Quando eravamo orfani
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Smarrimento ossessivo
Kazuo Ishiguro, premio Nobel per la letteratura nel 2017, che ben ricordiamo per “ Quel che resta del giorno “, ambienta questo romanzo tra presente e passato, ricercando il senso di un’ infanzia rubata. Il protagonista è Christopher Banks, ancora bambino in una Shangai dove ha vissuto la scomparsa, forse il rapimento, dei suoi genitori, coinvolti nel commercio dell’ oppio tra Cina e Inghilterra e nella dura battaglia per i diritti civili.
Christopher è, suo malgrado, un orfano costretto a tornare in Europa, in una patria del tutto sconosciuta e lontana dove, iscritto nelle migliori scuole, diverrà il più famoso detective d’ Inghilterra, impegnato a farsi un nome, risolvere casi complessi, legittimare la propria fama.
Dentro di se’, più che mai, sente il desiderio di tornare a Shangai per risolvere il caso più importante, la scomparsa dei suoi genitori, affondando i ricordi nella memoria convinto che siano sopravvissuti, ricostruendo i fatti grazie al ritrovamento di persone care ( il vecchio amico Akiri ).
Il presente mostra tutt’altro, un nuovo conflitto mondiale alle porte, Cina e Giappone ai ferri corti mentre una giovane donna ( Sarah ) continua a sognare una vita avventurosa idealmente perduta.
Inutile rimarcare che la verità non è come sembra, che i propri ricordi nascondono altro, i tempi sono cambiati, il passato dissolto, la ricerca restituirà una scoperta poco gratificante, cruda e lontana dal percepito, distogliendo il protagonista dall’ illusione primaria e riportandolo a una vita da ricostruire.
Il futuro vivrà dell’ affetto e della purezza di Jennifer, un’ orfana che Christopher ha adottato da bambina, oggi una donna sola, immersa nella sua stessa difficoltà sentimentale ma con un carattere solido, che lo considera un punto di riferimento, colui che si è preso cura di lei, la loro una simbiosi che un giorno potrebbe sfociare in una vita bucolica condivisa.
.... “ per quelli come noi il destino è affrontare il mondo da orfani e inseguire per anni i fantasmi di genitori scomparsi. E non possiamo fare altro che sforzarci di concludere la missione, quanto meglio e’ possibile, perché fino a quando non lo avremo fatto non ci verrà concessa mai pace”...
Kazuo Ishiguro, grazie a una prosa delicata e gentile che scorre limpidamente tra rappresentazioni meticolose e impressioni armoniche, accompagna il lettore in ripetuti flashback , tra sogno e realtà, percepito e immaginato, costruendo una trama complessa che nella seconda parte, viceversa, si rivela un’ affrettata e caotica costruzione inespressa, troppo fragile per essere vera.
Un romanzo pervaso da un senso di malinconica assenza, trasformato da Christopher in una presenza, che si dibatte nell’ incertezza e incompiutezza del protagonista, all’ affannosa ricerca di un equilibrio nel mistero di un’ infanzia rubata, di un’ origine violata, una risposta che molti anni dopo consegnerà una verità diversa in un mondo mutato e difforme.
Christopher Banks, il più grande detective di Inghilterra, viaggerà nel cuore di un giuoco poco credibile, un orfano della vita, almeno nel percepito, investito da molteplici avvenimenti e incontri fragili e sfuggenti, senza che si riesca ad attribuirne senso e collegamento, oltre un’ impressione labile, e la sua figura professionale pare in balia degli eventi, finendo per smontare la propria costruzione del reale declinando in una pacificata visione di se’.
L’ universo di Ishiguro, qui piuttosto dimesso, emerge solo a sprazzi nel profilo psicologico e relazionale del protagonista ( nella prima parte, piuttosto interessante ), nelle sue riflessioni e in poco altro, il resto pare una trama non trama che ha smarrito la propria connotazione più vera.
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Nel fumo dell'oppio
Quel Christopher Banks, protagonista di “Quando eravamo orfani” di Kazuo Ishiguro, che aveva trascorso parte della sua infanzia nella Shanghai dei primi anni del novecento, sognando di diventare da grande un famoso detective, si ritrova a Londra negli anni trenta, dopo aver ricevuto la migliore educazione nei migliori college inglesi, sottratto ai genitori di cui non aveva più saputo nulla. Qui, ha modo di entrare a far parte della élite della società britannica e di acquisire quella fama a cui aveva sempre aspirato.
La prima parte di questo romanzo si dipana sulla scia stilistica di “Quel che resta del giorno”, descrive personaggi e ambienti che rispecchiano l’impeccabile rigore di un mondo sempre più lontano dalla modesta realtà quotidiana della gente comune. Il tema fin qui si concentra sull’esigenza evidente del protagonista di dare delle risposte ai tanti enigmi rimasti insoluti nella sua vita, di restituire un’identità a se stesso e al suo amico di infanzia Akira. Difficile per coloro che appartengono per nascita ad un paese e ad una cultura rimanerne legati se poi l’educazione e gli anni della formazione si trascorrono in un altro paese dalle tradizioni completamente diverse. Questo è il dramma di Akira, di origine giapponese, ma educato in quella Shanghai che aveva risentito dell’occupazione britannica della fine dell’800. Parte importante nel romanzo assume il tema del commercio dell’oppio, che vede impegnati su fronti opposti proprio i genitori di Christopher e che sarà al centro del mistero che li avvolge.
L’ultima parte dell’opera subisce un brusco cambiamento: alla narrazione scorrevole, chiara nei contenuti e nella forma, si sostituisce un racconto non più lineare, ai limiti tra sogno e realtá, che confonde e lascia increduli. È pur vero che Ishiguro avrebbe successivamente scritto “Non lasciarmi” e “Il gigante sepolto”, romanzi nei quali la sua tendenza verso il fantastico si sarebbe esplicitata in tutta la sua chiarezza, ma qui siamo ancora lontani da quel traguardo.
Nel suo complesso “Quando eravamo orfani” affronta temi interessanti ma stupisce e delude per l’inversione di rotta delle ultime cento o centocinquanta pagine. Siamo lontani dalla limpidezza narrativa e contenutistica di “Quel che resta del giorno”.
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Londra-Shanghai, un secolo fa
Quando i fantasmi dell’infanzia danno il senso e la missione di una un’intera vita: li insegui ossessivamente per liberartene, salvo poi sentirti improvvisamente stanco, svuotato, leggero, inutile, solo e spaesato.
Questo mi sembra ci voglia dire Kazuo Ishiguro tramite la storia di Christopher Banks, figlio di inglesi trasferitisi a Shanghai all’inizio del ‘900, divenuto detective di professione per poter indagare un giorno sulla loro misteriosa scomparsa.
Christopher trascorre un’infanzia felice a Shanghai, completa ottimi studi a Londra e costruisce una carriera di successo che gli apre le porte dei ricevimenti più esclusivi e gli regala fama in tutta l’Inghilterra; eppure rimane prigioniero di un’ombra che si porta dentro, che lo rende irrequieto e insoddisfatto fino a quando non riuscirà a fare piena luce sul passato.
Dovrà guardare in fondo all’abisso, tornare nella Shanghai martoriata dalla guerra tra Chang Kai-shek e i comunisti, attaccata e occupata dai giapponesi, violentata dai signori della guerra, sfibrata dal traffico di oppio, tradita, sfruttata e venduta dagli opulenti occidentali, lasciata alla mercé di ogni più turpe malaffare.
Ishiguro segue uno schema già sperimentato con “Quel che resta del giorno”: il protagonista ricorda e racconta avvenimenti appena trascorsi e partendo da questi apre ampie finestre su un passato più remoto. In questo modo ogni avvenimento trova un suo ordine naturale e ogni emozione viene filtrata, rivista e modellata dalla memoria. E’ una tecnica che consente di ottenere un gradevole equilibrio tra emozione e riflessione, che mi sembra la cifra stilistica dell’ultimo premio Nobel per la letteratura.
Le prime pagine hanno un andamento lento, l’ambientazione è la società stanca, appesantita e avviata al tramonto dopo la Grande Guerra, società che costituisce il terreno fertile nel quale gli spiriti animali di Christopher e di altri giovanotti emergenti affondano unghie e denti e conquistano il loro spazio vitale.
Le pagine finali, nella Shanghai degli anni trenta, di grande interesse anche per il contesto storico, sono concitate e affannose come un incubo, un’allucinazione al termine dalla quale ci si sente spossati, svuotati e attoniti. Le ombre si diradano, il male emerge nitido e nauseabondo e colpisce con ferocia.
Dopo, ogni cosa, ogni attimo di vita sarà un trascurabile dettaglio privo di importanza. Si potrà vivere da sopravvissuti, più o meno serenamente fino alla fine dei propri giorni.
La netta frattura tra i primi due terzi del romanzo, con pagine morbide, eleganti e precise come un prato inglese, e le ultime concitate, allucinate, inverosimili cento pagine lascia in prima battuta piuttosto perplessi. Il sapore arriva subito e non dispiace, ma il senso?
Il senso e l’unità dell’opera arrivano dopo, almeno per me è stato cosi, e qui ho cercato di spiegare il messaggio che ho colto.
Non so se queste siano state le vere intenzioni dell’autore e mi interesserebbe molto conoscere le opinioni di altri lettori.