Trilogia della città di K.
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Una K di dolore
Tre romanzi scritti in periodi diversi e raccolti in un'unica fantastica opera: "La trilogia della città di K." è uno di quei libri che, a mio modestissimo parere, è peccato mortale non leggere.
La prosa tagliente, asciutta ed efficace ci immerge in un primo capitolo ("Il grande quaderno") di rara durezza e crudeltà, in cui i giovani protagonisti raccontano il mondo circostante con implacabile distacco, accettando la violenza ed il sopruso come la normalità ed imparando ad usare queste deleterie armi per raggiungere gli obiettivi preposti. Un fardello immane che si porteranno nel futuro, vivendo esistenze distorte come efficacemente esposto nel segmento successivo ("La prova"). A seguire Kristof, con un colpo di classe inaspettato, ribalta ogni percezione e rielabora il punto di vista utilizzando una lente d'ingrandimento adulta, seppur attendibile fino ad un certo punto in quanto forgiata in un contesto corrotto.
L'assenza di qualsivoglia edulcorazione ed il nulla emotivo in cui Lucas e Claus crescono rende conseguenza logica lo scenario maturo presentato dell'autrice, abile a partire da situazioni vissute sulla propria pelle (l'invasione tedesca in Ungheria, l'esilio in Svizzera) per dare sfogo ad un romanzo in cui la rabbia pronta a deflagrare in modo iperbolico viene celata sotto la coltre obnubilante dell''indifferenza. Il terzo romanzo ("La terza menzogna") si erge quindi a chiave di lettura imprescindibile, in cui la realtà dei fatti viene esposta senza più filtri infantili o fantasie distorte, lasciando ancora una volta il lettore a bocca aperta.
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Gioco di specchi nel dolore
Togliete ai bambini lo scudo dell'innocenza e costringeteli ad imitare gli adulti per sopravvivere ed avrete distrutto l'uomo che saranno.
In un luogo volutamente indefinito sia a livello temporale che geografico, la città di K, imperversa la guerra.
I due gemelli di cui nella prima parte non conosciamo neanche il nome, vengono lasciati dalla madre in difficoltà presso la nonna materna, una vecchia megera arida, avara e fondamentalmente cattiva, non a caso per tutti è "la strega, sospettata di aver assassinato il marito anni prima.
Qui non ricevendo affetto ma costretti a dare per avere anche solo da mangiare, trattati come piccoli adulti, si comportano come tali, inquietanti le giornate a tema: esercizio di digiuno per abituarsi ai morsi della fame, esercizio di crudeltà e via discorrendo, tutto per non essere impreparati di fronte a nessun dolore e a nessuna privazione. I bambini imparano presto che tutto è corrotto e corruttibile, che non c'è nulla che non si possa ottenere senza la giusta dose di determinazione e dove non si arriva con la ragione c'è la violenza.
La prima parte del romanzo è come una secchiata di acqua gelata nella schiena, dura, violenta, l'autrice non ci risparmia niente delle violenze fisiche e morali a cui è sottoposta un'infanzia violata fuori e dentro il focolare domestico .
Inquietante l'"io" narrante che è sempre un "noi" al plurare, i gemelli vivono tutto in simbiosi e affrontano ogni crudeltà a cui assistono senza alcuna empatia, come accadimenti ineluttabili. Le pagine sulla tragica morte della madre e il nulla emotivo che ne consegue sono a dir poco scioccanti.
E' un libro dove è tangibile non l'assenza dell'amore ma la lotta quotidiana per far breccia tra le pietre dell'odio, della prevaricazione del più debole, del diverso.
Abbiamo una carrellata di personaggi sofferenti e tristi, imbruttiti dalla guerra e dalle miserie della vita, il vissuto sfocia spesso in un sesso malsano, triviale, volgare, un istinto quasi animale. Ci si vive accanto ma non si riesce a fidarsi e costruire qualcosa di duraturo e chi rimane ancorato ad un sentimento (per il marito perito al fronte ) è ugualmente un alieno solo e infelice.
Non mancano i gesti di generosità e d'amore, nella seconda parte scopriamo i nomi dei ragazzi che si erano separati in modo asettico e impersonale alla fine della prima parte.
Uno dei due va all'estero e l'altro, Lucas, si prende cura del figlio deformedi una ragazza incestuosa e lo ama come può il suo cuore a metà , ferito e che non sa definire l'amore . Questa è una parte importante , meno violenta, l'autrice dissemina indizi che ci aiuteranno a dipanare i dubbi che fa insorgere la terza parte in cui il fratello Claus (anagramma di Lucas) ritorna alla città natale per reincontrare il fratello e viene da questi disconosciuto. Con vari flshback viene narrata una vicenda dei ragazzi diversa da quella raccontata nella prima parte e che potrebbe confondere il lettore ma in realtà spiega cosa è realmente accaduto, non a negare il racconto iniziale ma a dargli la giusta prospettiva : forse una realtà distorta, dove la follia e l'immaginazione sono state solo un rifugio da una realtà troppo terribile per essere accettata ?.
E da bambini senza amore si diventa adulti che non credono nella vita e negli altri e vedono la morte come uno stato più auspicabile dell'essere una sorta di apolide non solo geograficamente ma anche dell'amore.
Crudo, duro, spietato, ingegnoso nella costruzione, si legge d'un fiato con la stessa veemenza che trasmette.
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STORIE DI ORDINARIA FOLLIA
Questo è un libro duro, deciso, potente, di quelli che suscitano fortissime sensazioni, tra loro diverse, commuove e indigna, comunque emoziona e ci coinvolge in prima persona.
Perché è diretto, va diritto al punto già dalle prime righe, si vale di una prosa asciutta ed efficace, esauriente ed esaustiva, cruda e crudista, la sola che serve per sciorinare la vergogna di cui si scrive.
L’assoluta protagonista di questo testo è una sola, l’indecenza più infame di cui continua a lordarsi la razza umana: la guerra. E le sue perfide conseguenze.
L’iniquità più vile, quella di origine di Caino e Abele esportata in grande stile in ogni luogo, ancora più disdicevole allorché si tratta non di una guerra tra diversi per varie cause, ma di un conflitto interno, detto assurdamente civile, tra connazionali, di stirpe comune, fino a ieri sodali e poi in lotta tra loro in nome di una pretesa, e pretestuosa, pulizia etnica di sorta.
“…Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di sé stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti.”
Vittime innocenti se ne contano a dismisura in una guerra, in qualunque guerra, in ogni tempo ed in ogni luogo, e sono per di più, paradossalmente, i non belligeranti, quelli non solo incolpevoli, ma anche i più esposti, fragili ed indifesi perché ancora in divenire, non posseggono cioè strumenti atti a proteggersi. Primi tra tutti, i bambini.
“…Dio Onnipotente, benedici questi bambini. Qualunque sia il loro crimine, perdonali. Pecorelle smarrite in un mondo abominevole, vittime della nostra epoca corrotta, non sanno quello che fanno...”.
Ma il fragore delle bombe è forte, fa saltare in aria una madre con la sua bimba da poco nata, figuriamoci, difficile anche per Dio riuscire a sentire questa richiesta.
I bambini, un termine questo che li comprende tutti: i cuccioli, i ragazzi, i minori, da zero agli anni della sopraggiunta maturità, che quando e se giunge e li trova ancora in vita, l’età adulta arriva comunque ben prima della maggiore età anagrafica. I bambini: quelli più innocenti di chiunque altro e paradossalmente proprio per questo destinati a subire soffrendo più di chiunque altro, fame, violenze, dolori nel fisico e, soprattutto, graffi indicibili nell’anima. Lividi spesso incancellabili. L’anima di un bambino, una volta infranta, si scheggia, i residui graffiano anche a distanza di tempo. Sono spunzoni di ferro arrugginito ben nascosti, ma acuminati, aguzzi, taglienti. I bambini imparano certo, in fretta e bene, come si usa dire quello che non ti uccide ti forgia, ma le macerie ormai esistono, la deflagrazione lascia solo pochi resti intatti, e solo con quelli ormai distorti e difficilmente ricomponibili possono porsi all’opera per ripartire una volta passata la buriana, ma si sa, ricostruire con i rottami non assicura mai la piena stabilità originaria.
Le fondamenta conservano intatte le crepe, nascoste ma profonde.
Insite nei pensieri reconditi, anche se non ci si pensa:
“…Non penso. Non posso permettermi questo lusso. La paura è in me sin dall’infanzia…”
Prime vittime tra tutti, sopra chiunque altro, sono allora specialmente i bambini: perché al di là dei disagi fisici, l’angoscia, la paura, il terrore, quello che li annienta davvero è l’anaffettività degli adulti.
Il disamore dell’uomo verso i propri cuccioli, l’incapacità di sottrarli agli orrori, di evitarne gli inevitabili abusi conseguenziali alla violenza, un atto che va contro ogni legge di Natura.
L’assenza assoluta di Amore, quello vero, con la maiuscola, a cui chiunque ha diritto, specialmente in tenera età, questo è quanto uccide l’infanzia. La distrugge, la divora, la insozza.
In tempi di guerra, ogni barlume di umanità si spegne, gli stessi congiunti sono indifferenti alla sorte dei minori, è un “ognuno per sé e Dio per tutti”, un “si salvi chi può” quanto mai diffuso e crudele.
La fame e la violenza, il dolore e la disperazione, superati certi limiti, malgrado l’amore ed ogni espediente possibile, ogni rinuncia ed ogni sacrificio a favore dei propri cuccioli, portano uomini e donne, genitori, nonni, tutti ad un punto di non ritorno, allorché esacerbati e inaspriti fino allo sfinimento, giocoforza ognuno può a stento salvaguardare sé stesso, e non altri.
E spesso nemmeno allora.
Un bambino resta solo, anche se ha ancora congiunti in vita, forse proprio allora è ancora più solo, deve cavarsela in proprio, sbrogliarsela al meglio delle sue capacità acuitesi d’improvviso, deve struggersi, arrovellarsi, disfarsi, consumarsi per porsi in salvo. Pagandone il prezzo, salatissimo.
In estrema sintesi, questo è il tema della “Trilogia della città di K.” di Agota Kristof: non è però, si badi, un comune libro che parla di bambini violati dalla turpitudine della guerra, abbandonati a sé stessi, e che tutto malgrado con intelligenza, ingegno, capacità riescono in qualche modo a cavarsela.
Affatto: questo è un testo insolito perché blasfemo, descrive l’Uomo a sua immagine e somiglianza, quando dà il meglio di sé, che coincide sempre con le sue azioni più infamanti, laide, lerce, quando cioè arreca danno all’esistenza dei suoi simili, con tutto quello che ne consegue.
Ecco quindi che la trilogia è un triplice racconto tre volte turpe perché parla di turpitudine, abietto alla tripla potenza perché descrive abiezioni, abominevole con esponente tre perché racconta di situazioni infami, meschine, spregevoli, è un romanzo che non nasce dalla fantasia dell’autrice ma è una cronaca di pazzia, la trilogia della Kristof riporta storie di ordinaria follia, quella che quotidianamente si avvera ogni giorno in qualche parte del mondo, talora neanche tanto lontano, e di cui siamo perfettamente al corrente, non facciamo più una piega, ne siamo indifferenti perché ormai assuefatti ad ogni forma di conflitto armato, di per sé stesso sciagurato, sozzo, sporco, e di cui ci sdegniamo fieramente vedendo i piccoli bimbi spauriti, sporchi, terrorizzati che si aggirano in lacrime tra le esplosioni…purché il tutto avvenga abbastanza distante da noi.
La Kristof non fa romanzi, sciorina un elenco di fatti: perciò la sua prosa è secca, asciutta, non perde tempo né sciupa pagine per arzigogolare o dare sfoggio di cultura o di sapienza narrativa.
Inizia raccontandoci di due bambini gemelli, perfettamente uguali tra di loro nel fisico e nell’animo, due metà speculari e complementari, uno yin e uno yang infantile, abbandonati a se stessi e costretti a cavarsela da soli in un mutuo soccorso che esclude giocoforza chiunque altro estraneo alla loro ristretta duplice cerchia genetica: non perché siano privi di empatia umana, tutt’altro, ma perché il rinchiudersi in sé stessi è un’arma, forse l’unico espediente possibile alla loro età per la propria salvaguardia fisica e mentale. Trovano unico rifugio, salvezza e conforto in sé stessi: non a caso l’autrice racconta di due gemelli, perché intende far risaltare in doppia copia tutta la brutalità la crudeltà, l’efferatezza a cui i due bimbi sono esposti, innalza al quadrato tutta la violenza e l’oscenità insita nella privazione dell’infanzia a cui sono costretti. Parimenti non a caso per tutta la prima parte i due bimbi non hanno un nome che li distingua, verranno citati molto in seguito, perché sono l’incarnazione a doppio esponente di tutta la sofferenza patita dai propri simili, e l’orrore di per sé è ad un tempo universale e indescrivibile, non necessita perciò di nomi propri.
Tutte le afflizioni, le angosce, i patimenti, sono uno strazio che gli stessi bambini non sanno esternare, per una forma di innocente ed ingenuo pudore, ne hanno fatto eventi usuali della loro esistenza che almeno in apparenza passano senza lasciare strascichi o turbe di sorta, può essere riportata solo in gran segretezza in un grande quaderno, gelosamente celato a chiunque.
La prova più grande a cui saranno sottoposti è la loro separazione, l’evento certamente più traumatico, violento e conturbante a cui possono essere sottoposti due metà di un’unica essenza: ma non esitano a compierla per assoluta necessità di sopravvivenza personale. Ad ogni costo, a qualsiasi prezzo: finanche passando per un campo minato nell’unico modo in cui è possibile farlo, facendosi precedere da altri e utilizzandoli come guide sacrificali per segnare il cammino sicuro. Fa niente che si tratti di congiunti stretti. Si separano: ognuno rinuncia ad essere il custode di suo fratello, ad un pezzo di sé.
Tutti questi choc non passano senza lasciare tracce, in qualche modo serve mentire a sé stessi per mantenere un minimo di sanità mentale: puoi allora costruirti una menzogna, poi una seconda, poi una terza. Per concludere con un unico assioma: gemelli o no, l’orrore è unico, individuale.
Perchè ognuno non ha che una sola esistenza, e quella vive: se è una vita segnata dalla violenza, prima o poi l’assurdità si trasmuta in verità, il delirio in chiarezza, l’anomalia in coscienza.
Lo dice Lukas al gemello Klaus:
“…Hai dimenticato quanto ci amavamo? Io non ti ho dimenticato, Klaus.”
E Klaus risponde altrettanto chiaramente al gemello Lukas:
“Nemmeno io. Ma non serve a niente rivederci. Non lo hai ancora capito?”
In sintesi, puoi divenire il maggior poeta del Paese, ma non trasmutare in candore e innocenza storie di ordinaria follia. Tanto vale andarsene. In treno.
“…Il treno è una buona idea.”
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AMBRA GRIGIA: QUADERNO GRIGIO, PROVA GRIGIA, MENZO
Non è un romanzo che si può rivelare in poche righe, né un romanzo che deve essere anticipato, si deve leggere e basta. Questo non è un semplice romanzo né una semplice riflessione sulla guerra ma molto di più. E’ incredibile come sia riuscita la Kristof con uno stile secco, senza amore e diretto a raccontare e a far provare così tanto, non è affatto facile farlo. Non c’è empatia e non c’è nulla, è tutto grigio. E’ Affascinante e tagliente come una lama affilata (arrugginita). Profondo come una ferita non rimarginata che continua a riaprirsi. Letale nella sua indifferenza e grigio come il cielo. E’ un libro che non può non mancare dalla propria mente, è un libro che un può mancare dal proprio cuore, è un libro che non si può scegliere di non leggere, è un libro che non ti lascia scampo e ti lascia interdetto. Da questo romanzo ci si deve far cullare dal grigio e nient’altro, senza porsi domande. Gli stili utilizzati nelle diverse parti sono perfetti, azzeccati e incalzano il racconto con psicopatica freddezza.
Le prime due parti sono magistralmente create per farti entrare dentro il grigio.
Il grigio pervade la terza che è diversa e meno potente ma che si incastra bene con il resto del racconto anche se meno riuscita per certi versi e meno scorrevole.
Capitoli brevi come piace a me ma con tanto contenuto e con tanta crudezza.
Penso proprio che la Kristof abbia fatto un grande lavoro e che ha dato delle precise impronte in ogni sua parte.. Dallo stile dei vari capitali, alla lunghezza dei capitoli e alla varie immagini forti che ci presenta davanti.
E’ un libro che non si dimentica, per me imprescindibile e che ho amato molto. Lo consiglio vivamente
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Lucas & Claus: vite spezzate.
«È una società fondata sul denaro. Non c’è spazio per le domande che riguardano la vita. Ho vissuto per trent’anni in una solitudine mortale»
Tre romanzi nel romanzo o se preferite, tre grandi capitoli tra loro esattamente suddivisi che lo compongono, reggono le fila de la “Trilogia della città di k” di Agota Kristof.
Apriamo il volume e iniziamo a scorrere le prime pagine di quello che è intitolato “Il grande quaderno”. La reazione è unica: sconvolgimento, dubbio, perplessità. La durezza, la crudezza e la violenza che vi sono insite lasciano nel lettore un profondo e ineguagliabile senso di desolazione. Com’è possibile, si chiede questo, che ciò accada? Perché i due giovani protagonisti vivono questa vita priva di affetti, bontà e altruismo? Non vi sono risposte se non quella che tutto è necessario e lecito pur di sopravvivere e andare avanti. Anche un rasoio in tasca. Perché quando perdi i tuoi genitori e vivi in un contesto di guerra, non sei altro che spettatore e la morte perde quei suoi connotati di naturalità e eccezionalità per diventare abitudine. A completare il quadro, capitoli brevi e caratterizzati da una penna altrettanto dura, asciutta, pungente e che nulla risparmia a chi legge.
A questo diario redatto dai fratelli, ragazzi in età scolare che si attengono a fatti vissuti quali normali perché soltanto quelli conoscono, segue il secondo episodio intitolato “La prova” e dove, questa volta, conosciamo della vita separata dei gemelli. Sono ormai uomini adulti, questi, e sono chiamati a vivere distaccatamente anche se costantemente obbligati a convivere con un passato che li ha marchiati, che li ha resi incapaci di ogni affetto e di ogni forma di legame durevole. In questo capitolo le carte vengono magistralmente mescolate dall’autrice, il lettore si trova di fronte ad un linguaggio meno duro e asettico, ma, tuttavia, è confuso perché tanti sono gli enigmi che si susseguono e che ancora non trovano risposta.
Infine, “La terza menzogna” ha il compito di chiarire le idee, di mostrare quel che davvero è accaduto, di far luce su verità e falsità, di ricostruire il sentiero di vite spezzate.
Il tutto attraverso il filo conduttore dell’esilio, attraverso salti temporali tra presente e passato, tra età adulta e età infantile; il tutto attraverso una volontà di ricostruzione dei fatti che è affidata al conoscitore che pian piano ricompone i tasselli del puzzle narrato e che è chiamato a scegliere quella che è per lui la vera verità.
Un libro che attrae, che rapisce, che incuriosisce e che destabilizza a più riprese. Un elaborato che è un pugno nello stomaco, che invita alla riflessione e che non si dimentica anche ad anni di distanza dalla lettura.
«- Morirà presto, il mio albero. Dice: Non faccia il sentimentale. Tutto muore.»
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Vite spezzate
Le prime pagine della trilogia sono un pugno allo stomaco. Davvero mi è capitato raramente di leggere qualcosa di più crudo, violento e desolante.
E' la storia di un'infanzia violata di due gemelli, a causa della guerra e della perdita dei genitori.
I bambini diventano spettatori e protagonisti di un mondo crudele e spietato, dove la morte è quotidianità, l'essere umano è privato di una qualsiasi umanità, la bontà è merce rara e preziosa e l'amore non esiste.
Lo scenario è descritto nel primo libro in maniera magistrale con un linguaggio a dir poco scarno e asettico: è il diario tenuto segretamente dai gemelli, che sono troppo giovani per esprimere giudizi, si attengono solo ai fatti, che per loro sono normali.
Il loro agire, cinico e rigoroso, preso forzatamente in prestito dalle persone adulte, è perfettamente coerente con la realtà in cui sono immersi. E' la dimostrazione che la violenza genera violenza, che in regime di guerra sopravvive solo il più forte, che quando le condizioni di vita si spingono al limite, l'umanità e l'amore vengono sacrificati in nome della mera sopravvivenza.
La forza e il progredire di questo esordio verso vertici di immane brutalità valgono da soli la lettura di quest'opera. Poi i toni si stemperano nelle successive due parti, in cui vengono narrate le vite separate dei due protagonisti, ormai adulti. I capitoli si allungano, quasi a voler rappresentare il tempo dell'età adulta rispetto agli anni dell'infanzia.
I due uomini affronteranno per tutta la vita i fantasmi del passato, saranno incapaci d'amare e di essere felici, vivranno una condizione di miseria spirituale e di solitudine estrema, imparando a metabolizzare ulteriori lutti e infine perdendo gradualmente il contatto con la realtà che li circonda.
Il tema dell'esilio, caro all'autrice ungherese, fuggita e vissuta fino alla sua morte in Svizzera dopo l'invasione sovietica del'56, è il filo conduttore degli ultimi due libri, dove peraltro la narrazione a mio parere perde in coerenza e in efficacia.
Qui Agota Kristof confonde volutamente le carte, opera nel terzo libro una narrazione a ritroso, che con più salti ritorna all'infanzia dei gemelli, modificando però completamente la storia narrata nel primo libro.
L'effetto è molto destabilizzante per il lettore, che deve decidere qual è la realtà e quale la finzione (non a caso l'ultima parte s'intitola "La terza menzogna").
Il tutto rimanda a Kafka, al teatro dell'assurdo, all'espressionismo, alla musica dodecafonica, che servono egregiamente allo scopo ma possono essere molto irritanti.
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TRE RACCONTI PER DUE(?) PERSONE
Un racconto, anzi tre, scritti in maniera dura, asciutta e fredda, la storia di due gemelli alle prese con la guerra.
Un romanzo davvero particolare che lascia l'amaro in bocca ma anche molto di più perchè affronta l'argomento della guerra in modo quasi superficiale, ma in realtà è una presenza costante nella città, nelle persone, nell'atmosfera.
Lo stile della Kristof in questo libro è perfetto e le tre storie diverse con gli stessi protagonisti sono accattivanti, il testo scorre che è un piacere.
Quello che non è mi piaciuto del romanzo è la confusione che si ha dalla seconda parte in poi; sebbene mi siano piaciuti tutti e tre i racconti, l'ultimo l'ho trovato non all'altezza del primo, ma forse rispecchia la vita perchè molto spesso la verità non è piacevole come la menzogna. Io ho interpretato "la Terza menzogna" come l'unica vera storia di questo libro e putroppo non mi è piaciuta.
è indubbiamente un libro unico e mi spinge a leggere altre opere della scrittrice quindi ne consiglio la lettura.
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Nella lontana K
Interessante perdersi tra i vortici creati ad hoc da Agota Kristof tra le pagine di “Trilogia della città di K”.
Un romanzo duro, amaro, a tratti crudele, dove la tragedia non viene mai edulcorata, ma graffia come una belva furiosa. Da immagini di guerra, bombe, morte, ad immagini di annientamento psichico, di ottenebramento e sdoppiamento.
L'arma vincente è lo schema narrativo adottato, ricco di effetti destabilizzanti per il lettore, condotto attraverso un rincorrersi di sogni e realtà, un gioco degli specchi, di tunnel spazio-temporali in cui perdersi.
Una maniera alternativa per scrivere degli orrori della guerra, senza necessità di focalizzare su città e nomi precisi, perché le tragedie sono multiple e si intrecciano seguendo strade diverse.
Un romanzo sulla memoria, sulla fugacità, sulla solitudine imposta dal destino e non scelta, sull'importanza dei rapporti umani.
Grande e implacabile il senso di vuoto e desolazione che si innalza al termine del lungo viaggio.
Un impianto narrativo ad effetto, studiato dal suo incipit alla sua conclusione, orchestrato con maestria stilistica, punteggiato da istantanee destinate ad imprimersi nella pupilla e nel cuore del lettore.
Un vortice finale di speranza e disperazione avvinghiati e inseparabili.
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“Per favore, signora..."
Atmosfere cupe, linguaggio scarno, contenuti duri e a volte scabrosi: questa è la scrittura della Kristof, pacata e rabbiosa, deprimente e mai banale.
In questa Trilogia realtà e sogno ad occhi aperti sono sapientemente intrecciati e poi sciolti - lo stesso lettore viene più volte tratto in inganno dalla fantasia dei protagonisti - e mentre i fatti emergono in tutta evidenza ci si accorge che il tentativo di alterarli non è andato a buon fine: da un destino di dolore e solitudine non si può comunque fuggire.
“Dall'altra parte della piazza, le vecchie case sono rimaste intatte. Sono restaurate, ridipinte di rosa, giallo, blu, verde”: è uno scorcio della “piccola città”, luogo che fa da sfondo a buona parte del romanzo e che con i suoi colori vivaci si associa più alla variazione cromatica di una serie di lividi che alla gioia.
Se nella prima parte si indugia quasi nell'onirico e nella perversione sessuale vissuta da occhi ingenuamente complici, nelle ultime due l'innocenza infantile ci riserva i passaggi più struggenti, raccontando infanzie spezzate:
“Vai a piangere davanti alla tua casa vuota, non è vero?”.
Per chi ha perso da bambino la strada di casa non c'è alcuna speranza (“Per favore, signora, che autobus bisogna prendere per andare alla stazione?”), e malgrado il coraggio, malgrado la volontà di andare avanti, non fosse altro che per forza d'inerzia, resterà per sempre un adulto smarrito.
La lettura del libro è agevole ma non allieta certo lo spirito: anche l'immagine suggestiva di un cielo al tramonto dai colori “radiosi e belli” lascia un retrogusto amaro.
La fine del tormento, la speranza di ritrovare la pace, arriva solo con la sarcastica negazione della vita:
“Il treno è una buona idea”.
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UN MONDO, IN UN MONDO, IN UN MONDO……
In una qualunque città K, martoriata da una guerra qualsiasi, ci sono due gemelli che vivono le più grandi atrocità che la guerra e l’occupazione possano “offrire”. La freddezza e la piattezza dei personaggi, il punto di vista praticamente univoco dei due fratelli, rendono il romanzo abbastanza singolare e sicuramente originale sin dalle prime battute. Il punto di vista cambia continuamente fino alla fine del racconto, rendendo la storia ancora più interessante. La crudezza e la violenza alla quale i gemelli sono sottoposti è a tratti insopportabile, ma credo non troppo lontana dal vero. Si percepisce la sensazione che si può vivere dopo grandi lutti, grandi sofferenze, una sensazione di alienazione e di distacco dalla realtà, è un romanzo freddo e “aggressivo”, molto forte.
L’unione quasi simbiotica dei fratelli sembra quasi surreale da principio, ma il dolore e la violenza che devono vivere può giustificare questa vicinanza, quasi a volersi far forza l’un l’altro. La nonna che se ne prende cura è una figura altrettanto surreale, un iceberg arcigno e insensibile, almeno per quello che ci è dato sapere dal romanzo e quindi dal punto di vista utilizzato per raccontarlo. Ma certo si può trovare una “giustificazione” a tutto questo, c’è una guerra, si soffre e l’animo umano può deteriorarsi.
La stessa guerra trasforma una unione simbiotica in una dissociazione radicale e quasi schizofrenica, due vite separate a cercare due strade differenti verso la sopravvivenza. La storia si fa via via più articolata e meno lineare, si fa fatica a non essere travolti da una logica che è sempre sul filo del rasoio, si confondono realtà, immaginazione e credo anche malattia.
E’ sicuramente un libro da leggere, che lascia alquanto sconcertati, ma fa riflettere sulle ferite che possono essere inflitte alle menti e ai cuori di poveri bimbi costretti a vivere i drammi e le violenze delle guerre, di faide e tragedie famigliari. Non voglio entrare troppo negli avvenimenti raccontati in questo romanzo per non rischiare di rovinare il piacere della lettura, e per non fornire una chiave di lettura personale che potrebbe condizionare il vostro giudizio su questa opera. Posso solo dirvi che si fa fatica a staccarsi dalla lettura, almeno questa è stata la mia esperienza.