Riparare i viventi
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Il dono più difficile, Riparare i viventi
Cosa scatta nella mente di due genitori o di un marito, una moglie, quando si trovano a dover decidere se autorizzare la donazione di organi del proprio congiunto in stato di morte cerebrale? Certamente il primo impulso è quello di rifiutare, per non violare la sacralità di quel corpo così caro. Poi, come nel libro di Kerangal, subentra la razionalità, la consapevolezza che il corpo è un guscio ormai vuoto e a nulla servirà preservarlo nella sua interezza, destinato com’è a sgretolarsi comunque per riconsegnarsi alla terra. E allora perché non donare quegli organi, ormai inutili per chi ci ha lasciato, ridando nuova speranza o addirittura l’unica chance di sopravvivere a qualcun altro?
Soprattutto questo percorso mentale è raccontato in “Riparare i viventi”, con lo stile appunto del flusso di coscienza, dove la punteggiatura non rispetta i canoni convenzionali specialmente nella prima parte del libro.
Marianne e il marito, genitori separati di Simon, si ritrovano uniti nel più grande e innaturale dolore che un genitore possa affrontare, quello di veder morire il proprio figlio.
Ho apprezzato molto la descrizione della ragnatela di contatti e di competenze professionali che si attivano in occasione di un possibile trapianto: il delicatissimo ruolo del medico che deve comunicare la morte dell’eventuale donatore e ottenere il consenso all’espianto, la professionalità di chi deve cercare i candidati al trapianto attraverso una rete digitale e umana che viene preparata attraverso mesi di esami del DNA e di catalogazioni genetiche; le varie eccellenze chirurgiche che si “contendono” le migliori condizioni possibili per i loro pazienti durante i momenti concitati del prelievo degli organi; la funzione dell’infermiere specializzato che cucirà i vari passaggi dell’operazione di espianto, fino alla ricomposizione del defunto per ridargli la dignità che merita, moderna prèfica che canta per il morto; infine la donatrice, in questo caso la cinquantenne Claire, che aspetta con un misto di desiderio e di paura il momento in cui riprenderà in mano la sua vita.
Un libro commovente che non si dimentica, che potrebbe avere qualche difficoltà di lettura a causa dello stile alla Joyce della prima parte e che, secondo me, si poteva evitare senza nulla togliere all’incisività del racconto.
Questo racconto, come abbiamo visto, vede lo svolgersi della vicenda dalla parte del donatore, mentre il mio “Congiunzioni divergenti” ha scelto di analizzare più a fondo le difficoltà, le speranze, le remore di chi si mette in lista trapianti e aspetta un donatore. Il percorso non è facile neanche per chi dovrà ricevere così intimamente una parte estranea, eppure di solito è ancora una volta la vita che vince, quell’impulso irrefrenabile che porta tutti gli esseri viventi a replicarsi, a evolvere lo spirito attraverso la sopravvivenza della materia. Dopo i tanti dubbi e le non poche perplessità di chi dona e di chi riceve, due esseri viventi saranno congiunti per sempre, l’uno che vive nel corpo di un altro, nell’atto d’amore più intimo e più sublime che si possa immaginare. Tra i due si creerà un legame che solo chi ha vissuto questa esperienza può capire, e che ho cercato di comunicare attraverso le ultime parole del mio libro:
“… allungò la mano ad accarezzarlo, pensando con immensa gratitudine a chi glielo aveva donato. Giurò silenziosamente che ne avrebbe avuto la massima cura e che l’avrebbe amato intensamente, come si ama la parte migliore di sé.”
Indicazioni utili
Vite spezzate.
Quando poco prima di mezzanotte Simon Limbres, Christophe Alba e Johan Rocher avevano concordato di incontrarsi per surfare la mattina successiva, non avevano fatto altro che lasciarsi trasportare dall’opportunità di poter cavalcare le onde giuste, dinanzi ai loro occhi si apriva l’occasione perfetta, una sessione a metà marea come se ne contano due o tre l’anno – mare grosso, onda giusta, vento debole e neanche un cane in giro – ma mai si sarebbero aspettati che una semplice uscita tra amici si potesse tramutare in tragedia. E’ domenica e sono circa le sei del mattino, se non fosse stato per questo evento inconsueto nessuno dei giovani si sarebbe mai alzato così presto in un giorno di riposo, ma la tentazione era in agguato e così eccoli a bordo del loro van (pulmino), ancora assonnati, forse, ma pronti alla grande impresa. Tutto apparentemente è perfetto, le onde sono magnifiche e loro sono i capitani indiscussi di quel tratto di Oceano, nessuno può fermarli, alcuno può comprendere la loro euforia. Giunti al termine dell’epico momento, il rientro a casa. Il freddo? Il sonno? Non si sa, fatto sta che il caro vecchio van del padre di Chris non arriverà mai a destinazione. I primi soccorsi sopraggiungeranno alle 09.20 del mattino e i tre surfisti verranno trasportati d’urgenza al pronto soccorso più vicino.
E mentre per Chris e Johan le ferite si risolvono in contusioni all’anca, fratture e rotture di ossa, per Simon la sorte ha riservato ben altro. Era lui il passeggero al centro del pulmino, si è giocato la cintura di sicurezza con la ragazza – Chris era al volante dunque gli spettava di diritto – ed ora giace su quel lettino, la diagnosi è chiara ed inequivocabile: coma dépassé ovvero coma profondo, le sue lesioni sono irreversibili. Révol, il medico che si è occupato del caso non ha altro che questa sentenza irrevocabile per Marianne la madre del giovane, altra alternativa non sarà auspicabile nemmeno successivamente all’arrivo di Sean, il padre. Quando nel Reparto di Rianimazione un paziente si presenta con quella che è chiamata “morte celebrale” non vi è che quell’alternativa, comporre quel numero a cui risponde Thomas Rémige – l’infermiere coordinatore – ed avviare la procedura prevista dalla legge per il prelievo di organi e tessuti.
Tra pause e accelerazioni le ore scorrono inesorabili per questa famiglia avvolta nel calvario della perdita del proprio figlio di soli 19 anni ma sono tempi spietati anche per la stessa equipe che si trova a dover porre in essere l’operazione. Almeno il cuore, l’obiettivo è riuscire a salvare perlomeno questo vitale organo sinonimo, simbolo e sede di vita.
Con questo romanzo Maylis de Kerangal spinge il lettore al limite. In sole 24 ore – arco temporale in cui il componimento si articola – egli vive lo stordimento, la sofferenza atroce, la rinascita di una vita, la perdita di un ragazzo che non desiderava altro che assaporare la sua giovinezza. Un testo intenso, crudo, che nulla risparmia.
La difficoltà che personalmente ho incontrato l’ho riscontrata nella scrittura adottata, forse volutamente, dall’autrice in quanto le parole vengono snocciolate come caramelle, un fiume in piena, una cascata che ti cade sulle spalle per ripercorrere un passo dopo l’altro la tragicità degli avvenimenti. E se da un lato questo fiume in piena di pensieri, vocaboli, eventi rende alla perfezione lo stato d’animo di chi si trova a dover affrontare situazioni ai confini dell’umanamente sostenibile, perché mai e poi mai un genitore e generalmente un uomo dovrebbe trovarsi a dover scegliere cosa fare degli organi di un prossimo congiunto o semplicemente di un altro individuo e/o a decidere di una vita spezzata, dall’altro è fuorviante per il lettore che seppur trasportato dai fatti narrati e appassionato da una tematica così pregnante ne resta confuso, ha difficoltà a seguire le circostanze che si susseguono. Altro dettaglio che ahimé mi trovo a dover contestare è la punteggiatura. I simboli canonici utilizzati per indicare l’inizio ed il termine di un dialogo sono pressoché assenti tanto che talvolta è facile perdersi in questo flusso ininterrotto di pensieri, ricordi e dolore.
Resta un libro intenso, capace di commuovere e rispecchiare la realtà.