere umano che solo Dostoevskj (e forse appunto D.F.W.) hanno saputo rendere alla perfezione, pur odiandolo non può far a meno che apprezzarlo, stimarlo e, con un sorriso cattivo e disncatato, che io trovo estremamente divertente e poeticamente giusto, elogiarlo.
Ecco questo è quel che significa leggere Una cosa divertente che non faro mai più: significa ripensarci, significa ricredersi, significa dire addio alle proprie certezze e lasciar che il proprio personale miraggio di perfezione venga dolcemente frantumato. E scusate, ma questa non è una cosa che vi può capitare tutti i giorni, specie con un libro così breve. Poiche “Una cosa divertente…” è sì un breve libretto, simpatico, diveretente, particolare, e che qualche incauto potrebbe persino definire innocuo od eccessivamente manieristico, ma è anche un libro che a ben vedere con il suo acume, con il suo stile ragionato ed incalzante con il suo sferzante occhio critico e il fascino mordente di un'intelligenza fuori dalle righe in poche pagine racchiude in se tutto il pensiero di Wallace, (attenzione il viaggio in crociera di cui tratta il libro non è solo il frutto dell'onestà intellettuale di un autore che non si vuole arrendere alle convenzioni, ma è anche un pretesto per evidenziare l'ipocrisia, e con essa tutti i problemi a questa connessi, della società in cui viviamo) e il pensiero di Wallace se si è obbiettivi ed equilibrati, pur non necessariamente in accordo col proprio, non si potrà fare a meno di ammettere che sia uno dei più brillanti, profondi e affascinanti degli ultimi anni , e che apparteneva a uno degli scrittori, se non probailmete lo scrittore, migliore della sua generazione.
Neanch'io ammetto, sono, e dopo tutto questo lirismo vi parrà strano, sempre stato un suo grande ammiratore, o almeno non dei suoi due (aihnoi) unici romanzi che a mio giudizio erano o troppo ampollosi, o inconcludenti e surreali, (i suoi seguaci non me ne vogliano ma La scopa del sistema l'ho trovato a differenza di molti, specie del critico che l'ha esaminato, o sarebbe meglio dire sezionato in lungo e in largo, talmente insulso che è stato l'unico libro di cui non sia mai riuscito a scrivere una recensione... e x il semplice fatto che non mi è mai venuto in mente nulla da dire!) neanch'io dunque l'ho mai veramente apprezzato, ma con questo, forse perchè trattava di un argomento oggettivo, reale e comune, come appunto può essere un viaggio in crociera, forse perchè qui usava molto di più l'ironia e l'acume rispetto al drammatico potere delle immagini che era solito evocare in altri lavori, o forse perchè semplicemente non avevo mai capito niente, mi sono dovuto anch'io ricredere. Qui Wallace da veramente il meglio di se, qui Wallace ha veramente creato un libro che con profondità e semplicità parla a tutti noi nel profondo delle nostre coscienze, qui Wallace è veramente il miglior scrittore degli ultimi vent'anni.
Ecco, ribadisco, questo significa leggere Una cosa divertente che non farò mai più: significa sorridere, pensare, capire, lasciarsi distruggere ed infine ricredersi e tuttosommato consolarsi, poichè se la perfezione non esiste proprio... in fondo neppure noi siamo tanto male!
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Wallace e i "nadiriti".
Finora avevo letto solo un libro di Foster Wallace, "Oblio", un libro di racconti, ed onestamente mi aveva entusiasmato a metà. C'erano un paio di bei racconti e poco altro, e anche l'approccio con il suo stile maniacale e iperdescrittivo mi aveva alla lunga un pò stancato. Pensavo peró alla fine del libro che questo stile sarebbe stato perfetto per un saggista (il primo racconto sulla fabbrica di biscotti al cioccolato è emblematico). Ora ho voluto riprenderlo, leggendo una cosa un pò più breve e meno impegnativa, e così mi sono trovato davanti a "Una cosa divertente che non farò mai più" e l'ho preso, per scoprire poi che in sostanza anche questo è un saggio, un saggio antropologico. In queste 150 pagine lo scrittore americano ci racconta di una vacanza che ha fatto su una nave da crociera superlusso (sembra che inizialmente gli sia stato commissionato da un giornale come recensione, poi, vista la lunghezza, si è trasformato in un libro), logicamente, come potrete immaginare, non si tratta certo di una semplice descrizione degli ambienti e delle attività, ma, come detto sopra, l'elemento principale saranno i "nadiriti" (e cioè i passeggeri della crociera) e i loro comportamenti, lui compreso. Bellissime sono le riflessioni che fa su diversi aspetti della crociera, così come l'obbligo di divertimento che vige a bordo e la totale mancanza di responsabilità (i passeggeri vengono infatti viziati come fossero dei neonati). Non mancano nemmeno le solite riflessioni sulla morte e sul personalissimo significato del termine "disperato". Lo stile è quello solito, direi un realismo isterico (molto isterico), il linguaggio è fluido ma intriso di termini tecnici (Foster Wallace si intende di tutto) ed è frequente l'uso di vocaboli ricercati. Immancabili poi le note a piè di pagina (che spesso sono pagine intere), credo ormai che non esista un suo libro con meno di 100 note. In conclusione un libro simpatico e con qualche spunto di riflessione che si legge volentieri, ma sicuramente non adatto a chi ha pretese di romanzi impegnati, per quello dovete passare a Infinite Jest (che ancora non ho letto...).