Tutto potrebbe andare molto peggio
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Recensione della Redazione QLibri
Giusto per essere Frank
Il primo baluginare lo si sussurra, ma poi lo si scavalca. Perché dapprincipio pongo un quesito che dovrebbe arrivare ultimo, ma in quel caso acquisirebbe la rilevanza della chiosa e tutto sarebbe falsato.
Parlare di mediocrità denota mediocrità? L’approfondimento di ciò che è mediocre può risultare tratto sintomatico di una mediocrità in fieri? E’ una domanda sostanzialmente idiota, lo è senza ombra di dubbio. È una domanda che sarebbe ancora più idiota se la mia idea fosse di porre me stesso nel ruolo di soggetto parlante. Ma non è di me che mi preoccupo, non della mia ipotetica, consequenziale, ragionevolmente plausibile mediocrità. Di questo, in questo frangente, credo mi sia felicemente concesso il disinteressamento. Mi dichiaro parlante solo nella misura in cui parlo di chi parla, ed è a questo secondo “chi” che intendo dedicare un ragionamento che parte dalla domanda suddetta, in un moto rettilineo che, come spero, possa svincolarlo di almeno una parte di quella irrazionalità che è causa prima dell’instabilità logica della domanda.
Ancora, scrivere di qualunquismo non significa naturalmente essere qualunquisti. Se il pensiero umano fosse tanto rudimentale da basarsi su così erronee giustapposizioni ci troveremmo ad un grado evolutivo certamente minore rispetto a quello raggiunto, perciò taglio dapprincipio determinate radici che non devono attecchire, su nessun terreno. Interessante, però, il coincidere della tematica con i mezzi con cui questa è stata espressa. La mia personalissima opinione a proposito di questo nuovo romanzo di Richard Ford parte proprio da questo convergere di due mediocrità, che danno come unico risultato una fioritura massimamente pleonastica in cui il flusso di pensiero dell’everyman è narrato tramite il flusso linguistico dell’everywriter. Everyman è una bellissima parola che viene usata nella quarta di copertina del volume italiano di questo romanzo, una parola che trovo di grande efficacia perché carica di un portato più ampio rispetto alla locuzione italiana “uomo comune”. Come nella piena tradizione lessicale tedesca, luogo in cui si agglutinano più parole a formare monumentali catene di significati interconnessi, “everyman” racconta esattamente la condizione di inaggirabile anonimato propria della persona qualunque. Racconta il ridimensionamento in senso generale di quei traguardi contestuali e personali che sembrano grandi agli occhi di chi li ha perseguiti e raggiunti. È un termine-livella che appiana tutti quei picchi che ognuno crede di aver raggiunto per potersi poi permettere uno sguardo soddisfatto al di sopra della piana, al di sopra (anche se poco) dell’”every”. Frank Bascombe, il nostro uomo qualunque, forse nemmeno li ha scalati fino in vetta quei picchi vitali. Forse ha toccato qualche acme professionale in quanto rinomatissimo agente immobiliare della West Coast, forse ha sfiorato il benessere. Ma il benessere non è necessariamente sintomo di distinzione. Forse Frank Bascombe, odierno settantenne domatore di noia, prostata e dolori cervicali, plurisposato e disilluso, forse è veramente il paradigma più convincente del qualunquismo e dell’omologazione civica. E va tutto bene, vanno bene le letture al programma per non vedenti nella stazione radio locale, vanno bene i carotaggi farraginosi che mostrano spaccati di vita trascorsa senza spiegarla, va bene la prima moglie col Parkinson che si dà al feng shui con le fiammanti scarpe da ginnastica arancioni. Tutto può rientrare nel dilettevole giuoco del “metti-nel-calderone-l’omologazione”, a patto, però, che questo venga appropriatamente bilanciato da un contraltare narrativo sufficientemente degno e operativamente solido. Senza pepe nel lessico il romanzo cola a picco come la Doria. Raccontare la mediocrità - e qua ritorno alle premesse - con parole mediocri, a parer mio, è la più esatta e tautologica delle ricette votate al fallimento. Richard Ford, per quel che ho letto, ha bisogno di una trama forte, ben calibrata e col vento in poppa. Solo con questa condizione mi sembra che il risultato possa risultare apprezzabile. Per raccontare la noia bisogna saperla evitare mentre la si racconta e, Pulitzer più Pulitzer meno, c’è chi lo sa fare e c’è chi si limita a provarci. Non ho la minima intenzione nemmeno di mettermi a ragionare su quali siano i possibili scrittori che con una trama e delle premesse contenutistiche tali potessero far di meglio. Sono sicuro che ce ne siano ma mi sembra, questo, un badalucco troppo scorretto e troppo poco edificante.
Sono certo fin d’ora, prima di giungere a conclusione, che non avrò una vera e propria risposta, forse nemmeno una farlocca, da porre alla fine per rispondere allo stupido quesito del principio. Perché qualora decidessi per un’etichettatura specifica (MEDIOCRE), questa sarebbe una risultante tanto personale quanto poco verificabile in un contesto generale. È probabile, in realtà, che raccontare la mediocrità sia una pratica altamente selettiva e discriminatoria: o lo si sa fare in modo eccellente, e dunque ci si veste di allori, o non si è in grado, e allora l’occasione di tacere è ormai perduta.
Ciò che mi appare chiaro, in tutta onestà, è il fatto che l’unico indicatore che mi mette in contatto con uno dei possibili versanti di gradimento, è anche quello che, di tanto in tanto, durante la lettura, faceva affiorare alla mia coscienza un’altra insidiosa domanda, forse più rivelatrice e spietata della prima: “E quindi?”. E quindi? Cosa?
Non è certo un buon segno, non lo è, per lo meno, per la considerazione che ho di questo romanzo “tardo”. Tardo in quanto prodotto in tarda età, una medesima tarda età che lo scrittore condivide con il suo personaggio. Non so cos’altro li leghi, mi auguro non il cinismo di bassa lega che trasuda dai discorsi di Frank Bascombe. Incapace di relazionarsi senza una falsità di fondo che farebbe stramazzare Pirandello, Frank e le sue manierate teorie da mancato intellettuale sono lo sciapo coronamento di ciò che, in realtà, sarebbe potuto andare molto meglio.
P.S. Un grande peccato davvero per il gioco di parole del titolo originale. Si porti un cordiale ai traduttori, serve un po' di allegria ogni tanto.
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Spaccati di vita...
…attraverso il prisma della morte. E’ strano questo libro. Profuma di America già dalle primissime pagine, ma, molto presto…e fino alla fine…ti trasmette il profondo senso della malinconia e della tristezza tipiche della fase dell’invecchiamento. Ci racconta spaccati della vita di un uomo che hanno a che vedere con il crollo umano che ci può essere quando si perde un figlio, con il lento avvicinarsi dell’ultima età della vita, con la distruzione che certi eventi naturali comportano, con la distruzione che certi comportamenti umani possono provocare. La parte che ho più apprezzato è stato il dialogo lento, lentissimo, con la signora Pines, attraverso il quale si è potuta ricostruire la storia sua e della sua famiglia ed il suo desiderio di ritorno alle origini, per trovare, per quanto possibile, la pace. Dopo la lettura, mi resta forte addosso il senso di solitudine, di ricerca di senso, in questa vita, che è sottrazione graduale, fino ai nostri ultimi istanti.
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Riflessione di una vita
Frank Bascombe ha sessantotto anni, e' in pensione, e' stato un giornalista sportivo, sedicente scrittore, agente immobiliare, ha vissuto una vita comune a tanti, due matrimoni, due figli, ha sofferto per separazioni e lutti famigliari, ha traslocato ed oggi si ritrova nell' epifania del proprio viaggio esistenziale e ne riannoda i fili, abbandonando ogni speranza in un futuro che non ci sara' e ritornando su avvenimenti passati che hanno determinato il presente.
Riavvolge, così', il nastro di una esistenza comune, fermandosi a sondare e riannodare i temi di una vita.
Se la trilogia precedente ne aveva attraversato la giovinezza, l ' eta' adulta e la piena maturita', accostate a tre stagioni dell' anno, primavera, estate ed autunno, rieccoci, oggi, in un inverno di senilita', alle porte del Natale e dopo un terribile uragano che ha travolto e spento ogni cosa, persino la speranza.
Spogliati di tutto, in quella sottrazione continua che e' la nostra vita, nudi , vulnerabili, e proprio per questo piu' veri, scevri da retaggi storici e culturali, i personaggi di Ford ruotano attorno al nocciolo della vita, i sentimenti, l' amore, i tradimenti, l' amicizia, il dolore.
Frank si ritrovera' a riavvolgere il nastro della memoria, circondato da vecchi amici, dalla ex moglie, da conoscenti scomparsi, da traditori e figure di contorno, che rientrano improvvisamente nella sua quotidianita' in un' ultima sfida che ha poco da chiedere, e da concedere, perche' chi per eta', chi per malattia, chi travolto da quell' uragano pigliatutto, non ci restano se non le macerie di un mondo indirizzato a grandi passi ed inconsapevolmente verso l' autodistruzione.
Frank osserva, dialoga e ragiona prevalentemente con se stesso, perche' il dialogo con gli altri e' precluso dalla propria storia, da un destino segnato, da scelte sbagliate, in quanto " una infinita lontananza e' alla base di tutti noi e ci unisce quanto ci separa, in modo misterioso eppure del tutto adeguato al corso della vita ".
E' per questo che ogni definizione viene meno, o il tentativo di capire e di spiegare il reale ed i sentimenti.
A chi gli chiede " Tu cosa pensi di me ? " non ha una risposta certa da dare, perche' dietro la domanda si nasconde un " io cosa penso di te ".
Nel riassumere la sua vita, Frank vorrebbe semplificare, andare per sottrazione, entrare nel centro delle questioni e togliere la complessita' del linguaggio, ribadendo che la sua e' stata una vita felice.
Ford, come sempre, sa narrare egregiamente, descrive luoghi intrisi di silenzio e di dolore, paesaggi nudi e crudi ma profondamente reali, cosi' come tratteggia in modo esemplare i sentimenti, le relazioni umane e il soliloquio del protagonista, tutti elementi che ne scandiscono la peculiarita' di autore di prima grandezza.
Il suo stile è' asciutto, obiettivo, racconta fatti e persone facendoceli vivere intensamente, assaporare, in una semplicità' descrittiva ricca di contenuti.
I capitoli del romanzo sono quasi racconti unici e scorrono in quella linea continua che e' il percorso di una vita intera.
E la vita, alla fine, con le proprie infinite sfaccettature del quotidiano, rappresenta la sintesi di una esistenza, accettata per quello che è', quasi che il reale significato stia nella presa di coscienza e nella accettazione del proprio essere e di quel destino tracciato e scolpito nella memoria.