Sorgo rosso
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Metamorfosi
Il sorgo è il vero protagonista di questo stupendo romanzo. Sullo sfondo per tutta la narrazione, accompagna i destini dei cinesi della regione del Gaomi, nella provincia costiera dello Shandong, una delle più vicine al nemico durante la terribile guerra sino-giapponese. Una terra adatta alla coltivazione, una provincia rurale in estrema simbiosi con quel cereale che, quasi personificato, partecipa di tutti gli eventi della vita dei suoi coltivatori, in un ciclo vitale breve rispetto a quello dell’uomo, ma che si protende di chicco in chicco con una continuità infinita. È la terra dello scrittore Mo Yan, premio Nobel nel 2012, che "con il suo realismo allucinatorio forgia racconti popolari, di storia e contemporanei”. E questo è appunto un romanzo storico, ripercorre infatti la devastazione prodotta dall’invasore giapponese negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, lo sconvolgimento introdotto dall’invasore nelle piccole comunità sparse dell’estremo Oriente, l’arrivo della violenza, della distruzione e della morte. In realtà la narrazione prende l’avvio dai ricordi dell’ultimo discendente di Yu Zhan'ao, affonda dunque le radici in un tessuto pseudo civile fatto di tradizioni millenarie ma anche di soprusi latenti, ancora ben vivi negli anni Venti del XIX secolo. Un mondo atavico, perso nel mondo, alienato e alienante; un mondo già violento e complesso. Un mondo di banditi, come Yu Zhan'ao appunto, il nonno della voce narrante che tenta, anche con il suo racconto, di tornare nel territorio di appartenenza, di cercare quella simbiosi necessaria per poterlo vivere senza essere un coniglio, privo come è, egli, della necessaria forza che la sua permanenza in città ha scalfito, forse per sempre. Anche il sorgo non è più rosso, come lui, è ormai un ibrido: è cambiato e nella sua metamorfosi ha modificato il paesaggio che forse ora è pronto ad accogliere genti diverse. Rimarranno nella storia della famiglia e del Paese le imprese eroiche della popolazione resistente all’invasore, il suo coraggio, il suo sacrificio, così come le singole storie di una famiglia come tante ma che per la caratura dei suoi membri, ha il diritto di entrare nell’epos, nella leggenda quasi, consegnati a noi da un’aura mitica che sa di realismo magico. Un bellissimo romanzo, che annulla il dualismo manicheo con l’uso sapiente della parola e del costrutto narrativo capace di abbracciare un’ampia gamma di emozioni riconducendoli semplicemente ad eros e thanatos.
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Cent'anni di solitudine
SORGO ROSSO SANGUE
Dalla Cina, Premio Nobel 2012.
Potenza narrativa, personaggi indimenticabili, una storia epica familiare di tre generazioni.
“Sorgo rosso” è narrato in terza persona: la voce narrante riferisce la storia d’amore tra suo nonno Yu Zhan’ao, comandante e bandito e sua nonna, la bella Dai Fengliang, uniti contro l’invasione giapponese nel Gaomi (villaggio nella regione dello Shandong). Una famiglia particolare, dai legami alquanto liberi, dove le passioni più ardenti e le gelosie più spietate vivacizzano la vita durante le tregue della guerra Cino-Nipponica. La narrazione parte “dall’ottavo mese lunare” del 1939 e arriva al 1972, fino al comunismo in Cina, ma gli eventi non seguono l’ordine cronologico naturale, la storia procede per continui e lunghi flashback con intreccio di più piani narrativi, in cui si inseriscono anche i genitori della “nonna”, Lian’er”la seconda nonna” divenuta amante di Yu Zhan’ao, Zio Liu.
L’azione si svolge in un solo piccolissimo luogo, il Gaomi:
“Un posto che è il più bello e il più orribile del mondo, il più insolito e il più comune, il più puro e il più corrotto, il più eroico e il più vile, il paese dei più grandi bevitori e dei migliori amanti”.
Ora sullo sfondo ora in primo piano, le immense distese di sorgo, delle sfumature calde più disparate a seconda delle stagioni, il fiume Moshui, le sue acque ora limpide ora rosso del sangue degli uomini e degli animali uccisi.
Grazie alla scrittura di Mo Yan, così vivida e così profonda, mi sono immersa nelle passioni che hanno ispirato questa storia magnifica.
Il sorgo è presente quasi in ogni pagina: campi sterminati di sorgo, fusti di sorgo intessuti per ricavarne tappeti e ceste, piante di sorgo pettinate dal vento che hanno una sonorità particolare, il vino di sorgo e le distillerie, il sorgo con le più svariate sfumature di rosso, tra cui spicca il rosso sangue. Non a caso, il rosso sangue.
Bisogna avvisare i lettori che “Sorgo rosso”, così come le altre opere di Mo Yan, non è una rilassante passeggiata nel bosco, ma è un calarsi in situazioni violente e dure, con continuo spargimento di sangue, scene raccapriccianti (come la descrizione dello scuoiamento di zio Liu vivo, scena in cui l’autore ha indugiato particolarmente, rispetto alle altre).
Mo Yan significa “non parlare”, un nome d’arte di per sé provocatorio, in quanto l’autore attraverso la scrittura denuncia tutta la bruttura e la violenza della guerra, quando ci si uccide tra esseri umani e brutalmente anche tra esseri umani ed animali. Un mondo, una realtà, dove il bisogno di mangiare e sentirsi vivi hanno la loro prepotenza sia nella società degli uomini che in quella degli animali più intelligenti. Non solo maiali, capre, galline,si accetta senza troppi scrupoli e cerimonie la carne del cane, di cui si mangia tutto.
Questi “dettagli” inconcepibili per noi occidentali, contemporanei, li ho visti come importanti da segnalare. Se è vero da un lato che, nonostante la violenza e il sangue, il libro di Mo Yan è un capolavoro indimenticabile, che va letto e conosciuto, è anche vero che il lettore va avvisato. Io, ad esempio, mi ero già imbattuta nelle sue tematiche, ma in “Sorgo rosso” le scene sono più crude. Se credete che esista un dovere di conoscenza dei capolavori della letteratura mondiale, bisogna imbattersi in “Sorgo rosso”, leggerlo vale la pena di sopportare qualche passaggio che ferisce la nostra sensibilità e ci impressiona profondamente.
“Sorgo rosso” è un capolavoro indimenticabile.
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Un’epica epopea
Attraverso tre generazioni, Mo Yan ripercorre uno dei momenti più turbolenti della millenaria e affascinante storia cinese, l’opposizione all’invasione giapponese nella prima metà del secolo scorso. Ma quello che il Nobel propone non è un vero e proprio romanzo storico, piuttosto l’epica epopea di una famiglia di produttori di vino travolta dagli eventi e divenuta, volente o nolente, protagonista esemplare della resistenza ai “diavoli”. La voce narrante, ultimo rampollo della suddetta dinastia, racconta le gesta dei nonni paterni e dei suoi genitori, ora affascinando il lettore con sprazzi di delicata poesia, di suggestiva tradizione, di incantevole romanticismo, ora mettendolo in apprensione con spaventosi episodi di inaudita violenza, con momenti di grande suspense, con un realismo spesso cinico e disincantato. Un ottimo equilibrio in cui, tra l’altro, non mancano momenti di riflessione filosofica, di critica politica e di dolce e amara ironia. Il racconto non segue un vero filo logico né una precisa sequenza temporale, la narrazione salta continuamente da un episodio ad un altro, in un turbine di flashback che tuttavia non infastidisce né rende difficoltosa la lettura. Siamo nel distretto di Gaomi, nella parte più orientale della Cina, una zona quasi abbandonata a se stessa da un governo centrale lontano e indifferente. La principale fonte di sostentamento per la gente del posto è il sorgo, un cereale che necessita di poche cure ma che, crescendo forte e rigoglioso anche su terreni non particolarmente fertili, si offre a diversi utilizzi, da quello alimentare a quello etilico, finanche a quello tessile. Le sconfinate distese di sorgo sono la principale, quasi unica, scenografia di un racconto che si svolge quasi interamente all’aperto e sono rotte soltanto dall’impetuoso scorrere del “dio fiume” Moshui. Si parte dalla tormentata storia d’amore tra la bellissima Dai Fengliang, costretta a sposare un ricco e lebbroso produttore di vino di sorgo, e l’irrequieto Yu Zhan'ao, da cui nasce Yu Douguan, padre del narratore. Zhan'ao, un portantino divenuto bandito, tira fuori Fengliang dagli orrori di un matrimonio indesiderato, ne diviene amante, dipendente, compagno, la abbandona per un’altra donna ma poi torna tra le sue braccia. “La nonna e il nonno si amarono in un campo di sorgo rigoglioso di vita; i loro spiriti liberi, incuranti delle convenzioni umane, aderirono l’uno all’altro ancor più strettamente dei loro corpi beati. Ararono le nuvole e seminarono la pioggia in quel campo di sorgo, arricchendo l’interessante storia della zona a nord est di Gaomi di un attimo di felicità. Mio padre fu concepito con l’essenza del cielo e della terra, fu il frutto di sofferenza e gioia intense.” Una bellissima parentesi romantica in un contesto crudele e spietato in cui la violenza la fa da padrona, tra migliaia di morti, punizioni corporali, torture e stupri. Zhan'ao diventa il temuto e carismatico Comandante Yu e, affiancato da Douguan, guida un folto gruppo di ribelli contro gli invasori giapponesi e i loro lacchè collaborazionisti, in quella che, oltre ad una guerra di resistenza, diventa anche una sorta di guerra civile in cui si formano diverse fazioni e il popolo cinese, incapace di far fronte comune contro il nemico, si ritrova diviso tra rossi, nazionalisti e banditi, gruppi tristemente in competizione e, spesso, in vera e propria battaglia tra loro. Non ci sono buoni, non lo sono neanche i cani, comunemente conosciuti come i migliori amici dell’uomo. L’odore del sangue che stalla nell’aria, i milioni di cadaveri disseminati nei campi e tra le rovine dei villaggi, risvegliano in questi animali istinti primordiali tutt’altro che amichevoli, portandoli in qualche modo ad entrare in guerra con l’uomo. Gli unici buoni sono il sorgo rosso e il fiume Moshui. Il sorgo che nutre, che dà l’ebrezza, che nasconde i vivi e dà sepoltura ai morti, rosso come il sangue che scorre, come la passione che brucia, come il fuoco che divampa in ogni dove, rosso come le labbra sensuali della bella Lian'er e come la volpe dalla lingua miracolosa. Ed il fiume, che disseta e dà fertilita, che scorre tra i fusti di sorgo raccogliendo cadaveri e lavando la terra del sangue versato, ma incapace purtroppo di lavare la coscienza degli uomini. “Gocce d’acqua argentee cadevano oblique sui fusti tremanti. Nei campi, sottili germogli di sorgo giallo chiaro, fioriti fuori stagione, si mescolavano ai vecchi fusti caduti, alla pioggia e alla nebbia. L’odore dei germogli verdi si mescolava all’odore di marcio dei fusti spezzati, al lezzo dei cadaveri, al fetore dell’urina e degli escrementi dei cani. Mio padre e gli altri avevano di fronte un mondo terribile, sporco, in cui prosperava una vitalità malvagia.”
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LA CINA DI MO YAN
In un Paese attraversato da interminabili piantagioni di sorgo, nei campi alti e duri in cui brulicano anime di varie fattezze, estrazioni e provenienza - contadini, soldati, monaci, lebbrosi, amanti e portatori - si consumano le avventure del bandito Yu Zhan’ao e la distruzione, da parte dei giapponesi, di Gaomi, il villaggio sulle rive del fiume Moshui in cui vive la famiglia, la sua famiglia. Un villaggio isolato, una Macondo cinese in cui gli abitanti si identificano in quello che hanno, il loro bandito, e mai né con i comunisti né coi nazionalisti. Zhan’ao non è solo un bandito, un tagliagole, uno con le mani imbrattate di sangue: è anche un portatore, di quelli che portano a spalla le spose al cospetto del futuro marito. Ma il marito della bella Fenglian è un lebbroso, non la merita ed il cuore del bandito palpita per vendicarla, riscattarla da un destino triste uccidendo il marito e prendendola con sé, come compagna, fino a che le pallottole giapponesi non la lasceranno riversa, con gli occhi al cielo, nell’immensità vermiglia del sorgo. Da qui la sua storia prenderà pieghe sempre diverse in una Cina sempre in tumulto, fino ad arrivare sotto l’ombra tormentosa di Mao…
Mo Yan, in un romanzo epico e retrospettivo sviluppato in cinque libri come fossero cinque storie differenti, ripercorre romanzandola con una narrativa marqueziana, complessa e magica, la storia della propria famiglia - della nonna, del nonno e di suo padre - nella Cina al tempo del conflitto sino-giapponese fino alla rivoluzione culturale. I suoi avi si trasformano in personaggi mitici punteggiati da metafore fulminanti, da biografie fantastiche, da un’esistenza piena, ricca ed intensa. La modalità di scrittura pesca a piene mani da un registro simbolico tipicamente orientale, ma dando ai personaggi una vitalità anticonformista che rompe schemi e preconcetti. Ogni particolare è cesellato con cura, ogni dettaglio incastonato al punto giusto. Ci vuole poca fantasia per non rimanere succubi affascinati dal mondo che dipinge riga dopo riga; ci vuole una grande dose di indifferenza per non rimanere irretiti nelle vicende narrate così piene di scoppi, cariche di umanità, grondanti di una vita pulsante e accesa. Ci troviamo davanti ad una narrazione a zig zag nella quale i personaggi muoiono e resuscitano e dei quali sembra ci sia sempre un altro aneddoto da raccontare, un’altra storia da non ignorare, un altro tassello da aggiungere come in un mosaico in cui il particolare è esso stesso universale sullo sfondo rosso imperante delle piantagioni di sorgo.
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La "buona letteratura" di Mo Yan
Guan Moye è un ragazzo loquace, che ama ascoltare i cantastorie dei mercati locali e che, a sua volta, sa raccontare, arricchendole, le storie narrate da altri.
Un giorno la madre, avvinta dall'ancestrale preoccupazione che tutte le madri nutrono per i figli avvezzi più alle parole che alle cose pratiche, gli chiede: "Come sarai quando sarai grande, figlio? Non è che finirai a chiacchierare per vivere?"
Non a caso, anni più tardi quel ragazzino, ormai divenuto grande, firmerà i suoi libri con lo pseudonimo letterario di Mo Yan, "colui che non desidera parlare". Se il destino di un uomo, quindi, è quello di raccontare delle storie, le sue storie comunque e in qualunque tempo le racconterà. E le racconterà anche in tempo di censura, sfruttandola addirittura affinché abbia - come ebbe occasione di dire, per molti discutibilmente, lo stesso Mo Yan - un "effetto benefico sulla creatività letteraria".
La letteratura cammina su delle gambe giganti, ecco tutto.
In "Sorgo rosso", Mo Yan "il cantastorie" ci incanta con la sua Cina meravigliosa e disperata, stremata dal secondo conflitto cino-giapponese. Ci seduce e ci stupisce con i suoi grandi eroi uomini e donne, i suoi banditi dal sangue caldo, i suoi patrioti, i suoi "bastardi", i suoi diavoli e le sue canaglie; tutti turbolenti, capaci di odio e amore, incredibilmente belli o desolatamente sgraziati, imponenti, bassi, dai denti candidi o gialli, dai visi butterati o lisci come cera; tutti egualmente ansimanti per la gloria; tutti ostinati combattenti "per vendetta, per vendicarsi della vendetta" e per una miriade di altre storie.
Attraverso la sua prosa, a volte dura, spezzata e stridente come sanno essere "i fusti di sorgo toccati dalle punte dei picconi", Mo Yan, senza perdere una sola stilla di realismo, anima e umanizza cani, donnole, volpi, muli, gatti e vegetazione.
Il sorgo, "vasto e uniforme, saggio e dall'aspetto ottuso", è verde, rosso, giallo, splendente, fitto e impietoso, fornisce ricetto ai vivi e ai morti, guarda con occhi che fissano beffardi.
I cani sono sfacciati, impazienti di combattere, ansiosi, cercano anche loro una rivincita sugli uomini, riordinano razionalmente i loro impulsi, "guardano di sottecchi il proprio capo", si guardano "l'un l'altro in tralice con un sorriso furbo sul lungo muso".
Non mancano poi, come nella migliore tradizione orientale, la prossimità fisica e spirituale tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, possessioni, demoni, superstizioni, monaci e guaritori.
Nell'architettura della storia, nel realismo potente, magico, e nel linguaggio evocativo di Mo Yan sembra di ascoltare, seppur da lontano, le voci di William Faulkner e Gabriel Garcìa Màrquez, due grandissimi della letteratura amati dallo scrittore cinese per il "modo coraggioso e sfrenato in cui creavano nuovi territori nella scrittura" (come lo stesso Mo Yan affermò nella sua lectio magistralis all'Accademia di Svezia).
In ogni caso, nel raccontare le sue storie Mo Yan ha camminato da solo, narrando le vicende del suo popolo coi tempi e coi modi di un sublime cantastorie di mercato.
Sorgo Rosso è un libro imponente, maestoso, un libro di quelli che poche volte nella vita vi capiterà di leggere e al quale farete immancabilmente rimando, usandolo come misura di giudizio, in tutte le storie chiaramente o solo vagamente epiche che incontrerete nel cammino affascinante che ogni lettore percorre felicemente e ostinatamente giorno dopo giorno.
Perfetta simbiosi tra ciò che è tangibile e ciò che solo si può immaginare, "Sorgo rosso" è un caso paradigmatico di "buona letteratura", quella letteratura che, spiega lo stesso Mo Yan, "dovrebbe permettere al lettore di ritrovare se stesso nelle pagine che scorre, dovrebbe suscitare emozioni condivise. La buona letteratura consente allo scrittore di raccontare il proprio mondo emozionale e di esperienze. Allo stesso tempo, rappresentando le storie e l’universo interiore delle persone comuni, è in grado di fondere universalità e particolarità. Può darsi che lo scrittore non se ne renda conto quando prende la penna in mano, ma è qualcosa che accade comunque. Da sé".
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i diavoli i diavoli arrivano i diavoli...
"a nord del fiume Moshui cresce ancora un fusto di sorgo rosso puro, devi cercarlo a ogni costo. Tienilo alto quando correrai verso il tuo mondo invaso dai rovi e percorso da tigri e lupi, perché sarà il tuo talismano e anche il totem glorioso del nostro clan, il simbolo della tradizione di Gaomi".
Il fiume Moshui con i suoi campi di sorgo rosso fanno da sfondo alle eroiche gesta del bandito Yu Zhanaao e della sua famiglia tramandate per via orale, attraverso i ricordi del padre e dei pochi sopravvissuti all'invasione giapponese in Cina. Il nipote si fa carico di narrare la saga familiare, dagli anni 30 ai 70, riuscendo a delineare la figura del proprio antenato dal "carattere risoluto come il sorgo" e di altri personaggi che in qualche modo sono legati a lui.
Nei villaggi rurali della zona di Gaomi non c'è fretta, le giornate scorrono lentamente. La popolazione è dedita alla coltivazione del sorgo, un cereale dalle molteplici funzioni perchè è nutrimento per le famiglie, foraggio per gli animali, riparo dai fuochi nemici, alcova d'amore ma è anche culla per il sonno eterno.
La quiete che fino ad allora permeava nelle loro vite ben presto lascerà il posto al terrore "come un fiume che rompe gli argini".
Ma la guerra porta solo morte, facendo emergere la malvagità dell'uomo che spogliatosi delle sue "belle vesti ricamate" dà sfoggio a tutta la sua bestialità, e Mo Yan ce lo ribadisce in quasi tutte le pagine del libro. Senza alcun filtro, ci vengono scagliate immagini cruenti, costringendo il lettore ad assistere inerme allo scuoiamento di un uomo vivo, alla violenza fisica perpetrata ripetutamente ai danni delle donne, all'uccisione di bambini, (per poter riprendere fiato ho bisogno di sospendere la lettura).
"Che senso ha combattere?" la guerra se alimentata da vecchi rancori causa dissidi incolmabili e questo lo sa anche il fronte di resistenza all'invasione giapponese "abitavamo tutti in villaggi vicini, ci incontravamo spesso, eravamo parenti o amici, perché si è arrivati a questo punto?".
Anche i cani considerati per antonomasia amici dell'uomo, contagiati dalla follia della guerra si ribelleranno ai loro padroni responsabili nell'averli schiavizzati per secoli e attirati dall'odore rancido del sangue dei cadaveri, intraprenderanno una battaglia con i vivi, riducendo a brandelli molti cadaveri...
Lo scrittore articola la narrazione con una sequela di flashback tra realtà e immaginazione, alternando episodi claustrofobici a episodi di vita quotidiana della Cina di quel tempo con le sue tradizioni, le sue superstizioni...
E il sorgo rosso è sempre lì a ricordare con prepotenza l'importanza delle radici nella contemporaneità degli eventi, "il passato sempre immortale e il presente sempre inarrestabile".
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C'era una volta la Cina
C'era una volta la Cina di Mo Yan, rappresentata in una fusione di realtà e magia, collocata tra mito, leggenda e tanta parte di storia del paese.
C'erano una volta sterminati campi di sorgo rosso; il sorgo, un cereale che diviene personificazione della culla, del sostentamento, della tomba di un'intera popolazione, spettatore muto ma partecipe dell'evoluzione socio-politica cinese.
La Cina raccontata dalla penna di Mo Yan è un crocevia di banditi, soldati, invasori, vittime ed eroi; una galleria portentosa di personaggi che lottano, sognano, soccombono ogni giorno.
Uomini e donne dipinti con i colori vividi del dolore, della morte e della passione; la forza degli eventi e la potenza della narrazione non prevedono tinte sbiadite e linee poco definite, ma tutto assume la definizione del rosso del sangue, del nero della terra, della luce dei tramonti sui campi sterminati di sorgo.
La forza narrativa delle immagini e delle emozioni è indiscutibile, trascinando il lettore a calpestare il suolo martoriato dalla guerra cino-giapponese del secolo scorso e dalle innumerevoli lotte interne, avvicinandolo ad una sorta di comunione coi personaggi. Sebbene la narrazione sia scandita da continui flashback, da tuffi nel passato e nel presente, tuttavia il filo conduttore sotteso all'opera non viene mai meno, anzi aumenta di intensità con lo scorrere degli eventi.
E' un romanzo pregevole, la cui lettura richiede impegno, ricompensando con pagine intrise di umanità, di valori, di sogni, di ricordi.
A tratti incalzante a tratti ridondante, eppure nessuna parola risulta superflua.
Si percepisce il cuore dell'autore ed il desiderio di dare un volto al passato della propria terra, rievocando immagini della tradizione popolare e di un mondo epico, dove eroi e sognatori si scontrano con le dure leggi del mondo reale, quello della guerra, della fame, della morte, senza dimenticare l'amore passionale e quello per i figli.
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Indimenticabile
Quando ci si trova a leggere un romanzo come questo l’unica cosa che si può fare è rimanere a bocca aperta . Obbiettivamente devo dire che tutti i paragoni fatti con “Cent’anni di solitudine” sono del tutto coerenti. Descrizioni splendide, personaggi indimenticabili, situazioni eleganti e grottesche si susseguono in un vortice di emozioni e sensazioni di rara bellezza e intensità. Il tutto si svolge in un posto indimenticabile avvolto dal rosso sangue del Sorgo maturo, in un luogo che scivola tra il reale e il magico. Mo Yan è un Maestro con le sue parole, e la sua capacità narrativa, ti travolge di emozioni. In poche righe si resta rapiti dalla sua capacità di fondere la crudeltà di uno stupro con la bellezza divina di un aguzzino, oppure, lo splendido paesaggio fatto di un cielo turchese profondo e di una madre terra sanguinate sorgo che fa da sfondo all’atroce scuoiamento, da vivo, dello zio Liu. Questo libro è stato come viverlo, come esserci dentro; ogni passaggio, ogni rigo, è un turbinio fatti affascinanti.
Anche qui ci troveremo davanti a personaggi controversi, che racchiudono in loro il meglio e il peggio dell’essere umano. Il comandante Yu (il nonno) Eroico bandito, che prendo a esempio su tutti in quanto principale protagonista è capace di sgozzare un monaco, ma anche di sacrificarsi per il bene del prossimo tormentandosi della crudeltà dei demoni invasori. Racchiude in se il dualismo dell’uomo e le controverse emozioni.
Ogni libro di cui e composto il romanzo tratta argomenti diversi della stessa vicenda. Questa scelta ci permette di affrontare la totalità della storia in modo avvolgente, lasciandoci il tempo di respirare, per metabolizzare al meglio tutta la storia. La scelta stilistica di continue digressioni non ci spiazza, anzi, ci coinvolge e in parte ci incuriosisce spingendoci alla lettura.
Personalmente mi sono preso un lungo periodo per affrontare questo affascinante viaggio, dove non si capisce mai veramente dove finzione, leggenda e realtà si separino, anzi questi tre elementi si fondono e si scindono sostituendosi l’uno all’altro . Negli occhi mi sono rimasti il sorgo rosso sangue, i tramonti con il sole striato sullo sfondo e la terra nera. Ma anche le sue credenze mistiche al limite del esoterico ed il sorgo, che si dimostra vita e morte di un periodo controverso e affascinante di un popolo e di una generazione che ancora vive a metà tra feudalesimo e rivoluzione .
In conclusione Guan Moye alias Mo Yan è entrato,in virtù di grazia ,eleganza, semplicità e profondità, di prepotenza nel olimpo dei miei autori preferiti ; e sono concorde con l’appendice del libro in cui si sostiene che Mo Yan racchiuda, in “Sorgo rosso”, tutta la bellezza della letteratura cinese degli ultimi duemila anni.
Un plauso va fatto anche alla traduzione, che è stata fatta con sapienza, mantenendo inalterata, a mio parere, quella diversità affascinante delle figure retoriche orientali, che tanto contraddistinguono la letteratura cinese.
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Sorgo Rosso
Se quella cinese è una realtà oscura e sconosciuta Sorgo rosso è il libro adatto a colmare questa lacuna, infatti, non vi è narrata solo una storia, vi è narrata una mentalità, una cultura. Il racconto non potrebbe essere svolto da nessun altra parte, in nessun altro paese.
Mo Yan ci scaraventa con violenza in un mondo a noi lontano per usi e costumi e lo fa apparire vicino e comprensibile, attraverso uno stile asciutto, ma lacerante che non concede sconti a nessuno; ci sono momenti in cui l'abile penna di Mo Yan scava così in profondità da creare nel lettore una stretta al cuore così forte da togliere il respiro, così forte da costringere a prendere una pausa e ritornare nel proprio mondo. I personaggi sono caratterizzati così bene, con pochi tratti, da aver l'impressione di averli sempre conosciuti attraverso i racconti degli anziani; diventano, pagina dopo pagina parte integrante del bagaglio culturale, esempio e guida morale; la loro personalità è forte e ricca di sfaccettature, Mo Yan non ne nasconde nessuna, né le più eroiche, né le più meschine, spesso presenti nella stessa persona; proprio per questo appaiono quanto mai reali e vivi.
L'originale io narrante è il nipote che racconta le vicende dei nonni e del padre in un tempo che è sospeso, un continuo ondeggiare tra passato, presente e futuro; molte morti sono raccontate subito, per poi scoprire l'antefatto molto dopo, creando una spinta propulsiva che non ha eguali.
Osservatore silenzioso e discreto il Sorgo cresce tutto intorno e si fa di volta in volta utero, tomba, cibo, vino, arma diviene simbolo della vita e della morte, dell'amore e dell'odio, nasconde e svela, ma è sempre presente a ricordare a tutti la vacuità della vita e di quanto essa possa essere importante; sembra di udire il lento sbattere dei fusti al vento, generando un suono che dona tranquillità e quiete anche quando fuori c'è la guerra e la distruzione, fino a quando il Sorgo rosso popolerà la distesa di terra scura la vita esiterà, fino a quando riuscirà a germogliare anche una sola pianta ci sarà speranza per gli uomini. Ciò che più colpisce, in un insieme di parole che per sua stessa natura sono spine che si conficcano nella carne, è la capacità di trasmettere nello stesso istante dolore e speranza; si riesce a provare pietà e odio, insieme e non si riesce a capire come sia possibile; la natura è quasi venerata, attraverso al descrizione degli animali, cani, volpi, muli, che sono così ben descritti nei loro comportamenti che sembra impossibile possano essere cosa diversa dall'uomo. Una marea montante di emozioni sopraffà il lettore, come succede in “Cent'anni di solitudine” niente è inutile, non un nome, non una parola, tutto è fonte di una ispirazione superiore, di un disegno ben presente nella mente di chi scrive, sono gli odori che si fanno colori, i suoni che fanno immagini in un caos di sensi che lascia senza fiato e privi della capacità di giudizio, schiacciati da quel destino che si abbatte sul villaggio per giocare un gioco troppo complicato per essere compreso, troppo perfetto per essere criticato; ecco che la guerra, la distruzione, le armi assumono quel significato profondo che da polito-sociale si fa catarsi della singola persona; nel sangue delle vittime attraverso di esso la purificazione è possibile, ma non completa, solo la morte, forse porterà la vera pace, nel Cielo che tutti accoglie, sarà possibile la vita eterna.
E' difficile riuscire a trasmettere quello che si prova, è come se avvolti dal sorgo, accucciati alla sua ombra, nascosti, tra l'odore di putrefazione e di nuove piante, tra ossa di uomo e cane, osservassimo tutta la vicenda, come se dalle pagine immagini oleografiche si manifestassero lasciandoci quel senso di impotenza di fronte al fallimento di ogni nostro tentativo di essere lì, a combattere contro i diavoli gialli, a parteggiare per i cani che vogliono cibarsi di cadaveri, a comprendere la paura e lo sfinimento di coloro che per i morsi della fame non riescono più a distinguere il reale dal falso.
Non è solo questo, però, Sorgo Rosso, è un'opera che scava un solco in chi la legge, un solco profondo che farà vedere la Cina con occhi diversi, con una prospettiva che cambia del tutto il punto di vista. Mo Yan è riuscito in questo compito, far conoscere il suo popolo, far comprendere la sua cultura, un Nobel più che meritato per un romanzo che non dovrebbe mancare nella biblioteca di nessuno.
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Complesso ma veramente bello
La Cina, una massa brulicante di individui per noi quasi indistinguibili.
Fino a noi arrivava poco della letteratura contemporanea cinese: era come se non ci fossero storie degne di essere raccontate perché nell'appiattimento voluto dal regime ogni vita assomigliava a tutte le altre vite.
Questo libro strapremiato (a ragione) introduce invece una serie di personaggi indimenticabili, vissuti a cavallo del periodo dell’invasione giapponese, indimenticabili ma comuni: calzolai, contadini, banditi, operai. Si muovono e agiscono all’interno di usi e costumi, credenze e abitudini che per noi sono quasi incomprensibili: passioni estreme, odi brucianti e fatali, violenza senza controllo. Ma nel leggere non ci si perde, si riesce ad immedesimarsi e gioire e soffrire con i personaggi nonostante l’enorme differenza di cultura e filosofia di vita.
La storia si svolge nell’arco di tre generazioni: la voce narrante è quella del più giovane, che racconta la storia del nonno, il famoso bandito Yu, della bellissima nonna Fenglian e del loro figlio, suo padre.
Lo svolgimento non è legato alla linearità del tempo e degli eventi che si susseguono: con estrema leggerezza e immensa bravura l’autore sa passare dalle azioni del presente ai ricordi del passato senza perdere nitidezza nelle immagini e senza confondere il lettore, che segue senza inciampi l'azione e i ricordi che si susseguono paragrafo dopo paragrafo, costruendo un presente motivato dal passato, così come in effetti è la vita.
Le parole si susseguono sulla carta così come fluttuano, si compongono, si annodano e si snodano i pensieri nella nostra mente.
Così l’invasione dei giapponesi con le loro stupefacenti macchine di morte, la lotta fra comunisti e nazionalisti che non riescono a trovare accordo fra loro neppure di fronte al nemico comune e la storia intima dei personaggi, talvolta romantica e delicata talaltra violenta fino alla brutalità, si avvicendano nei ricordi e nei racconti, creando un insieme inestricabile e affascinante.
In un crescendo parossistico di violenza, per il predominio sul territorio, gli uomini combattono con gli uomini, i cani con i cani e si assiste perfino a una stupefacente guerra dei cani contro gli uomini. Laddove i cani imparano dagli uomini le sottigliezze della tattica e della strategia, mettendo in forse la vita del villaggio. Un pezzo di bravura straordinario.
E il sorgo rosso? Beh, il sorgo rosso è tutto intorno, richiamato dall’autore quasi in ogni pagina perché fonte di sostentamento, di ricchezza, rifugio e nascondiglio, talamo nuziale, luogo di riposo eterno, arma di difesa, spettatore muto di vicende romantiche e tragiche.
Il sorgo rosso, rosso come il sangue versato che esso assorbe senza discriminare se cinese o giapponese, comunista o nazionalista.
Nella prefazione leggevo che questo bellissimo libro viene paragonato a “Cento anni di solitudine” di Marquez. Io non trovo affinità né nel linguaggio, né nel modo di affrontare e giudicare gli eventi e di vivere i sentimenti. Due grandi opere, ma totalmente diverse.
Non dico che sia una lettura facile, ma è senz’altro un libro che rimane vivo nel ricordo; lo consiglio a chi ha il tempo e la voglia di affrontare una lettura da assaporare a piccoli morsi.
Ah, dimenticavo: Nobel per la letteratura 2012.
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A volte il mondo sputa fuori l’odore del sangue umano.
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In un certo senso, l’eroismo è qualcosa di innato, è un fluido latente che venendo a contatto con fattori esterni si trasforma in atti eroici.
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Un uomo trasportò un secchio d’acqua e lo gettò sulle fiamme. Quel getto d’acqua sembrò un lucente rotolo di seta bianca, che bruciava arricciandosi. Gli uomini continuavano a versare acqua sul fuoco, i getti d’acqua apparivano ora simili ad archi, ora a linee che si intersecavano in un’immagine di estrema bellezza.
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A mio padre sembrava che la povere rossa del sorgo e l’odore del suo vino avessero colmato lo spazio tra cielo e terra. Si sdraiò sull’argine, in quell’attimo il cuore gli saltò in gola. In seguito capì che ogni attesa giunge prima o poi a termine e che i risultati sono spesso normali, casuali, naturali.
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