Un soffio di vita
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Abbaiare una preghiera
Questo è un libro da leggere prima di morire; non nel senso ormai sdrucito di “imperdibile”, ma nella contingenza temporale del crepuscolo, della vita che finisce. Solo alla luce indaco e scura dell’ultimo respiro, “Un soffio di vita” può forse svelare il mistero che segretamente custodisce oltre lo specchio selvaggio della sua prosa frantumata, irrequieta, instabile, sull’orlo limaccioso dell’illeggibilità. Perché addentrarsi nel vortice furioso che si avviluppa senza respiro per tutte le tesissime pagine di questo libro sfrangiato e ubriaco, “che balla nudo per strada”, richiede un atto di fede, di puro abbandono. Clarice Lispector scrive perché non sa più contenere in sé il grido di dolore e spavento per quella diagnosi irrevocabile ricevuta, quella malattia inclemente che la farà morire in pochi mesi, lei che amava più di tutto la vita e che temeva di non essere ancora riuscita a dire l’indicibile, a dare forma alla trasparenza inattingibile della verità. Eppure chi si perde nelle sue pagine scopre che quasi ogni frase sconvolge un mondo, fende l’aria, rompe la crosta della coscienza, quasi ogni divagazione colpisce un bersaglio distante anni luce. C’è in Clarice la potenza di un pensiero dirompente, imprevedibile, ma anche la sensibilità di un mondo di acqua e di terra, di carne e di sangue che sta oltre le porte del pensiero, un passo più vicino al cuore, più vicino al respiro.
Sottotitola “Pulsazioni” Clarice Lispector, perché in fondo “un soffio di vita” è sia quello della nascita, il primo vagito di chi ha perso la pienezza del grembo, sia quello ultimo della morte che consegna l’anima a un mondo sconosciuto e forse terribile, forse luminoso. Pulsazioni che segnano il tempo della vita, ma anche la discontinuità della stessa e dunque della prosa, che mai come in questo suo ultimo romanzo rasenta rovelli interpretativi di difficile risoluzione. Ma lei è chiara fin da subito: “stiano lontani i profani”, questo non è un libro per tutti e ancora, “voglio scrivere movimento puro”. Sono onde vorticose e seducenti quelle che assaltano il lettore, che lo sommergono e soffocano fino alla sfinimento, in un dialogo tra un “Autore” e una sua creatura, “Angela Pralini”. Ho detto dialogo, ma mi correggo: ognuno dei due interlocutori parla per se stesso, a volte non si ascoltano, a volta interferiscono, più spesso seguono indisturbati il filo dei loro pensieri. È come se giunta al tempo estremo della vita, Clarice di sdoppiasse in un alter ego esplicito (l’Autore) e in un grido primitivo, (Angela), in un gioco di specchi che moltiplica i piani di lettura e che pure è funzionale per descrivere, quando tutto finisce, come tutto inizia: la creazione. Non a caso ad aprire il libro c’è un passo della Genesi, il libro per eccellenza della creazione, e un pensiero di Nietzsche sulla gioia feroce del creare. Clarice crea l’Autore e l’Autore crea Angela Pralini, così come Dio ha creato l’uomo e dall’uomo è stata creata la donna. Ed essere stati creati è il crivello esistenziale che macera e tortura questi personaggi: fin dove si spinge la libertà di ognuno? quanto può divampare la rivolta verso il proprio Creatore? e perché l’esistenza, perché la morte. Non sono domande facili, anzi i personaggi di accartocciano più volte lungo le rive disseccate della follia, ma quello che è più sconcertante è che Clarice è consapevole di se stessa fin nel più recondito recesso del proprio delirio, lucidissima, devastata, ma ancora animata da una forza titanica. E allora tutto questo libro di frasi rotte e oscure, di frammenti non ricomponibili finisce per essere una lunga preghiera a quel Dio che è l’interlocutore perpetuo di ogni pensiero, di ogni parola, il silenzio muto della verità. Una preghiera che in un istante può diventare l’ululato di un animale ferito e un attimo dopo il placido ohm di un monaco tibetano. Perché questo libro così intimo è pervaso davvero dall’ultimo soffio di vita di Clarice, dalla sua ultima e suprema pulsazione e in questo suo essere estremo nasconde la sfuggente impressione di una immane cosmogonia, quella di un divino che non è nell’astratto vuoto del cielo, me nella briosa spuma del mare. E mentre ci si approssima alla conclusione, questa storia, che ancora una volta è un percorso di passione, si sublima nell’estasi della visione suprema, nel miracolo raro di una scrittura che forse tocca davvero qui il fondo vero delle cose, un bagno di luce. E forse bastano anche solo queste tre o quattro pagine issate sulla vetta della scalata, a far valere non solo la pena della lettura, ma anche quella, più generale, di essere lettori; pagine così belle da temere di finirle, che ci lasciano stupiti e abbandonati, col viso reclinato e arreso come la Santa Teresa di un meraviglioso Bernini.
Io so che non sono oggettivo, che non è un libro per tutti e che non è perfetto, spesso ostico, irragionevole, a volte illeggibile. Ma che ci volete fare, quando la leggo sento come se in me esplodessero stelle e galassie, come se anche io mi aprissi a qualcosa che in me è più in fondo di me. Io, quando leggo Clarice Lispector, sono felice: è come aver trovato l’anima gemella.
Indicazioni utili
V. Woolf