Tra un atto e l'altro
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L’immensità di Virginia nel preludio al suicidio
“Tra un atto e l’altro”, l’ultima opera di Virginia Woolf, è una lettura tanto difficile quanto suggestiva.
Si svolge in zona metafisica (“Erano lontani dal mare. Cento miglia… no, forse centocinquanta”) ricca di eco e presenze anche intangibili (“Sentivano i morti che rotolavano le bocche. Vedevano una dama bianca che passeggiava sotto gli alberi”).
Ha per teatro il più domestico e paesano degli ambienti, una casa. “Questa casa biancastra dal tetto grigio e l’ala sporgente ad angolo retto, infelicemente situata nell’avvallamento del prato con una frangia d’alberi sul pendio sovrastante così che il fumo volteggiava fino ai nidi delle cornacchie, era una casa gradevole da abitarci”.
I personaggi - “i cui nomi, come il loro, erano nel Domesday Book” - appartengono a “vecchie famiglie tutte imparentate fra di loro, i cui morti giacevano intrecciati come le radici dell’edera, sotto il muro del cimitero”.
Lo spettacolo ha il proprio rito (“Ho inchiodato l’insegna sul fienile”) in una ricorrenza ciclica (“Ogni estate, da sette estati ormai, Isa aveva udito le stesse parole”) che aleggia nella sospensione narrativa (“Se pioveva, sarebbe stata nel fienile; se era bel tempo sulla terrazza”).
“Ma la trama era importante?”
Più che la rappresentazione, pressoché inaccessibile, dominano gli spettatori: “Erano tutti catturati e ingabbiati; prigionieri, spettatori di una recita. Non accadeva nulla.”
Disseminati qua e là, i presagi dell’imminente suicidio per annegamento dell’autrice.
“C’erano sempre state delle ninfee, lì, nate spontaneamente, dai semi gettati dal vento, che galleggiavano rosse e bianche sui verdi vassoi delle foglie”
Tra sinistri auspici: “Che mi ricoprano le acque… le acque del pozzo dei desideri…”
In una tensione anticipatrice nell’imminenza del secondo conflitto mondiale: “il resto dell’Europa… laggiù… si era fatto ispido come…”
Lo stile di Virginia Woolf è potentissimo, multidirezionale, simbolico e angoscioso: “Là, appiattito sull’erba, acciambellato in un anello verde oliva c’era un serpente. Morto? No, soffocato, con un rospo in bocca. Il serpente era incapace d’inghiottire, il rospo era incapace di morire. Uno spasmo gli contraeva le squame; colava sangue. Era un parto alla rovescia – una mostruosa inversione. Così, alzando il piede, li schiacciò…. La tela bianca delle scarpe da tennis divenne rossa di sangue e vischiosa.”
Trasuda un disperato amore per la cultura: “Libri: la tesaurizzata linfa vitale degli spiriti immortali. Poeti; i legislatori del genere umano”.
Non si risolve in una formula, quand’anche interrogativa: “A che gioco gioca? Rompitutto? Tira e molla? Botte e baci? Sbircia e controlla? Guarda e taci?”
A chi desideri accostarsi a quest’opera con maggior cognizione di causa, e non tema di rovinarsi la sorpresa di una lettura tanto sorprendente quanto ostica, consiglio di anticipare la lettura della postfazione di Franco Cordelli (segnatamente dalla pagina 189): consente di meglio orientarsi in una poetica sofisticata e poliedrica, nella quale “il riflesso si determina… per frammenti, scorie, residui… una parzialità che diventa metafisica… quanto più aumenta l’esigenza di una ricomposizione, di un’intangibile, epifanica unicità.”
Io non l’ho fatto, e nel più bieco e autoreferenziale solipsismo mi sono gustato “una vicenda che pare scritta senza intervento dell’autore, magmatica come la vita usuale: non comica, non tragica, senza intreccio amoroso, senza catastrofe…”, arrendendomi al suono silenzioso delle parole di Virginia Wolf nel ritmo tumultuoso della risacca in un giorno d’agosto.