Pnin
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UN ADORABILE PERDENTE
“Perché non lasciare alla gente i suoi dispiaceri personali? Il dolore, mi domando, non è la sola cosa al mondo che la gente possegga davvero?”
Chi è Timofej Pnin, l’eponimo eroe (o forse sarebbe meglio dire antieroe) del romanzo di Vladimir Nabokov? Lo scrittore di San Pietroburgo utilizza nel corso della narrazione, per descrivere il personaggio e le sue azioni, termini come “pniniano” o “pninizzare”, e l’adozione di questi bizzarri neologismi ci fa già comprendere quanto egli sia singolare e originale, unico e imparagonabile. Chi è, dunque, Timofej Pnin? Apparentemente è un ometto buffo, insignificante, impacciato e distratto, sempre in lotta con l’ambiente circostante (“la sua vita era una guerra senza quartiere contro oggetti insensati che cadevano in pezzi o gli si rivoltavano contro o si rifiutavano di funzionare, oppure scomparivano per pura malignità nel momento stesso in cui entravano nella sua sfera di esistenza”), un ambiente in cui cerca in tutti i modi, da immigrato qual è, di adattarsi e di integrarsi, ma che gli rimane sempre un po’ estraneo e ostile (è emblematico il modo in cui, dopo tanti anni di permanenza in America, continua a storpiare la lingua inglese). E’ un uomo che viene spontaneo prendere in giro per la sua goffa solerzia, la sua antiquata seriosità, la sua mancanza di umorismo, e un suo collega si specializza addirittura nel farne la caricatura per divertire gli amici durante le serate mondane. All’inizio del libro Pnin ci viene presentato mentre si reca a una importante conferenza ma prende a sua insaputa un treno sbagliato, e, giunto dopo svariate peripezie a destinazione, si accorge di aver portato con sé non già il manoscritto del suo intervento ma il testo di un diverso simposio; più avanti lo vediamo mentre cade rovinosamente dalle scale o guida con comica imbranataggine l’automobile appena acquistata o distrugge le sue scarpe con la suola di gomma mettendole in lavatrice. Non è un caso che, quando vi furono delle trattative per una riduzione cinematografica del romanzo (poi non concretizzatasi), i nomi degli attori a cui si pensò per impersonare Pnin furono Peter Sellers e Jacques Tati. Sarebbe oltremodo riduttivo però trattare il personaggio di Pnin alla stregua di una macchietta, di un soggetto da barzelletta. Egli è infatti molto più complesso di quello che appare: se per Nabokov gli esseri umani si suddividono in solidi geometrici e numeri irrazionali, Pnin appartiene senza alcun dubbio ai secondi, tanto è difficile inquadrarlo in una categoria predefinita. Pnin è, come abbiamo appena visto, maldestro e impacciato, e oltretutto è un misantropo dai rigidissimi principi, esigente e sospettoso, ma allo stesso tempo è un uomo che possiede una grande e appassionata cultura (sa decifrare senza fatica il complesso andamento cronologico di “Guerra e pace” o trattare tematiche come la similitudine ridondante in Omero e in Gogol), è benevolo, generoso, sensibile e romantico. E’ innamorato dell’arida e opportunista Liza, che lo tradisce ripetutamente e senza scrupoli di sorta, addirittura sfruttando cinicamente la sua buona fede per permettere a lei e al suo nuovo marito di espatriare in America, ma ogni volta è sempre pronto a riprenderla con sé, perdonandole ogni disonestà e addirittura dichiarandosi pronto ad adottare il figlio della donna. C’è in lui una fondamentale bontà d’animo, che non deve essere confusa con la dabbenaggine: Pnin ha infatti una grande dignità, che non lo fa mai scendere a compromessi e lo porta perfino a rifiutare la pietosa proposta dell’amico narratore, che lo salverebbe dal rovinoso licenziamento ma che lui giudica degradante. Pnin è sì un fallito, ma non indulge mai nell’autocommiserazione ed è sempre pronto a ripartire da zero, cade a ripetizione ma sa ogni volta rialzarsi, è un esile giunco che si piega ma non si spezza. Nabokov guarda con grande simpatia e indulgenza a questo personaggio, e nel suo ritratto non si sa se prevalga il gusto divertito di fare una satira sul mondo accademico statunitense e sugli émigrés russi fuggiti dal bolscevismo, oppure un inconscio e non ben dissimulato desiderio di immedesimazione.
Uno dei più considerevoli aspetti della personalità di Pnin è il suo peculiare rapporto con la propria infanzia e con la madrepatria perduta. Il presente di Pnin è infatti permeabile, poroso, e il passato vi penetra come una doppia, fantasmatica realtà. Il protagonista è spesso colto da improvvise, sinestatiche visioni: mentre si sta accingendo a tenere una conferenza, egli scorge tra il pubblico, come se fossero presenti in carne ed ossa, i genitori, una vecchia zia e alcuni ex compagni di scuola, tutti morti ormai da più di trent’anni; e un malore, che lo costringe ad accasciarsi sulla panchina di un giardino pubblico, lo fa ritornare con la mente, in una vera e propria riproposizione del passato che è ben più di un semplice ricordo, a un delirante attacco febbrile subito durante l’infanzia pietroburghese. In questi momenti di vivida e angosciosa illuminazione Pnin sperimenta la “spaventosa sensazione di affondare e fondersi nel proprio ambiente fisico”, fino a riemergere in un altro tempo, in una dimensione parallela, in cui è normale che i genitori siano quietamente assisi a pochi passi da lui mentre leggono una rivista, o un amore giovanile, morto in un campo di sterminio durante la guerra, riemerga dolorosamente dal passato. I defunti, come in romanzo di Rulfo o di Garcia Marquez, rivendicano una loro incontestabile, straziante realtà, e l’ateo Pnin, che non crede in un Dio autocratico, è portato invece a credere, confusamente, in una “democrazia di fantasmi” (“Le anime dei morti, forse, costituivano dei comitati, e questi, in seduta perpetua, presiedevano ai destini dei vivi”). L’intensa nostalgia per il passato russo avvicina curiosamente Pnin al Fyodor de “Il dono”, scritto da Nabokov venti anni prima, alla vigilia del suo trasferimento in America. Entrambi i personaggi non a caso cullano il proposito di scrivere un libro sulla cultura russa (là una biografia di Cernysevskij, qui una “petite histoire” su curiosità, aneddoti, usi e costumi della madrepatria), entrambi frequentano, un po’ controvoglia, il gruppo chiuso dei loro connazionali (gente tragicomica alla ricerca di un’integrazione nel nuovo mondo che sempre sfugge loro di mano, incompresi da una società che è all’oscuro e tutto sommato nemmeno vuole sapere nulla delle vicende della rivoluzione da cui sono fuggiti) ed entrambi, soprattutto, sono preda di fulgide visioni ed epifanie che li estraniano dalla realtà per tuffarli inopinatamente nel lontano passato, un paradiso perduto da sognare ad occhi aperti.
“Pnin” è indubbiamente un’opera minore nella produzione nabokoviana, racchiusa com’è tra lo scandaloso successo planetario di “Lolita” e i fuochi d’artificio linguistici di “Fuoco pallido” e “Ada o ardore”. Lo stile di Nabokov, che oscilla tra un minuzioso realismo (il modo analitico in cui l’autore descrive le varie stanze prese in affitto da Pnin, il ritratto fisiognomicamente preciso dei personaggi), una capacità evocativa quasi proustiana e un virtuosismo da formidabile calembourista, ha qui una levità, una sospensione, una assenza di gravità, assai maggiori di quelle a cui lo scrittore russo-americano ci ha abituati nei suoi capolavori. Questa leggerezza, che Italo Calvino considerava uno dei valori irrinunciabili non solo della letteratura, ma della vita stessa, non è qui un limite, un sinonimo di inconsistenza e di superficialità, ma un incontestabile valore aggiunto. Lo stesso Nabokov, nel suo saggio dedicato a Gogol, aveva del resto argutamente sostenuto che “la differenza fra il lato comico e il lato cosmico delle cose dipende da una sibilante”. Certo, al di là della sua alternanza tra il ridicolo e il sublime, il romanzo soffre un po’ di un andamento spezzettato, aneddotico, non pienamente concluso, ma in esso vi sono passi incredibili, assolutamente inattesi, come quello in cui il narratore si domanda dove può essere finito – perché da qualche parte sicuramente esiste ancora – il granello di polvere che quarant’anni prima era entrato nel suo occhio di bambino. Se “Pnin” è un romanzo leggero, abbiamo però anche visto che esso ha momenti di trasognata tristezza, di incantata malinconia, che lasciano nel lettore un retrogusto un po’ amarognolo. Del resto, Nabokov stesso afferma di odiare il lieto fine: “Il fallimento è la norma. Un destino funesto non dovrebbe incepparsi”. Coerente con questo assunto, l’autore sceglie un finale aperto, sospeso, lasciando Pnin al suo destino, solo e indifeso, alla caparbia e non rassegnata ricerca di un suo posto nell’America egoista e indifferente, loser commovente e coraggioso per cui ogni lettore di buona volontà non può non parteggiare con tutto il cuore.
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Libertà
Caso ha voluto che leggessi questo romanzo in un periodo in cui mi ero finalmente approcciata all’ascolto di “Oblomov” attraverso le teche del programma radiofonico della RAI Ad alta voce - ascolto poi interrotto a causa della discontinuità che mi caratterizza quando a prevalere sono le vacanze, rigorosamente accompagnate da scarsissima dotazione tecnologica - per cui la lettura dello splendido e fuorviante incipit di Pnin subito mi ha fatto pensare all’oblomovismo e al suo creatore. La scrittura di Nabokov ha immediatamente richiamato alla mia mente la Russia, i suoi grandi scrittori, l’intera tradizione culturale, soprattutto letteraria, illudendomi di trovarmi in un solco o forse meglio dire sulla scia di quella grande produzione, fino a quando un geniale, sicuro, inatteso colpo di coda non mi ha fatto ricredere portandomi al cospetto di un autore moderno, vivace, ironico e divertente. Un grande maestro della narrazione, un incantatore di lettori, un abile prestigiatore che lascia di stucco non una sola volta ma lungo tutto il corso della narrazione, sfoderando al momento opportuno i suoi trucchi per far rinvenire il lettore dall’illusione di aver avuto in mano la narrazione, di averla, addirittura ritenuta quasi fino alla fine, dopo l’abile giochetto iniziale, inutile, non necessaria, prevedibile, noiosa. E invece, questo romanzo è semplicemente uno scherzo letterario, quasi un ironico saluto di Nabokov a se stesso, al suo essere stato professore, esule, genio al pari del Pnin che lo stesso Nabokov, fattosi personaggio nell’ultimo capitolo, si diverte a mettere alla berlina , avendoci fatto - prima e per tutto il tempo- quasi detestare tutto l’entourage accademico che gli ruota attorno e che lo sbeffeggia. Pnin è un uomo fallito, un arrendevole, misero uomo, un goffo per natura, un simpatico pasticcione? Ancora, è solo un personaggio che per la sua debolezza genera affetto immediato nel lettore? Non penso, Pnin è semplicemente la cartina al tornasole di un bieco ambiente pseudo culturale, una provinciale università, che millanta di essere produttrice di cultura mentre si occupa in realtà di sovvenzionare se stessa con inutili e improbabili studi come il cosiddetto Test del dito nella Tazza … si sarà dunque compreso che Pnin è l’opposto di Oblomov, niente affatto indolente anzi a me piace immaginarlo in fuga per una nuova vita preso per mano a Seymour Levin di Malamud. Buona fortuna a entrambi.
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Oblomov in America
"Il mio nome è Timofej" disse Pnin (...). Seconda sillaba pronunciata come "uff", accento su ultima sillaba, ej, come in "sei", ma un po' più allungato. Timofej Pavlovic Pnin, che significa Timoteo figlio di Paolo. Il patronimico ha l'accento sulla prima sillaba e sul resto si glissa - Timofej Pahlc."
...ricorda qualcosa? Forse un famoso incipit? LO-LI-TA... Certo che sì, considerato che l'autore è lo stesso, Vladimir Nabokov. "Pnin" è il romanzo che pubblicò dopo "Lolita", a distanza di due anni, nel 1957.
Nabokov è decisamente tra i miei scrittori amati e dei quali ho l'intenzione di leggerne tutta l'opera, mi affascina, è un prestigiatore che ipnotizza e stupisce. Nei suoi libri non c'è mai una parola fuori posto o un dettaglio insignificante. Se viene introdotta nella scena una palla da calcio che Pnin vuole regalare a Victor, quella palla avrà una sua storia e ce la ritroveremo più avanti nella narrazione, è un maestro nel giocare con i dettagli che inserisce, come un giocoliere che ama stupire il suo pubblico. Stessa cosa fa con determinate situazioni: se all'inizio ci viene narrata una situazione che stuzzica la curiosità del lettore per sapere come andrà a finire, ma viene troncata senza svelare la conclusione, essa verrà poi ripresa verso la fine e riepilogato il risvolto.
Pnin è un goffo ma simpaticissimo professore che tiene un corso di lingua russa ad una università americana. Emigrato dalla Russia, la terra madre, in Europa e successivamente in America, Pnin sembra essere in un continuo pellegrinaggio senza mai trovare un posto dove deporre le radici. Cambia spesso la casa in affitto e quando si ha l'impressione di un certo desiderio di stabilità, il destino si dimostra avverso. Carico di elementi biografici, l'autore crea con Pnin un personaggio molto vivido, forte e che vive di vita propria nel romanzo creando anche un mondo pniniano intorno a lui con le sue abitudini, i suoi tic e le sue paranoie. In fin dei conti è tratteggiato con poche linee e ombre ma talmente incisive ed espressive che rimane impresso e prende vita nell'immaginazione del lettore:
"Mirabilmente calvo, abbronzato e rasato con cura, aveva un inizio piuttosto imponente, con la gran cupola brunita del cranio, gli occhiali cerchiati di tartaruga (che mascheravano un'infantile assenza di sopracciglia), il labbro superiore da primate, il collo solido e il torso muscoloso serrato in una giacca di tweed attillata, ma una fine un po' deludente, con due gambette sottili (al momento rivestite di flanella e accavallate) e due piedi dall'apparenza fragile, quasi femminei."
"la voce baritonale, lenta e monotona, che sembrava inerpicarsi su per le scale usate da chi ha paura degli ascensori."
Attraverso Pnin si penetra nel mondo accademico americano, che sarà il background del libro seppur non in maniera tale da sovrastare la sua storia personale, che, attraverso i ricordi, copre episodi della sua intera vita e non si focalizza solo sul presente. Questo sfondo assicurerà però la vena ironica e divertente, attraverso vari aneddoti che controbilanciano il dramma interiore del personaggio.
"Certe persone- e io sono di quelle- odiano il lieto fine. Ci sentiamo truffati. Il fallimento è la norma. Un destino funesto non dovrebbe incepparsi. La valanga che interrompe la sua avanzata a pochi metri dal villaggio rattrappito dalla paura si comporta in modo non soltanto innaturale, ma anche immorale."
Prevale il tema dell'adattamento a un nuovo stato e a una nuova cultura, con tutte le difficoltà del caso, dalla lingua al comportamento delle persone e le usanze locali, ma anche l'impossibilità di una fusione armoniosa per quanto desiderata, si rimane sempre stranieri in una terra non propria. Ovviamente questo è un aspetto biografico di Nabokov che nonostante si sia adattato meravigliosamente alla vita americana, di certo non gli sarà stato facile e il cuore sarà rimasto senz'altro in Russia". Tema molto caro a lui è anche il rovescio della psicanalisi, che non apprezzava molto, infatti li chiama nel libro "psicasinini" - "Non è nient'altro che una specie di microcosmo del comunismo - tutta quella psichiatria", non a caso i suoi personaggi psicanalisti sono anche le persone più squilibrate e superficiali. Tema altrettanto predominante è la letteratura russa, infatti le pagine pullulano di Tolstoj, Turgenev, Puskin, Dostoevskij, Cechov etc. sia attraverso aneddoti biografici sia attraverso aspetti critici verso le loro opere.
Non credo che sia il caso di aggiungere altro sullo stile di scrittura, i piccoli frammenti citati parlano da sé. Rimane armonioso, affascinante e venato di comicità, malinconia e cultura, pieno di metafore esplosive e di dettagli ben calibrati, una ricetta insomma in cui le dosi degli ingredienti sono perfettamente bilanciati. Riserva inoltre minuziosa attenzione ai nomi e alla loro composizione e metamorfosi.
La voce narrante è particolare, parte come narrazione onniscente in terza persona che poi si scopre man mano essere un amico di Pnin e che diventa personaggio nella parte finale del libro. Nei brevi incontri tra i due, però, Pnin sembra negare tale conoscenza- infatti anticipa lo stile di "Fuoco pallido", libro scritto subito dopo "Pnin": non sappiamo se è Pnin a non ricordarsi dell'amico o è l'amico/voce narrante a inventarsi le cose.
Un libro magico in cui Nabokov come al suo solito, incanta, gioca, fa vedere, nasconde, lascia intendere e avvolge nel mistero. I trucchi li sa solo lui, noi godiamoci lo spettacolo!