Un mondo sinistro
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DISTOPIA ENIGMISTICA E METANARRATIVA
“Un mondo sinistro” può essere a pieno titolo iscritto al genere distopico, da Nabokov già frequentato una decina di anni prima nel romanzo “Invito a una decapitazione”. Lo scrittore russo inventa infatti uno stato (Padukgrad, retto dal sanguinario tiranno Paduk), una ideologia politica (l’ekwilismo) e persino una nuova lingua (come in “Fuoco pallido”), ma, sebbene la società descritta sia oppressiva e disumana al massimo grado, “Un mondo sinistro” non si può considerare un romanzo politico di denuncia, tipo “1984” di Orwell (da lui non a caso definito sarcasticamente nella prefazione un “mediocre scrittore inglese”). Nabokov è sempre stato molto chiaro in proposito: “Non mi ha mai interessato la cosiddetta letteratura di carattere sociale. […] La politica e l’economia, le bombe atomiche, le espressioni d’arte primitiva e astratta, l’intero Oriente, accenni di «disgelo» nella Russia sovietica, il Futuro dell’Umanità, e così via, mi lasciano supremamente Indifferente”. Anche se alla fin fine l’ekwilismo risulta molto simile al comunismo dell’Unione Sovietica, sostituendo tutt’al più alla mera uguaglianza economica tra tutti gli uomini una non meglio specificata uniformità spirituale, e anche se lo scrittore che aveva dovuto abbandonare l’amata patria pochi anni prima avrebbe avuto più di un sassolino da togliersi dalla scarpa, egli appare qui molto più coinvolto dai risvolti individuali della vicenda. Il protagonista Adam Krug, un famoso filosofo, è non a caso una persona totalmente apolitica, dal momento che rifiuta recisamente tanto di firmare la petizione dei suoi colleghi accademici al Presidente, il quale ha recentemente chiuso l’Università, quanto di aderire alle lusinghe del regime, che aspira ad averlo dalla propria parte al fine di riuscire ad accreditarsi, in virtù dell’appoggio di una personalità insigne dello Stato, forse addirittura la più insigne, di fronte ai sospettosi governi stranieri. Egli è il classico intellettuale che ama vivere nella sua solipsistica torre d’avorio, circondato dai suoi libri e dai piccoli agi borghesi, e in più è un uomo arrogante, sprezzante, egoista e sicuro di essere invulnerabile, al di sopra di tutto e di tutti (del resto non è certo il primo dei personaggi nabokoviani ad avere connotazioni decisamente negative). In controtendenza con questi atteggiamenti, e nascosto sotto la sua burbera facciata, c’è però il sentimento dolcissimo per la moglie Olga recentemente scomparsa, che gli fa sorgere incontrollabili impeti di commozione (oltre a riaffiorare più volte, sotto forma di sogno o di ricordo, come nella tenera sequenza onirica in cui un’Olga quindicenne cammina con circospezione portando tra le mani chiuse a coppa una falena), e per il figlio David, che fa di tutto per proteggere dall’atroce verità della morte della madre e dalle subdole pressioni della dittatura, la quale ha infine capito che per far cedere Krug bisogna minacciarlo nei suoi affetti più cari. Il romanzo non è però, lo ripeto, una presa di posizione sulla necessità per l’intellettuale di schierarsi, di prendere posizione, vincendo la sua superbia o la sua pavidità. La presa di coscienza di Krug non è quella del Pereira di Tabucchi, ma al contrario ha qualcosa di kafkiano, nel senso che il potere che il protagonista si trova ad affrontare è qualcosa di irragionevole e insensato, con cui non è possibile confrontarsi, neppure in una veste antagonistica, e in definitiva sfuggente e inaccessibile come il Castello dell’autore boemo. Il regime di Paduk è per certi versi addirittura ridicolo, caricaturale. I funzionari venuti ad arrestare Ember sono una coppia ambigua e lasciva, che lascia palesemente trasparire il desiderio di copulare sul letto dell’elegante appartamento del padrone di casa, mentre il poliziotto in borghese che controlla Krug si trasforma addirittura, per camuffare la sua identità, nel buffo manichino esposto nella vetrina di una sartoria. Quando poi Krug, novello Josef K., si reca al Ministero della Giustizia per chiedere un colloquio in relazione all’arresto dei suoi amici, non si accorge che l’edificio è stato da poco trasformato in albergo, e l’individuo da lui scambiato per un alto funzionario altri non è che il capocameriere. Tutto ha l’aspetto di una farsa sgangherata e grottesca, come quando a Krug, che si è alfine dichiarato disposto a collaborare col Governo a patto che gli venga riconsegnato suo figlio, sequestrato nottempo per poterlo meglio ricattare, viene condotto un ragazzo che non è David, ma il figlio dodicenne di un suo omonimo; oppure come nella scena in cui lo stesso dittatore si camuffa da carcerato e, recitando goffamente la parte come un guitto da quattro soldi, cerca di convincere Krug ad accettare l’ultimatum del Governo. Eppure, nonostante che in certi momenti tutto sembri una messinscena di cartapesta, bislacca e traballante, fanno capolino qua e là certi orrori in grado di fare accapponare la pelle al lettore. Si pensi a quell’Istituto per bambini anormali, che sembra richiamare certe aberrazioni naziste, il quale dà gli orfani, considerati creature di nessun valore per la collettività, in pasto a criminali ordinari per fare loro sfogare gli istinti più violenti e repressi, in un orripilante esperimento palingenetico volto a sradicare la malvagità insita in loro e trasformarli così in bravi cittadini! La violenza belluina, cieca, volgare e ignorante della dittatura, non avendo nessun contrappeso che la regoli, men che meno la ragione ed il buon senso comune, è destinata fatalmente a travolgere tutto quanto sotto i cingoli implacabili del suo meccanismo inarrestabile. Nabokov viene mosso però da una sorta di compassione per il suo protagonista e gli concede in extremis, pietosamente, la pazzia, un po’ come Pirandello al suo Enrico IV. Il riferimento all’autore siciliano non è casuale, perché “Un mondo sinistro” ha una forte connotazione metaletteraria. Krug ha infatti spesso l’impressione, nel corso del romanzo, che vi sia una presenza che lo osserva e lo agisce. Egli, ad esempio, non sa perché sia ritenuto un filosofo eminente dai suoi contemporanei: “Era una situazione assai simile a quella che può facilmente verificarsi nei romanzi quando l’autore afferma che l’eroe è un «artista eminente» o un «grande poeta» senza tuttavia fornirne le prove; anzi, badando bene a non fornire tali prove poiché qualunque esempio deluderebbe sicuramente le aspettative e la fantasia del lettore”. Il fatto è che Krug è effettivamente un personaggio letterario, il quale sembra prendere coscienza del fatto che ci sia da qualche parte un autore di questo genere, che non si sente di deludere il lettore fornendo le prove della sua importanza intellettuale tra gli uomini del tempo. Il misterioso raggio di luce che penetra nella buia cella dove Krug è recluso in un certo senso prelude alla caduta del velo di Maya e al disvelamento della presenza dell’autore deus ex machina. La pozzanghera che, all’inizio del romanzo, Krug osserva dalla finestra dell’ospedale, in cui si riflette una porzione di pallido azzurro del cielo, è la stessa pozzanghera che il narratore guarda dal suo appartamento dopo aver scritto la parola “fine” del suo manoscritto: l’una è in fondo lo specchio dell’altra, come se il suo fragile e traslucido elemento liquido fosse l’unico, impalpabile diaframma di separazione tra il mondo della finzione e quello della realtà.
“Un mondo sinistro” esibisce la tipica, prodigiosa abilità stilistica di tutte le opere nabokoviane. Si pensi alla sensibilità vibratile con cui lo scrittore riesce a descrivere perfino le minime differenze nella visione della realtà durante un semplice battito di ciglia, oppure il tour de force stilistico nella chiusura del quarto capitolo, dove Nabokov, descrivendo una ragazza che sale di corsa le scale di casa, passa dalle stelle cucite nel suo scialle svolazzante alle costellazioni dai nomi mitici, a Pascal e al suo “effroi” per “il silenzio eterno di questi spazi infiniti”, e ancora alla mitologia che fa un po’ da rete di sicurezza per il pensiero il quale, con una ardita similitudine, viene paragonato a un acrobata che esegue davanti al pubblico il suo numero da circo. E che dire poi del capitolo 7, in cui la trama arcinota dell’Amleto viene letteralmente destrutturata, smontata e rimontata a piacimento, con il risultato di portare ad esiti stravaganti pur di perseguire intenti apologetici filo-governativi (l’esegesi artatamente proposta dal professor Hamm, il quale sembra prefigurare la celebre figura del Charles Kinbote di “Fuoco pallido”, secondo cui il vero protagonista dell’opera non è Amleto bensì Fortebraccio), o oscure velleità pseudo cinematografiche, o ancora ingegnosi giochetti enigmistici (gli anagrammi con cui Ofelia e Amleto vengono ricondotti a personaggi della mitologia, come nel caso del principe di Elsinore che diventa Telmah, ossia Telemaco, il figlio di Ulisse che uccide gli amanti della madre)? “Un mondo sinistro” abbonda di giochi di parole, anagrammi, paronimi, palindromi, ecc., con cui Nabokov sembra voler dare sfoggio di una sfrenata e virtuosistica fantasia verbale, la quale trova la sua più compiuta realizzazione nell’invenzione di una neo-lingua, che è quella parlata a Padukgrad e di cui ci vengono offerti numerosi esempi nel corso della narrazione. Tali e tanti sono i motivi di interesse del romanzo che molti autori successivi sono stati da esso, in maniera più o meno diretta, più o meno consapevole, influenzati: tra i tanti esempi che mi vengono in mente posso citare “Smarrimento” di Richard Powers (per il delicato, amorevole rapporto che lega padre e figlio, dopo che quest’ultimo è diventato orfano, e per l’analogo, triste destino del piccolo protagonista), “La fortezza” di Jennifer Egan e “Quichotte” di Salman Rushdie (entrambi per il palesamento esplicito dell’autore nel mondo di finzione dei personaggi). Insomma, in “Un mondo sinistro” vi sono innumerevoli, sovrabbondanti pagine in grado di deliziare il lettore, e anche se alla fine dei conti il libro risulta più confuso e meno risolto di altre opere dell’autore, si tratta pur sempre di un Nabokov riconoscibilissimo, ossia di uno scrittore che anche nei suoi lavori “minori” è in grado di accreditare la sua figura artistica come una delle più affascinanti, se non addirittura la più affascinante, del secolo scorso.
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Romanzo distopico che distopico non è
"Poche cose sono più tediose della trattazione di idee universali inflitta da un autore o da un lettore a un’opera di narrativa. Lo scopo di questa mia prefazione non è quello di dimostrare se Un mondo sinistro appartenga o meno alla «letteratura seria» (eufemismo per la vuota profondità e per la sempre ben accetta banalità). Non mi ha mai interessato la cosiddetta letteratura di carattere sociale (in gergo giornalistico e commerciale: «libri importanti»). Non sono «sincero», non sono «provocatorio», non sono «satirico». Non sono scrittore didascalico né allegorico. La politica e l’economia, le bombe atomiche, le espressioni d’arte primitiva e astratta, l’intero Oriente, accenni di «disgelo» nella Russia sovietica, il Futuro dell’Umanità, e così via, mi lasciano supremamente indifferente". Con queste parole lo stesso Nabokov prepara il lettore ad affrontare un libro che ha tutte le caratteristiche dell'opera distopica. Un paese imprecisato, in un tempo imprecisato, caduto sotto un regime dittatoriale guidato da un capo ispiratore e leader di un'ideologia totalitaria. La prima cosa che viene da pensare è che tra la prefazione e il testo non ci sia molta coerenza. Le parole dell'autore non vanno d'accordo con un tal genere di romanzo. Bisogna tuttavia tener presente che, quando si ha a che fare con uno scrittore come Nabokov, vale tutto ed il contrario di tutto. In effetti, se pensiamo a Orwell (nei cui confronti Nabokov non ha mai dimostrato molta stima), a Bradbury, ad Huxley o a Dick siamo fuori strada. Questo libro non ha niente a che fare con le famose opere distopiche di questi autori. Sembra più che il mondo sinistro in questione sia un pretesto per raccontare altro. Adam Krug è uno stimato filosofo, la mente più brillante del suo paese. Da poco rimasto vedovo, cerca come meglio può di preservare il figlio, il piccolo David, dal dolore per la morte della madre. La sua nazione nel frattempo è finita sotto il regime di un certo Paduk, leader del Partito dell'Uomo Comune, portatore di un'ideologia, l'ekwilismo, che fa dell'ignoranza, della mediocrità, dell'omologazione i suoi punti cardine. Il nuovo esecutivo cercherà in tutti i modi di portare l'esimio professore dalla sua parte, affidandogli incarichi prestigiosi in cambio di appoggio e propaganda. I continui rifiuti del protagonista porteranno il governo a ricattarlo usando l'unica vera arma a disposizione: David. Le conseguenze saranno catastrofiche. Certo, non mancano le critiche ai totalitarismi, ai dittatori e ai loro ciechi seguaci, alla società, alla violenza, alla messa alla gogna e alla soppressione di chi la pensa diversamente. Il vero tema del libro, però, è un altro: è la tenerezza del rapporto padre figlio, è la cupa disperazione che nasce dalla violenta interruzione di questo legame, è l'abissale follia in cui può sfociare il dolore, è la pazzia intesa come unico rimedio all'orrore che ci circonda. Lo stesso autore specifica che, se proprio si vuol cercare una chiave di lettura politica in questo romanzo, la si può trovare esclusivamente nella critica all'insana idea di voler a tutti i costi rendere gli uomini uguali livellandone le coscienze verso il basso. Lo stile, come sempre nei libri di Nabokov, è ricco di virtuosismi, di giochi di parole, di riflessioni filosofiche. L'autore si avventura fino a inventare dal nulla una vera e propria lingua, si spinge fino a riscrivere Shakespeare a modo suo (scelta coraggiosa quanto discutibile). Inoltre sembra divertirsi a passare spesso dalla prima alla terza persona, ma nel finale si capirà il perché di questa decisione. Tuttavia, anche se sulla scrittura e sul valore dei contenuti non c'è nulla da eccepire, la lettura pecca dal punto di vista della piacevolezza. Un po' di retorica di troppo, figure stereotipate (cosa atipica per chi ha già qualche esperienza con l'autore) ed un protagonista incapace di creare empatia anche nei momenti di maggior dolore abbassano il livello di un romanzo nato con più alte potenzialità. Krug non ispira certo simpatia, troppo compiaciuto di sé, arrogante, presuntuoso, snob, troppo freddo, disinteressato riguardo a ciò che lo circonda finché non viene toccato in prima persona. Il rifiuto di appoggiare il regime è dovuto più ad indifferenza, al disinteresse a schierarsi dall'una o dall'altra parte che ad una reale presa di coscienza, ad un deciso rifiuto nei confronti dell'ideologia dominante. Il passato scolastico da bulletto violento e dispettoso (nei confronti proprio del futuro dittatore Paduk) ne accrescono decisamente l'antipatia. Il Guy Montag di Fahrenheit 451 o il Winston Smith di 1984, pur essendo persone comuni e non i cervelli più importanti della nazione come il personaggio in questione, hanno tutta un'altra caratura e un altro spessore umano. Insomma, se cercate un vero romanzo distopico non lo troverete in quest'opera. Se volete conoscere o approfondire un grande autore leggetelo pure, tenendo però presente che dalla stessa penna sono nate opere di gran lunga migliori.
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