Un apprendistato o Il libro dei piaceri
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Imparare ad amare
Mi avvicino a questo nuovo tassello nell’universo letterario e umano di Clarice Lispector con un certo timore: sarà per il titolo che mi suona legnoso, sarà per i nomi dei due protagonisti, “Lori” e “Ulisse” che mi sembrano per una volta male assortiti, sarà perché questa prosa segue, a cinque anni di distanza, un libro a suo modo perfetto e definitivo quale è “La passione secondo G.H.”, istante narrativo in cui se Dio è conoscibile, lo è solo per via negativa perché il linguaggio non lo sa dire. Se G.H. alla fine del romanzo conosce il divino per estrema passione, mangiando una blatta, qui invece il movimento è diverso: non più un’assimilazione dell’altro dentro di sé, piuttosto un’espansione del sé verso l’altro. In fondo “Un apprendistato o Il libro dei piaceri” è la storia d’amore di due persone che devono impara a dire “io sono” per potersi davvero amare: Lori, la protagonista femminile, al solito proiezione dell’autrice, vittima e carnefice di una sensibilità acutissima e cangiante, così instabile nel suo oscillare tra vertigini e abissi, è chiamata a conoscere il lato allegro della vita, il lato luminoso e vivace che la irradia per riuscire a vivere quell’istante d’estasi capace di dare senso all’esistenza. A guidarla l’uomo che ama, Ulisse, docente universitario di filosofia, lui che ha già seguito parte del percorso e che pazientemente aspetta che lei capisca, che lei sappia, che lei alla fine sia davvero in grado di amare.
Bisogna scegliere la prospettiva giusta per tentare di tenere il passo della prosa capricciosa e a tratti insondabile di Clarice Lispector, forse aver provato nella vita quello che vivono i suoi personaggi per tentare di penetrare nel linguaggio insidioso che fa continuamente deflagrare la pagina: le creature letterarie che vivono nei suoi romanzi sono sempre donne e uomini soffocati dal velo opaco che li separa dalla verità della cosa, dal silenzio nudo del mondo, dalla vita in sé, cieca e sorda, ma che allo stesso tempo vivono con angoscia lo sguardo di Medusa che sanno rivolgere all’essenza della cosa, al destino forse senza senso, alla morte che termina un’esistenza sempre troppo breve. Eppure sanno, loro che non tollerano l’illusione, che solo accettando l’inizio e la fine, le contraddizioni del tempo, la somiglianza primitiva degli opposti possono riuscire a trovare un senso al loro inevitabile esistere. Solo al termine di questo apprendistato che fa scoprire il dolore nell’allegria e l’allegria nel dolore, Lori è pronta per amare in una notte “nera e trasparente”, di “umidità incandescente” e l’erotismo che ammanta il libro, che provoca senza mai essere davvero erotico, può finalmente farsi tramite per toccare la pienezza di un istante: come nel più classico Platone è Eros il Dio che sa condurre l’uomo in un’altra dimensione. Tuttavia Clarice sa che non c’è pienezza tra due anime mozze, ma che l’unica estasi è nell’incontro tra due anime già piene: per questo Lori ha dovuto sopportare il silenzio, per questo Ulisse non l’ha voluta subito, perché a volte il corpo può nascondere il vuoto dell’anima.
Questo è un libro facile e difficile allo stesso tempo: facile, rispetto agli altri dell’autrice, perché ha per una volta una trama, un dialogo, una parvenza di traiettoria, difficile perché si rischia sempre di appiattirne gli angoli, le incongruenze, l’indocilità; credo sia stato anche un libro difficile da scrivere perché si avverte, in fondo, che nemmeno Clarice sa dominare appieno la materia di cui scrive, perché, come ci avverte all’inizio, questo libro “si è preso una libertà più grande di quella che ebbe paura di dare”, perché scrive di quello che in lei è più forte di lei. È questa vibrazione di incertezza e talora di imperfezione che guasta di un poco il piacere della lettura, specie nei dialoghi che appaiono sempre troppo forzati o sopra le righe per essere davvero reali; siamo più in basso del dialogo-monologo altissimo di “Un soffio di vita” o del soliloquio metafisico della “Passione secondo G.H.”, ma siamo anche distantissimi dalla prosa frantumata e a tratti illeggibile di “Acqua viva”: questo “Apprendistato” è allo stesso tempo più accessibile e più prosaico, meno compiuto e più imperfetto, ma indubbiamente un libro di innegabile grazia.