Storia di Shuggie Bain
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La disperazione in una plumbea Glasgow
Opera prima di Douglas Stuart e vincitore del Booker Prize 2020 “Storia di Shuggy Bain” si inserisce in quel filone narrativo che esplora la condizione della working class inglese nel periodo della Tatcher. Per gli amanti del cinema le atmosfere sono quelle tipiche dei film di Ken Loach. Ambientato nei sobborghi poveri e squallidi di una Glasgow grigia, quasi sempre piovosa, il romanzo, che ha forti connotati autobiografici, narra del rapporto e del grande amore tra una madre, Agnes, e un bambino, Shuggy. Shuggy, vezzeggiativo di Hugh, è il figlio nato dal secondo matrimonio di Agnes con l’omonimo padre Shug Bain, tassista e impenitente donnaiolo. La famiglia inizialmente vive a Sightill (il quartiere di nascita di Stuart), insieme ai genitori di Agnes, Lizzie e Wullie. Stanco della gelosia - fondata - di Agnes e delle sue richieste di avere una casa tutta per loro, Shug “confina” Agnes, Shuggy e gli altri due figli di Agnes, avuti dal precedente matrimonio, Catherine e Leek, a Pithead. Quartiere abitato dalle famiglie dei disoccupati creati dalle politiche liberiste della Tatcher, in Pithead lo squallore e la miseria regnano imperanti. Scritto con grande realismo Stuart non minimizza, non nasconde ma, anzi, descrive i luoghi, i personaggi, la comunità in cui essi sono calati con dettagli minuti che altrimenti sarebbero passati inosservati. L’intento dell’autore è quella di condurre il lettore per mano “dentro” il romanzo senza lasciare alcuno spazio all’immaginazione.
Nella sua narrazione Stuart assume il punto di vista delle donne poiché, come dichiara egli stesso, “cresciuto in mezzo alle donne, mia mamma e le sue vicine, ho sempre avvertito che la struttura portante della città si poggiava su di loro…e quindi volevo che questa fosse una riscrittura dal loro punto di vista…perché se gli uomini sono vittime (in questo caso dei licenziamenti) sono le donne e i bambini a sopportarne le conseguenze”.
E infatti, nella comunità di Pithead, le protagoniste pressoché esclusive sono le donne; gli uomini restano ai margini e quando appaiono mettono in mostra tutte le loro frustrazioni, la perdita di dignità conseguenza della mancanza di lavoro.
Agnes è una bella donna dotata di grande forza, ambiziosa, che sogna una vita diversa, migliore e che, come molte donne nelle sue stesse condizioni, affoga le sue delusioni nell’alcol.
La dissoluzione di Agnes progressivamente prende sempre più corpo e causa l'allontanamento da sé prima di Catherine, poi di Leek e, infine, di Eugene, l’unico uomo che sembrava poterla ricondurre alla “normalità”. L’unico che con tutte le sue forze fa da contrappeso e tenta di frenare questa discesa nell’abisso dell’alcolismo è Shuggy. Un legame profondissimo caratterizza il rapporto tra Agnes e Shuggy. Un amore profondo, incondizionato, in cui la massima aspirazione reciproca è la normalità: per Agnes l’abiura dall’alcol, per Shuggy essere come gli altri ragazzi. Nonostante l’alcolismo renda impari il rapporto madre-figlio l’amore tra i due raggiunge vette poetiche altissime. Da un lato Agnes vuole “emancipare” Shuggy dai modelli maschili di cui è circondato trasmettendogli il senso di dignità di cui lei stessa è permeata anche nei momenti più drammatici. In questo sforzo Agnes asseconda le tendenze omosessuali di Shuggy comprandogli bambole, insegnandogli a ballare e facendogli assumere un tono di voce che, però, diventa motivo di sfottò per i suoi coetanei. Per Shuggy, invece, l’amore sconfinato per la madre diventa una missione per farla uscire dall’ alcolismo. Sono momenti di poesia pura la cura con cui Shuggy cerca di “aggiustare” la madre: le pettina i capelli, canta e balla per lei, la sveste per metterla a letto vegliando sul suo sonno. In entrambi emerge prepotente un bisogno di amare e di essere amati che si esplicita in un rapporto impermeabile agli sguardi esterni, che li rende complici spesso involontari. Un tratto a mio avviso fortemente caratterizzante è che nel romanzo di Stuart vi è la assoluta mancanza di giudizio non solo nei confronti di Agnes ma anche nei confronti delle altre donne della comunità vittime dello stesso dramma. Il romanzo scorre su binari paralleli in cui la dissoluzione di Agnes procede di pari passo con l’evoluzione di Shuggy. Ma la crescita del bambino/ragazzo è complessa e resa dura da questa ricerca della “normalità” che a Shuggy non appartiene. Inseriti a pieno titolo in un mondo di esclusi dalla società, in un contesto di disgregazione sociale senza via d’uscita in cui emerge solo la sopraffazione tra pari, madre e figlio sono oggetto ambedue di emarginazione da parte degli altri: Agnes per la sua bellezza, per la sua voglia e capacità, anche nella miseria, di essere sempre elegante è oggetto di invidia da parte delle altre donne cui non pare vero di poterla trascinare sempre più a fondo grazie all'alcolismo; Shuggy, anch’egli diverso per l’assenza di mascolinità, per il suo parlare forbito, è oggetto delle angherie dei suoi compagni di scuola. Questo li rende simili e accomunati da un dolore infinito seppur diverso: vergogna e sensi di colpa per Agnes, voglia di “evadere” e speranza per Shuggy.
La bellezza del romanzo di Stuart, oltre che nella storia, sta anche nella capacità di indagare senza fronzoli e orpelli inutili ma, come dicevo all’inizio, con puro realismo gli anni peggiori della recente storia inglese e, in particolare, della working class senza indulgere in falsi stereotipi, senza inutili pietismi, senza manipolazioni ma con l’asciuttezza tipica dell’osservatore che descrive la realtà che lo circonda. Con un plus di non poco conto: questa realtà Stuart la racconta dall’interno per averla vissuta in prima persona.
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Occorre davvero fuggire per salvarsi?
Il romanzo ha come protagonisti principali una madre, Agnes, donna molto bella e curata ma alcolizzata e il figlio più piccolo, Shuggie.
Agnes viene abbandonata dal marito che non riuscendo a sottrarla all’alcol e tradendola continuamente, non sopporta più la convivenza, e appena riesce anche dalla figlia più grande che si sposa e va a vivere lontano, e più avanti nel romanzo anche dal secondogenito. Rimane Shuggie, che la ama più di se stesso e che soffre quando vede la madre preda dell’alcol per respirare invece una precaria aria di normalità quando lei non beve.
Shuggie, bambino educato, protettivo nei confronti della madre perché come la madre ha bisogno di essere amato, delicato nel parlare viene deriso dai compagni molto diversi da lui nella estrema povertà del periodo e del luogo in cui abitano. Viene presa in giro la sua andatura e viene considerato un bambino con attitudini omosessuali. Shuggie ovviamente ne soffre senza riuscire a capire cosa ci sia di sbagliato in lui.
L’avvicinamento agli alcolisti anonimi aiuta Agnes a liberarsi dall’alcol, purtroppo solo temporaneamente finché un uomo che dice di amarla non la costringe alla prova d’amore: provare a bere per dimostrare di essersi liberata dalla schiavitù dell’alcol. Ed Agnes, che beve per dimenticare una vita che non le piace, sprofonda di nuovo nella sua dipendenza.
La vicenda si svolge a Glasgow, nel periodo della chiusura delle miniere che causa un forte impoverimento nella popolazione che si ritrova in gran parte senza lavoro e senza fonti di sostentamento.
Nel libro si respira infatti una forte ed estrema povertà e una rassegnata disperazione da parte di tutta la comunità nella quale i protagonisti vivono. Agnes è una ex donna bellissima, sfruttata dagli uomini che la usano per i loro appetiti sessuali, ormai vestita con abiti che una volta erano lussuosi, almeno quelli che non ha impegnato per raccattare qualche soldo. Inganna il contatore recuperando le monete per avere un po’ di energia in più, acquista dai cataloghi non sapendo se e quando pagherà e spesso il cibo sulla tavola manca perché il poco denaro di cui dispongono viene speso per acquistare birra. E i suoi vicini non sono da meno. Eppure la solidarietà non scatta ed Agnes, sempre curata e truccata nonostante la povertà, è odiata dai vicini di casa.
Lo stile è scarno e racconta i fatti come sono, senza indulgere a sentimentalismi o eccesso di disperazione: è un mondo povero che si arrabatta per sopravvivere, un microcosmo dal quale pare non esserci via di uscita e che viene descritto per ciò che è.
Il senso del romanzo, più volte ribadito, è che occorre fuggire per salvarsi, perché nessuno verrà a farlo se non ci pensiamo da soli. L’alternativa è essere trascinati nell’abisso. Esiste la possibilità di una scelta e di un finale diverso se tutto viene fatto per amore?
Il romanzo riesce a trascinare il lettore in un mondo di miseria, ignoranza e cattiveria, nel quale Agnes a suo modo e soprattutto, Shuggie, un bambino, si caratterizzano per la loro differenza da tutti gli altri e la forza che emanano. Un libro da leggere e che non si dimentica.
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Shuggie e Agnes
«Come aveva potuto già constatare altre volte, quelli che meno avevano da dare erano sempre quelli che davano di più»
Hugh Bain, detto Shuggie, è appena un adolescente in quel 1992 fatto di una casa improvvisata, un affitto da pagare con quel poco di guadagnato alla giornata e quella scuola da frequentare il più possibile per non dar nell’occhio con quelle assenze ingiustificate. Ma chi è Shuggie? Com’è finito in quel del South Side in quell’inizio degli anni Novanta? Torniamo indietro nel tempo. È il 1981 e siamo a Glasgow, una città un tempo fiorente e prosperosa con le sue miniere, una città che adesso sta morendo sotto i colpi del thatcherismo e dell’evoluzione del consumismo. Shuggie è un bambino diverso dagli altri. Non ama i giochi dei maschietti, preferisce le bambole e le sue movenze sono un po’ troppo diverse da quelle dei suoi coetanei. Figlio di Agnes Bain, giovane donna che dalla vita si aspettava denaro e fortuna e che invece è incappata in due matrimoni sbagliati, l’ultimo dei quali con un tassista che l’ha distrutta tra tradimenti e vessazioni, tra colpi al cuore e al fisico tanto da condannarla a una dipendenza da alcol e anche sostanze stupefacenti, è cresciuto come meglio può insieme agli altri due fratelli sino a che iniziano ad essere loro a prendersi cura di lei.
«Lei lo amava e lui aveva dovuto distruggerla completamente prima di abbandonarla. Agnes Bain era una cosa troppo rara perché potesse amarla qualcun altro. Non doveva lasciare di lei nemmeno i cocci, che un domani un altro uomo avrebbe potuto raccogliere e aggiustare.»
Passano i giorni, passano gli anni e piano piano tutti sono costretti a staccarsi da quella madre avvolta in una pelliccia di visone sporca e spelacchiata, con le mani tremolanti per il non bere e con l’attesa del giorno del sussidio per correre a comprare altro liquore. Solo Shuggie mantiene la speranza e, nel suo crescere fatto di alti e bassi, violenze e traumi, cerca di starle accanto e al tempo stesso di farsi accettare. Perché il bambino con i suoi modi eleganti, la sua parlantina forbita, il suo essere un po’ un principe in una gabbia di povertà, il suo non essere amante delle donne, è la vittima perfetta per gli scherni. Tuttavia, se diventerà una persona “normale”, se riuscirà a fingere di esserlo, forse, riuscirà a farsi accettare.
«Stava per piovere ed era lunga arrivare a piedi fino a Sighthill. Era stanco, era stanco ormai da molto tempo. Non desiderava altro che un po’ di riposo.»
Due storie di margini e confini sono quella di Shuggie, Agnes e anche di tutta la loro famiglia in una Glasgow – e in una realtà – sempre più chiusa e meno incline ad accogliere i reietti e i disperati. Se la madre è infatti ostracizzata dalle altre donne e usata dagli uomini, lui è vittima di quel machismo che non gli appartiene e di quel bullismo a cui non può e non riesce a sottrarsi. Ed è ancora, “Storia di Shuggie Bain”, una grande e infinita storia d’amore tra una madre e un figlio, un figlio che ama sua madre nonostante i suoi difetti e le sue mancanze. Due volti del dolore caratterizzati da una poetica infinita e che riportano alla luce del lettore anche la vita stessa di Stuart che perde la mamma a sedici anni proprio a causa dell’alcolismo e delle dipendenze vissute proprio in quel di Glasgow. Agnes, in questa vicenda, sa essere estrosa e curata quanto tranquilla seppur fiacca nel suo tentare di nascondere i suoi problemi mentre Shuggie spicca per la sua empatia e il suo esser capace di non cedere mai alla rabbia e alla paura. Ed è proprio l’empatia ciò che più emerge in queste pagine perché tanto nessuno dei figli giudica la madre, tanto l’autore e il lettore non lo fanno. Mai alcuno pone il suo indice verso di lei e le sue colpe e lacune quale genitore. Perché, come dice Shuggie, Agnes è sua madre ed è il suo riferimento e deve provare ad “aggiustarla” anche se è rotta.
A far da contrasto e cornice vi è Big Shug, il cattivo del romanzo intriso di violenza, rozzo e per natura vendicativo e nondimeno a sua volta vittima della comunità, della costa scozzese, della politica e del meccanismo sociale che governa quegli anni. È il sistema a giudicare la famiglia, a condannarla a uno status di povertà e denigrazione.
Un titolo, quello proposto da Stuart, che nella versione originale è intriso anche del gergo tipico di Glasgow e che rende la narrazione ancora più autentica. Un titolo vincitore meritatamente del Booker Prize 2020 che giunge al lettore con forza devastante, scuotendolo, obbligandolo a riflettere, suscitando in lui domande che cercano risposte, analisi che non mancano di suscitare altrettante analisi. Un libro ricco, profondo, duro, difficile che lascia il segno.