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"Questi sono i nomi dei figli di Israele". Così comincia il libro dell'Esodo, ma i sette profughi che vagano nella steppa sconfinata dell'Asia centrale non hanno nome. Non ricordano da quanto camminano, scaricati da un camion, divorati dagli stenti, sanno solo che devono andare verso occidente. Nel frattempo a Michailopoli, cadente città di frontiera, tra furti, mazzette e slot machine, il commissario Pontus Beg cerca di dare un senso alla sua vita con le massime di Confucio, attendendo quella notte d'amore che la domestica gli concede una volta al mese. Finché un vecchio rabbino, ultimo ebreo rimasto, gli rivela le sue vere radici. Il cammino di Beg verso un riscatto dalla "sporcizia" del mondo è destinato a incrociare quello dei profughi che attraversano il deserto per raggiungere la loro Terra Promessa.



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Questi sono i nomi 2014-12-17 15:45:49 pirata miope
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    17 Dicembre, 2014
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LA TESTA DEL MORTO

Nell’Esodo si racconta che gli ebrei in fuga dall’Egitto vagarono per anni per raggiungere la terra promessa, trasportando con sé le ossa di Giuseppe. Tremila anni dopo un gruppo di profughi partiti da un Paese dell’ex-blocco sovietico alla ricerca di un mondo migliore si trascina per la steppa, portando con sé la testa di “Africa”, un etiope massacrato dagli altri durante il viaggio perché diverso. Quel truce reperto rappresenta il legame indissolubile che unendo passato e presente sintetizza il senso della storia dell’uomo, al di là delle differenze fra popoli ed epoche. A quell’oggetto inquietante guarda Simon Beg, il non più giovane commissario, da poco scopertosi ebreo, protagonista del romanzo, per trovare un’identità e un senso alla sua esistenza solitaria di difensore dell’ordine a Michailopoli, una decadente città di frontiera, dominata dalla corruzione. Se l’ossessione del cadavere di una ragazza nel deposito della stazione della polizia lo perseguita, elevandosi a simbolo del malessere del mondo, l’incontro con i profughi ridotti a larve dall’interminabile girare a vuoto nella steppa gli pare una miracolosa occasione di fare la conoscenza con l’eterno peregrinare dell’essere umano in balia di una natura spietata e dei suoi stessi impulsi. Quale messaggio portano e a chi quegli individui a stento sopravvissuti al digiuno forzato e alla disperazione per essere stati ingannati sulla meta promessa? Lo scrittore olandese Tommy Wieringa (1967) nella prima parte del romanzo ne descrive l’angoscioso camminare in mezzo al nulla, ma di loro rivela ben poco: la maggior parte non ha neppure un nome proprio, si chiamano “ la donna”, “il ragazzo” “ il bracconiere” “ il nero” e sono esattamente quello che la stessa definizione evoca. Fra loro nessun affetto, nessuna solidarietà: ciascuno soffre il proprio martirio da solo, il prossimo è nemico o preda. Nella loro essenzialità rappresentano l’alba dell’uomo, così come l’inquieta ricerca delle proprie radici di Simon Beg, ne è il punto d’arrivo. La figura del capro espiatorio, il diverso da eliminare per purificare il gruppo, è una costante di ogni condizione umana e la testa del morto, macabro bagaglio portafortuna, che l’umanità porta con sé camminando verso il futuro.

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