Ritorno a Haifa
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Diritto al ritorno
Pubblicato in lingua araba nell'ormai lontano 1969, due decenni dopo l’inizio della Nakba, “Ritorno a Haifa” è un racconto di profondo dolore. Una storia amarissima che Ghassan Kanafani (1936-1972) ha narrato con grande maestria, trascinando il lettore in un dramma familiare che va oltre la cosiddetta fiction: una coppia di Haifa, ancora nella Palestina del mandato britannico, con l'avanzare dell'offensiva ebraica è costretta, travolta dalla folla, ad abbandonare improvvisamente casa e città, e non solo; nella culla è rimasto un bambino di cinque mesi che i genitori non riescono a portare via con loro. A distanza di vent’anni, Said e Safiya, i protagonisti, hanno la possibilità di recarsi a rivedere quello che un tempo era stato il loro appartamento e lo trovano abitato da ebrei polacchi scampati allo sterminio nazista, i quali hanno occupato gli spazi e la quotidianità dei precedenti proprietari arabi; il bimbo, da loro cresciuto, è diventato nel frattempo un giovane con indosso la divisa militare che ora, per ironia della sorte, sta dall'altra parte della barricata.
“[...] il delitto più grave che possa commettere un uomo, chiunque sia, è quello di credere anche per un solo istante che la debolezza e gli errori degli altri gli diano il diritto di esistere a spese loro e di giustificare i propri errori e i propri delitti [...]”.
Quella di Kanafani è una scrittura disincantata e coinvolgente, ricca di pathos e preziosi flashback. Essa concede spazio (e forse comprensione) anche all'altro, l'occupante, il nemico, qui rappresentato “con tratti umani e civili”, come sottolinea Francesco Gabrieli nella sua nota di presentazione del libro, mentre Isabella Camera d'Afflitto, altra nostra grande arabista e traduttrice di questo racconto, firma una interessante introduzione in cui viene ricostruita la vicenda personale e letteraria dell’autore che all'inizio degli anni Settanta finì i suoi giorni a Beirut, una delle varie tappe della propria personale diaspora, assassinato dagli israeliani a causa dell'attività politica svolta in seno al Fronte popolare per la liberazione della Palestina di George Habash.
Tra i più grandi scrittori arabi del secolo scorso, Kanafani fu autore di racconti e romanzi brevi; fu il primo a parlare di adab al-muqawamah, cioè “letteratura della resistenza”, nel cui ambito “Ritorno a Haifa” si inserisce a pieno titolo. Egli portò avanti con coraggio, in questo e in altri testi, la causa del suo popolo nonostante l'esilio, reclamando tra le righe un diritto al ritorno per i profughi che non ha mai trovato riconoscimento da parte del governo di Israele nel più totale appeasement internazionale. Se la sua vita non fosse stata stroncata a soli trentasei anni, avrebbe certo continuato a puntare il dito contro l'occupazione militare israeliana della Palestina; a quasi cinquant'anni dalla morte dello scrittore, la sua terra, santa e dannata nel contempo, sembra essere ancora ben lontana dal conoscere pace e giustizia.
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Un velo di nebbia e di lacrime
Haifa, 21 aprile 1948. I colpi dei mortai giunsero inaspettati squarciando l'indefinibile tensione che regnava nell'aria, caos e terrore si impadronirono improvvisamente della città. I giovani sposi palestinesi Said e Safiya, paralizzati dalla sorpresa e dalla paura, vennero travolti dall'impetuosa corrente umana che si riversava verso il mare e non si resero conto di ciò che era successo finché gli spruzzi d'acqua sollevati dai remi della barca su cui erano stati caricati a forza non li ridestarono. Ma ormai era troppo tardi, la loro casa stava per diventare proprietà dell'Agenzia Ebraica, il loro bimbo di appena cinque mesi Khaldun era rimasto lì, nella sua culla, a piangere disperato. Haifa, conquistata dalle forze sioniste, scompariva dietro un velo di nebbia e di lacrime. Quasi vent'anni di esilio, poi la mattina del 30 giugno 1967 la coppia riesce a tornare per una fugace visita alla vecchia abitazione e, chissà, anche per ritrovare il figlioletto perduto. I nostri protagonisti bussano a quello che era il loro uscio e vengono accolti da una sconosciuta, Miriam, una ebrea polacca sfuggita alle persecuzioni naziste. Oltre alla loro casa la donna ha preso anche quel bimbo che piangeva nella culla, ma ormai non è più il piccolo arabo Khaldun, ora è il soldato israeliano Dov, per lui Said e Safiya sono solo due estranei, due che stanno dall'altra parte, gli arabi suoi consanguinei sono dei nemici da combattere in una guerra senza fine. Per tutto il racconto le lacrime scendono copiose dagli occhi di Safiya, che ha consumato la sua gioventù in attesa di questo momento, senza sapere che sarebbe stato un momento terribile. Sorrisi imbarazzati si affacciano sul volto di Miriam, che esprime comprensione e solidarietà per i suoi ospiti e al contempo professa tutta la sua innocenza. Parole dure e pesanti come macigni escono dalla bocca del ragazzo, i rimproveri e il risentimento verso i genitori carnali tacciati di vigliaccheria, arretratezza e paralisi suonano come un monito a tutti i palestinesi che forse non hanno lottato abbastanza per difendere la propria patria. L'apparente calma di Said è una buccia sottile che nasconde fiamme invisibili, il suo animo è acceso di rabbia impotente, la sua mente non riesce a spiegarsi come si possa approfittare così cinicamente delle debolezze e degli errori degli altri, come si possa pensare di porre rimedio all'ingiustizia con una nuova ingiustizia. Con inevitabile coinvolgimento emotivo e una prosa tagliente nei dialoghi e dolcissima nelle parti descrittive, Kanafani racconta la struggente storia di Said e Safiya che è la storia di un intero popolo, il suo popolo, chiamato a pagare colpe non sue, cacciato malamente dalla sua terra, costretto ad abbandonare le sue proprietà e brutalmente massacrato quando ha tentato di opporre la minima resistenza. È la storia di un'incancellabile umiliazione e di un'irreversibile perdita d'identità. È la storia di una serie di domande che esigono risposte che troppa gente non riesce o non vuole dare: può l'orrore della Shoah, per quanto enorme sia stato, giustificare la violenza, gli abusi e i soprusi che da decenni continuano a perpetrarsi nei confronti dei palestinesi? È giusto risarcire un popolo dei torti subiti a scapito di chi, di quei torti, non ha nessuna responsabilità? Può la comunità internazionale continuare a chiudere gli occhi mascherando la sua ingiustificabile inerzia dietro un'ipocrita maschera di avara carità?