Requiem per una monaca
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UNO STRANO IBRIDO LETTERARIO
”Requiem per una monaca” è uno strano ibrido letterario, metà romanzo e metà dramma teatrale. Lo sperimentalismo di Faulkner raggiunge qui uno dei suoi vertici assoluti, ma non riesce a evitare che l’opera soffra della sua struttura troppo rigidamente binaria. La parte narrativa – va detto subito – è la migliore, ancorché risulti difficile, ostica, impervia nella sua scrittura fluviale, in cui i periodi principali vengono spesso inframmezzati da lunghi incisi o parentesi, i quali a loro volta si ramificano in ulteriori digressioni, ciò che fa perdere spesso il filo della narrazione e costringe il lettore ad un vero e proprio tour de force di concentrazione. Ma la storia della città di Jefferson e della contea di Yoknapatawpha è ugualmente affascinante: in una carrellata vorticosa Faulkner parte addirittura dalla preistoria (sic!) per arrivare ai nostri giorni, lasciando intuire, dietro alla sua prosa distaccata e impassibile, sia pure venata di sottile ironia, il suo amore per il Mississippi e la sua convinzione ferrea che ogni uomo è legato al passato della propria terra (o addirittura determinato da essa), anche se troppo spesso se ne dimentica (come dimostra l’amara scoperta, mirabilmente raccontata in alcune pagine tra le migliori in assoluto dello scrittore americano, di come il progresso fagocita tutto e fa ben presto diventare ogni cosa anacronistica). Pur appena abbozzati, passano così davanti ai nostri occhi personaggi che, se da una parte non sono che minuscole e inconsapevoli rotelle di un ingranaggio molto più grande di loro, fatalmente segnati dal marchio di una ineludibile predestinazione, a metà strada tra verità e leggenda, e condannati a scomparire quasi senza lasciare traccia (che non sia il graffio di una data e di un nome sul vetro di una finestra), dall’altra assurgono, quasi a risarcimento dell’inesorabile trattamento subito dalla Storia e anche se per poche pagine, al ruolo paradossale di eroi letterari.
Completamente diversa è invece la parte teatrale, dove Faulkner riprende la storia di un suo romanzo di venti anni prima, “Santuario”. Nei tre atti, di cui le parti narrative costituiscono un insolito prologo, emerge tutto il lato moralistico dell’autore: il sacrificio di Nancy (il cui orribile crimine si rivela paradossalmente un estremo, disperato tentativo per salvaguardare l’integrità della famiglia di Temple) e la confessione di Temple (che accetta pubblicamente di addossarsi la responsabilità morale dell’accaduto) sono infatti l’esemplare dimostrazione della forza redentrice della sofferenza e dell’espiazione. Il dolore (e soprattutto l’accettazione di esso) è l’unica possibilità che l’uomo ha di raggiungere la salvezza e di dare un senso alla propria vita. La visione cristologica dell’esistenza (Nancy si immola per salvare Temple) e il contrasto tra legge e giustizia (la confessione di Temple non può cambiare la sentenza, ma almeno servirà a ristabilire la verità nascosta) assurgono quindi a capisaldi della filosofia faulkneriana, preludendo all’affermazione dell’imprescindibile dignità della persona umana, anche della più abietta. Nancy Mannigoe, “puttana, cocainomane, senza speranza, già dannata prima di essere nata” diventa così una sorta di santa (è lei la monaca cui si riferisce il titolo), cui Faulkner guarda con immenso rispetto come esempio di autentica fede religiosa.
Purtroppo l’intento didascalico dell’autore risulta alla fine troppo palese e scoperto, persino nelle semplici indicazioni scenografiche (l’aula del tribunale sopraelevata, “in un simbolismo che riuscirà più chiaro all’inizio dell’Atto Secondo: il simbolismo di alta Giustizia del quale questa Corte di contea è soltanto uno stadio intermedio, ma non il supremo”). C’è poi una innegabile artificiosità nei meccanismi psicologici che portano Temple a recarsi in piena notte dal giudice per la scabrosa confessione, nella sostituzione del marito Gowan al giudice senza che la protagonista si accorga di niente e nel ruolo spassionato e disinteressato, troppo teorico, dell’avvocato Gavin. Gli equilibri drammaturgici soffrono inoltre dell’esasperazione del coté tragico, che mal si concilia con il sottile umorismo delle pagine non teatrali. Ma la cosa che infastidisce di più è che i personaggi di Faulkner parlano in maniera così artificiosa, prolissa e arzigogolata che ciò che era perdonabile (e spesso lodevole) quando la voce era direttamente dell’autore oppure riferibile ai pensieri dei protagonisti (come nel caso dello stream of consciousness de “L’urlo e il furore”), qua, dove i drammi esistenziali, le passioni, i sentimenti, in una parola la vita vissuta, si esprimono in prima persona, tutto diventa invece moraleggiante, retorico o – quel che è peggio – estetizzante, in scene di dubbio gusto dove Temple e Gavin non si preoccupano minimamente di citare termini astrusi come “eufonico” e “eupepsia” o di pronunciare con naturalezza frasi come “stai affogando in un orgasmo di abiezione e di moderazione”.