Ritratto di un matrimonio
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Luci e ombre
La prima cosa che colpisce chi inizia la lettura del romanzo di Robin Black “Ritratto di un matrimonio” è la copertina. Una scelta veramente felice e appropriata. Si tratta di un’opera della coppia di artisti Clark & Pougnaud, che fa parte della serie dal titolo “Lost in meditation”, in cui risalta il sapiente gioco di luci e ombre, di chiaro e di scuro che avvolgono l’unico personaggio, una donna seduta di fronte a una finestra, assorta a meditare. Ed è il bianco della blusa insieme col tenue colore della pelle del braccio sollevato fino all’altezza del capo, che dà centralità al soggetto.
Luci e ombre, dunque, che si alternano come accade in un matrimonio.
Non è un caso che i protagonisti del romanzo siano due artisti: lei, Gus, pittrice, lui, Owen, scrittore. I quadri di Gus sono disabitati, eppure in lei esiste un intimo desiderio di ritrarre personaggi. Ciò che dipinge ricorda molto da vicino il mondo di Hopper, è la stessa rappresentazione della solitudine dell’uomo nel mondo contemporaneo. La solitudine, considerata nei suoi molteplici aspetti, è uno dei temi centrali del romanzo: la solitudine che si cerca come alternativa al clamore della città, quando si è nel pieno vigore della giovinezza, la solitudine dell’abbandono e del tradimento che coincide con il deserto che si è fatto strada nell’anima, la solitudine della vecchiaia che cancella ogni traccia di presente, lasciando spazio solo a sprazzi di passato.
Le relazioni di coppia sono descritte dalla Black con grande sensibilità. La fedeltà e la lealtà, condizioni indispensabili per creare una solida base su cui stipulare un contratto di matrimonio, sono al centro della crisi che travolge Gus e Owen. Confessare o tacere il tradimento, alleviare la propria coscienza, riversando sull’altro il proprio rimorso o al contrario assumersi le responsabilità della propria colpa, tenendo per sé ciò che sarebbe inevitabilmente causa di profondo dolore, è uno dei quesiti che questo romanzo pone al lettore. La personalità di Gus, angustiata dai rimorsi è come divisa esattamente in due: le esperienze della vita incidono a tal punto da sovrapporre in lei i tanti “io” ai quali esse hanno dato origine. Ella è a un tempo ciò che fu e ciò che è. Questa oggettiva difficoltà in cui si trova le impedisce di ritrarre figure umane nelle sue opere. Non riesce a dare un’anima ai giovani caduti sul campo nella guerra del ’15 – ’18. Il suo passato è disseminato di assenze. La perdita della madre prima, della sorella poi, la demenza del padre hanno fissato in lei immagini statiche.
Né è solo sull’amore e sulle sue implicazioni che si dilunga la Black, ma anche sui vari aspetti dell’amicizia, sulla sua eventuale ambiguità, sul rischio d’un condizionamento e di una perdita sia pure parziale di autonomia e riservatezza che comporta una scelta di completa disponibilità. È comunque sempre il dolore che Robin Black riesce a interpretare con grande sensibilità, del dolore descrive le tracce indelebili che esso lascia nell’animo umano, come modifichi le prospettive, vanifichi le illusioni, conducendo a una inevitabile faticosa crescita.