Tutto è possibile
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Recensione della Redazione QLibri
Ascoltare e condividere i dolori dell'esistenza
Un sottile filo rosso collega le nove storie che costituiscono “Tutto è possibile”, l'ultimo romanzo di Elizabeth Strout, nota autrice americana che nel 2009 ha vinto il premio Pulitzer con “Olive Kitteridge”. “Tutto è possibile” è ambientato ad Amgash, Illinois, piccolo paese di provincia sperduto tra i campi di mais dove tutti credono di conoscersi, si incontrano e si salutano con un sorriso, salvo poi criticarsi con ferocia alle spalle e nascondere con accuratezza, nell'intimità delle proprie case, inquietanti scheletri negli armadi. Storie di solitudini incomprese, di sofferenze e di abusi mai confessati; storie di segreti svelati a chi sa ascoltare in silenzio e sa cogliere in uno sguardo un dolore inesprimibile. In “Tutto è possibile” incontriamo uomini e donne che portano ancora i segni indelebili delle cicatrici dell'infanzia: vittime inconsapevoli di padri violenti e madri anaffettive, bambini cresciuti nell'indigenza ma soprattutto nello squallore morale di genitori talvolta più simili a bestie che a esseri umani; ricordi che il tempo, il successo, il matrimonio, i figli non sono riusciti a cancellare, perché certi segni restano per sempre scolpiti nell'anima.
I personaggi che incontriamo nel libro hanno tutti un passato doloroso da raccontare, ma talvolta anche un presente fatto di una serenità conquistata a fatica. Perché “a stare male non si fa mai l'abitudine” e con il dolore si può solo imparare a convivere con la speranza, forse, di capire un po' di più se stessi e gli altri. Tutti i protagonisti di questi racconti meriterebbero di essere citati, mi limiterò a tre figure femminili che mi hanno particolarmente colpita. La prima è Patty, bambina dall'infanzia disturbata e dall'adolescenza inquieta, ora vedova in sovrappeso umiliata e derisa; Patty ha saputo trarre dalla sua esperienza una sensibilità che le consente di svolgere la professione di consulente scolastica: sostiene i giovani in difficoltà e li indirizza verso il riscatto sociale. La seconda protagonista ad avermi coinvolta è Dottie che da piccola rovistava nei cassonetti per trovare qualcosa da mangiare: possiede ora un B&B nel quale accoglie con premura e attenzioni i suoi clienti e ha la rara capacità di saper ascoltare e consolare chi porta nel cuore un dolore indicibile. La terza protagonista che ha catturato la mia attenzione è Mary che, dopo aver sacrificato quasi tutta la sua esistenza con un uomo che l'ha tradita e resa infelice per anni, decide finalmente, ormai anziana, di ritagliare un po' di felicità anche per se stessa andando a vivere in Italia con un giovane compagno, senza l'approvazione della figlia prediletta.
Storie talvolta di riscatto, talvolta di rassegnazione, ma sempre raccontate in modo coinvolgente ed appassionante. La Strout ha una scrittura asciutta, molto efficace: riesce con pochi tratti e brevi dialoghi a far entrare il lettore nel mondo in cui si muovono i personaggi facendone cogliere tutte le dinamiche, sia esteriori, sia intime.
“Tutto è possibile” è un testo amaro che parla di infanzie violate, di famiglie imperfette e di disuguaglianze sociali. Eppure leggendolo ho percepito un messaggio di positività e di fiducia, la speranza nella capacità di ascolto e di condivisione degli uomini e l'incoraggiamento a proseguire in un cammino in cui tutto è davvero possibile.
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Opinioni inserite: 5
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Si dice casa
"... essere capaci di provare rimorso, e di mostrarsi pentiti se abbiamo fatto qualcosa che ha ferito altre persone, è questo che ci mantiene umani" .
Devo premettere che ho scelto questa lettura pensando di trovarvi la continuazione di "Lucy Barton", romanzo che avevo apprezzato .
C'è anche lei, certo, e ci sono (in presenza o in memoria) i suoi famigliari. Si conosce la brillante carriera letteraria di Lucy, ora è celebre, spesso appare in televisione; ma troviamo anche il suo disagio nel tornare alla vecchia casa, ora abitata dal fratello. Poi i ricordi del passato, carenze e quant'altro : "Lucy Barton aveva avuto la sua dose di vergogna; accidenti se l'aveva avuta. E si era rialzata esattamente da lì ".
Il fratello, dopo tanti anni che non la rivede, "si era aspettato (...) che la presenza di Lucy avrebbe scintillato di luce propria. Lei invece era più bassa di come la ricordava, e molto più magra. Ed era vecchia! " .
La struttura del libro però è poco lineare, per cui s'intercalano capitoli che vertono su altri personaggi, altre vicende. Una struttura a me poco congeniale, non essendo un lettore di racconti.
La scrittura della Strout è come sempre abbastanza scorrevole, ma qui piuttosto dispersiva, per cui ho trovato poco agevole la leggibilità.
Nel paese di Lucy Barton
Le nostre giornate scorrono ogni giorno come placidi flussi di parole. Pettegolezzi e risate, che si librano nell’aria leggere come piume, per nascondere pensieri pesanti come zavorre. Cattiverie acide e livorose, con cui speriamo forse di espellere un veleno che ci corrode l’anima. Banali bugie dietro cui proteggere la paura di essere inadeguati.
E poi ci sono momenti, all’apparenza normali e uguali a tanti altri, in cui invece tutto, all’improvviso, diventa possibile. Anche pronunciare parole che sembrano racchiudere la verità di un’intera vita, il motivo d’essere di un’intera storia. L’essenza del dolore condivisa silenziosamente, una sera, con la proprietaria di un B&B. L’intensità di un’occasionale conversazione con uno sconosciuto, incontrato per caso nel retro di un teatro. La rivelazione d’amore contenuta in un semplice gesto osservato da lontano.
Elizabeth Strout ci regala uno splendido romanzo che si avvale di una scrittura delicata come una carezza, per condurci in un microcosmo di uomini e fatti ordinari, resi memorabili da una penna raffinata e da un animo sensibile. Non vi sono eroi e non vi sono santi in questi piccoli frammenti di vita, incastonati insieme a formare un mosaico della provincia americana. Ci sono uomini comuni, reali ed imperfetti, con le loro debolezze, paure, solitudini e meschinità. L’autrice si limita a tratteggiarne con brevi pennellate la quotidianità famigliare e provinciale, facendone percepire le placide atmosfere di gesti sedimentati e opinioni sussurrate, per poi andare a incidere la superficie con piccole crepe. Tagli in cui si cristallizzano l’emozione e la forza di inattesi e intensi attimi di comprensione umana. Bastano poche parole, un unico dettaglio, sarà ciascun lettore a riempire quelle crepe, interpretando e immaginando cosa si nasconde sotto la superficie.
È una sensazione di soffusa tenerezza quella che avvolge queste storie, o meglio, queste persone. Al centro di ogni racconto c’è la voce di un personaggio, ascoltato e non giudicato, che si rivela con le proprie ferite e ammaccature. Perché, come dice Lucy Barton, siamo tutti esseri imperfetti che possono vivere e amare solo in modo imperfetto. Ma, per un attimo, tutto, davvero tutto, è possibile: accoglienza, comprensione, sincerità.
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L'interiorità sotto la superficie
Eccomi a recensire un altro libro di Elizabeth Strout. Ormai è evidente che quest'autrice mi ha conquistata: mi piace tantissimo il suo modo di raccontare i personaggi; ciascuno con il proprio universo interiore che sfiora la vita cercando di essere compreso ed amato.
“Tutto è possibile” ricalca la struttura di “Olive Kitteridge”, ovvero si tratta di una serie di racconti che riguardano vari personaggi di una piccola comunità della provincia statunitense, tutti legati dalla figura di una protagonista. Stavolta siamo ad Amgash, in Illinois e le brevi narrazioni hanno come filo conduttore Lucy Barton, che fra l'altro ha anche un'altra particolarità: è stata la protagonista del precedente romanzo della Strout, “Mi chiamo Lucy Barton”. Ritroviamo quindi alcuni spunti narrativi già accennati nell'altro libro, entriamo nella vita di molti compaesani, parenti ed amici di Lucy Barton.
Devo ammettere che, pur stimando molto lo stile narrativo della Strout, tutto ciò mi è sembrato un pochino ripetitivo e mi ha impedito di gustare questa lettura fino in fondo.
Dopo aver amato “Olive Kitteridge” e aver molto apprezzato “Mi chiamo Lucy Barton”, sono stata letteralmente sommersa dalla piccola provincia americana e dalle storie di personaggi già raccontate nell'altro libro.
Si tratta di un romanzo delicato e profondo, con cui l'autrice ci parla ancora una volta dell'universo delle relazioni complicate che animano i vari tipi di famiglie, della solitudine, del desiderio di ogni persona di essere accolta ed ascoltata, insomma, frammenti di vita interiore ed esteriore di una multiforme umanità. Vengono inoltre riproposti alcuni temi che già erano presenti in “Mi chiamo Lucy Barton”: ad esempio la differenza fra le classi sociali ed il difficile reinserimento dei reduci di guerra nella società.
Di nuovo un romanzo profondo, intimista, bellissimo. Purtroppo anche la sensazione di averlo già letto.
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Possbilità e limite
In questo libro fatto di racconti interconnessi scritti sorvolando le vite di vicini, parenti, amici, conoscenti c'è una panoramica dell'esistenza fatta di gioie, dolori e soprattutto di tenerezza. E' lo sguardo partecipe e compassionevole che rende la lettura accattivante. Il romanzo non va mai a fondo nelle vite dei personaggi, ma le scorre e vorrebbe cogliere l'insieme soprattutto nei suoi aspetti più poetici. La scrittura come quella di Haruf è fatta soprattutto di dialoghi con la parte descrittiva ma anche narrativa ridotta all'osso. A volte sorvolare troppe vite a questo modo senza addentrarsi in nessuna implica un restare alla superficie di ogni esistenza per cui dire tutto va bene, tutto è possibile è una soluzione di comodo buonismo.
Devo dire che anche se la scrittura della Strout come quella di Haruf è di altissimo livello, leggere tutti questi dialoghi risulta stancante. A volte ho percepito un fastidioso retrogusto di pettegolezzo paesano. Certo è difficile mantenere alto il livello delle innumerevoli conversazioni per tutto il romanzo senza mai cadere o nel banale o nel letterario. Per dire la verità, non ho gradito ad esempio la presenza di Lucy Barton, alter ego dell'autrice tra i personaggi e il fatto che sia mitizzata nel paese, anche se non in famiglia. L'ho trovata di cattivo gusto. E nemmeno mi è piaciuta la albergatrice che sputava nella marmellata dei clienti e certe conversazioni tipo quella della casa-pene.
Comunque il romanzo è di facile lettura, piacevole e decisamente consigliato.
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Voglia di tenerezza
Ho letto questo libro, regalo di una persona cara, durante le scorse vacanze di Natale e sono rimasto molto colpito. Conoscevo già Elisabeth Strout per “I ragazzi Burgess” e, anche attraverso questo sito, mi sono fatto l’idea di una scrittrice che merita di essere seguita.
“Tutto è possibile” è un romanzo di grande sensibilità, ogni capitolo è una storia a sé, ma collegata alle altre da personaggi che appartengono ad un un’unica comunità e rete di relazioni.
In ogni storia sono disseminati dettagli che aggiungono informazioni e completano le storie parallele. Una via di mezzo tra un romanzo corale e una raccolta di racconti, ognuno dei quali si conclude con un momento topico, miracolosamente capace di rappresentare con grande naturalezza e spontaneità la poesia dell’anima del protagonista di turno.
La Strout riesce a catturare questi bagliori, queste schegge di poesia nella vita quotidiana e a riprodurli giocando con la luce, come un fotografo che vede ciò che tutti hanno sotto gli occhi ma non si soffermano a cogliere.
Ho scritto poesia, ma forse è più appropriato parlare di tenerezza, che ha infiniti modi di presentarsi e di commuovere e prevalentemente si nasconde sotto forme semplici, frequenta la sconfitta e il dolore, accompagna il ritorno alla realtà dopo le illusioni, rende dolce un boccone amaro, predilige gli occhi bassi e poi li illumina di nuova luce.
Terapeutico.