Per chi suona la campana
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Il più grande
Un assioma della letteratura recita che ogni scrittore immette nelle sue storie parte di se stesso, della sua esperienza di vita, e del suo modo di intendere l’esistenza.
Per alcuni, meglio che per altri; capita perciò di incontrare chi sa riversare mirabilmente sulla carta le passioni, i brividi, i batticuori e le impressioni non per sentito dire, ma sperimentate direttamente sulla propria pelle nel corso del proprio arco vitale.
Tratteggiando di conseguenza i protagonisti principali delle storie inventate, ma con un substrato reale, basandosi sulla propria persona, almeno nei caratteri emozionali.
Questa verità incontestabile si adatta come non mai alla figura e alle opere di Ernest Hemingway, a mio modesto parere il più grande scrittore dei tempi moderni.
Intendiamoci, non il più bravo, ma il più grande.
Perché Hemingway aveva un modo di scrivere tutto suo, che può non piacere, e a tanti, in effetti, non piace, ve lo dico subito, qualcuno lo giudica anche pesante e noioso.
Presenta uno stile di scrittura, di conversazione, un’esposizione di luoghi, fatti e dialoghi resi con un timbro asciutto, essenziale, a volte laconico e inespressivo, non ermetico ma troppo intimista, talora anche ridondante e “in sospeso”, se così si può dire.
Usa cioè periodi lunghi, talora scoordinati con l’azione che sta descrivendo, fa decorrere il tempo in considerazioni, mentre si “attende” il seguito delle azioni che sta descrivendo, della storia che racconta.
Che racconta, appunto, perché Hemingway non scrive, racconta.
Le sue opere migliori, il meglio di sé, lo offre nei racconti, non nei romanzi.
Lo si rinviene nei pezzi giornalistici, il suo primo impiego, nei resoconti, nelle cronache da inviato sui fronti di guerra prima, e poi anche dopo, nelle arene delle corride spagnole, ad esempio, quasi fosse un cronista sportivo, un Niccolò Carosio della tauromachia, intento a descrivere le evoluzioni nell’arena di toreri, tori, matador, tra sangue e sabbia resi davvero vividi dai suoi scritti.
Oppure quando racconta del mare, di Cuba, di barche a vela, altre sue passioni.
Hemingway non scrive romanzi, si racconta. Quello che dice, l’ha vissuto. Provato. Sperimentato.
Racconta fatti che l’hanno visto protagonista, e le emozioni che ha provato vivendole.
Perciò non possono essere intese da tutti. Come non è da tutti aver vissuto com’è vissuto lui, certo.
Però a lui è toccato, e gli è toccato vivere certe esperienze e non altre, provare certe sensazioni e non averne solo notizia, perché se le è andate a cercare. Una scelta di vita.
È stato cacciatore e pescatore appassionato (“I quarantanove racconti”), autista di ambulanze sul fronte di guerra italiano durante la prima guerra mondiale (“Addio alle armi”), ferito gravemente e sul punto di morte. Reporter nella guerra civile spagnola e combattente del fronte della libertà (“Per chi suona la campana”), diretto osservatore della tragedia della seconda guerra mondiale (“Di là dal fiume o tra gli alberi”), si è guadagnato medaglie al valore e onorificenze militari, ha reinterpretato a modo suo il “Moby Dick” di Melville usando Santiago un vecchio pescatore bruciato dal sole, e un pesce di dimensioni minori, uno squalo che passava nei paraggi (“Il vecchio e il mare”).
In tutto questo trova pure il tempo di frequentare intimamente intellettuali come Gertrude Stein e Francis Scott Fitzgerald nella Parigi nel pieno del suo splendore artistico, entrando a far parte a pieno titolo della corrente letteraria della “generazione perduta”.
A tempo perso, così, giusto perché si trovava passando, vince un Pulitzer ed è insignito del Premio Nobel per la Letteratura.
E al termine della notte, spente le luci delle emozioni intense, le uniche che gli fornivano l’energia indispensabile per affrontare il grigiore della quotidiana esistenza, toglie il disturbo, suicidandosi.
Il più grande, per davvero, prima come uomo formidabile, e poi come scrittore, quasi una conseguenza obbligata. Una scelta di vita la sua, quella di vivere alla grande, del tutto rispettabile.
Come si conviene al più grande.
“Per chi suona la campana” deve parte del suo successo al film omonimo con la bellissima attrice Ingrid Bergman, da giovane: scordatevelo. Il romanzo è tutt’altra cosa.
Il libro è un racconto delle ragioni di una precisa scelta di campo.
Il protagonista, Robert Jordan, è un membro importante della Brigata Internazionale, l’organizzazione di volontari che combatterono a fianco degli insorti antifranchisti contro l’esercito fascista durante la guerra civile spagnola, incaricato di far saltare in aria un ponte ritenuto essenziale ai fini strategici della guerriglia.
L’attacco al ponte, e i relativi preparativi, sono l’occasione per una disamina politica e sociale della Spagna sotto il giogo fascista di Franco, attraverso un racconto a più voci dei partigiani coinvolti e reclutati per far saltare il ponte.
Entrano in scena figure semplici e complesse insieme, dai nomi tipici e caratterizzanti: El Sordo, un capo partigiano, coraggioso quanto pusillanime e opportunista, Anselmo, il partigiano vecchio saggio della banda, Pablo, capo della guerriglia, Maria, protagonista di una breve quanto intensa e struggente storia d’amore con Robert Jordan, Pilar, una vecchia partigiana che ha preso Maria sotto la sua tutela, e poi altri giovani e meno giovani, Fernando, Andrés, il giovane Primitivo, il comunista Joaquín, e altri ancora.
Un vero e proprio coro greco, un insieme di voci diverse e variegate, tutte declamanti all’unisono la stupidità, la follia assurda e incredibilmente distruttiva della guerra per gli uomini e le cose di ambo gli schieramenti, con la natura muta e attonita spettatrice.
Una disamina lucida e spietata sull’inutile crudeltà, la stoltezza di gesti, violenze, capitali impiegati in armamentari di morte anziché in strutture e apparati di gioia e di pace, come sarebbe semplicemente più umano.
Di qui, la necessità di schierarsi, di provare a ripristinare l’ordine naturale delle cose, quello più equo e salubre, estirpando l’erba velenosa.
Una scelta di campo, una scelta di vita.
E dopo, farne ammenda, perché il sangue non si cancella, qualsiasi sia il colore, il sangue ha memoria. Il sangue richiama sangue, è il vecchio Anselmo che lo ricorda. “…dopo bisognerà fare ammenda, bisognerà espiare in qualche modo, fare il bene, insegnare il bene.”
Dopo. Ora il ponte va fatto saltare in aria.
Anche se magari non servirà a molto nel decidere i destini della guerra.
Ma va fatto. A qualsiasi costo.
Anche a rischio di perdere non tanto la tua vita, non tanto l’amore della tua vita., ma la Vita stessa.
Per farlo, c’è un’unica via: schierarsi dalla parte giusta. Fare una scelta di campo.
Una scelta di vita. Non tutti ci riescono. Solo alcuni, solo qualcuno.
Il più grande.
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Una tristezza assoluta
Certe volte mi meraviglio di come molti autori vengano sopravvalutati.
Di Hemingway ho letto diverse opere, solo un paio mi sono piaciute. Le altre le ho trovate tendenzialmente ripetitive e di un noioso quasi mortifero.
Questo libro è stato forse il peggiore da me letto dell'autore.
I gusti sono gusti ci mancherebbe, ma praticamente qui accade poco o nulla, con in mezzo una farcitura di storia amorosa improbabile e asettica.
Il messaggio dell'autore, dal mio punto di vista, è una condanna senza appello a guerre e violenza. Siamo tutti d'accordo, però il suo stile è asettico, distante dalle vicende, con dialoghi spesso ripetitivi e con questa idea della tragedia imminente che aleggia per tutto il racconto.
Proprio non sono riuscito a immedesimarmi con i protagonisti, con la loro lotta all'invasore nemico, come non ho percepito il contatto dell'uomo con la natura che lo circonda.
Anche la scena finale per me è incompiuta, con degli avvenimenti che debbono accadere ma con un finale abbastanza aperto che lascia spiazzati.
Certo è normale anche che per alcuni, come il sottoscritto, è difficile potersi immedesimare in vicende storiche accadute anche 100 anni fa, è come se mi parlassero del concerto dei Beatles a New York negli anni 60. Però la grandezza di certi scrittori è proprio questa: creare coinvolgimento anche per situazioni lontane e non vissute dal lettore.
Detto questo, concluderei, che se sentite una campana in lontananza mentre leggete questo romanzo, ricordate che sta proprio suonando per voi.......
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L'AMORE PER LA VITA
Il solito superlativo Hemingway. L'intero romanzo non è che un lodevole apprezzamento di ciò che è la vita,tre giorni intensissimi,prima della fatidica azione militare.Dunque cos'è che tormenta l'uomo? L'uomo è tormentato dall'ipotesi di poter morire all'improvviso senza aver vissuto a pieno la propria vita; tale preoccupazione non deve assolutamente ostacolare la nostra esistenza,infatti l'autore afferma che:.Il protagonista è Robert Jordan,un insegnante americano che condivide i valori della Repubblica spagnola e che dunque lotta per quest'ultima.Robert è un personaggio abbastanza contraddittorio,infatti spesso s'impelaga nelle sue stesse riflessioni,ma durante la guerra egli subisce una trasformazione,il precario equilibrio tra la vita e la morte fa sì che egli apprezzi tutto ciò che ha,anche se questo tutto è poco o niente. A tal proposito vorrei citare il protagonista: >. Ogni uomo è parte del continente che è l'umanità,che lo si voglia o no,nessuno è autosufficiente,poiché nessun uomo è un'isola. Questo romanzo,letto con attenzione,accende nel lettore l'amore per le cose semplici,che compongono la vita,dovremmo imparare ad apprezzare tutto ciò che abbiamo,poiché tutto è limitato,tutto ha una scadenza,una fine. Nella guerra descritta da Hemingway non vi è la tanto agognata quotidianità(che noi abbiamo il privilegio di vivere),ma unicamente la prossima operazione militare.L'obbiettivo di questo romanzo è farci riflettere su quanto siamo o siamo stati fortunati,e apprezzare tutta la vita che ci circonda. Chi afferma che questo romanzo è noioso,ha semplicemente effettuato una lettura superficiale.
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Da John Donne a Ernest Hemingway
Non è un caso se il titolo di questo romanzo è tratto da una poesia del famoso poeta inglese John Donne (Nessun uomo è un'Isola, /intero in se stesso. /
Ogni uomo è un pezzo del Continente, /una parte della Terra. /
Se una Zolla viene portata via dall'onda del Mare, /la Terra ne è diminuita, / come se un Promontorio fosse stato al suo posto, /
o una Magione amica o la tua stessa Casa./ Ogni morte d'uomo mi diminuisce, / perchè io partecipo all'Umanità. / E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana: / Essa suona per te.)
Benché Ernest Hemingway non rientri fra i miei narratori preferiti, per una molteplice varietà di motivi, non ultimo un certo tono di sufficienza a cui ha improntato non sue poche prose, ci sono due romanzi che ha scritto che secondo il mio giudizio sono delle vere e proprie eccellenze, per i temi trattati e per la misura con cui sono svolti. Mi riferisco a Il vecchio e il mare e a Per chi suona la campana. Quest’ultimo ha trovato ispirazione in una sua esperienza diretta nella guerra di Spagna, allorché l’autore americano vi fu presente, dalla parte dei repubblicani, in qualità di corrispondente. Forse la trama è anche troppo semplice, forse avrebbe dovuto affondare ancora di più il coltello nella piaga per dimostrare come, fra tutti gli orrori di un conflitto, sia insuperabile quello di uno scontro fra fratelli, ma c’è qualche cosa che non si deve sottacere e che permea l’intera opera: la morte. Sempre presente, in qualsiasi circostanza, sembra quasi il destino ineluttabile di ciascun protagonista, una morte di cui si è ben consapevoli anche quando si avvia una vera e propria azione suicida, una morte che è sempre al fianco, al punto di non temerla, perché prima o poi tutto finisce. Non c’è retorica in queste pagine, anzi c’è un distacco quasi giornalistico che annota la violenza come un fatto e proprio per questo ancor più lancinante è l’emozione che finisce con il provare il lettore. Inoltre, benché chiaramente dalla parte dei repubblicani, Hemingway usa la stessa misura per loro e per i franchisti, considera gli uomini sotto una diversa divisa come esseri umani, spesso inconsapevoli della scelta effettuata. In quest’ottica la guerra diventa un mostro opprimente che rivela la vera natura degli esseri umani e così per l’autore americano i buoni non sono tutti solo sotto un’unica bandiera e lo stesso dicasi per i cattivi, ben conscio che un conflitto è l’occasione ideale affinché ogni individuo possa dare il peggio o il meglio di sé.
La Spagna descritta non è ovviamente quella colorata che troviamo in Fiesta, è invece una Spagna grigia, fatta di polvere, sangue e uomini dolorosamente nemici, pedine di una scacchiera le cui mosse sono decise dall’unico vero vincitore: la morte.
Dal romanzo è stato tratto l’omonimo film, uscito nel 1943 e che ebbe un grande successo, anche per la fama dei due attori protagonisti: Gary Cooper e Ingrid Bergman.
Leggetelo, è sicuramente meritevole.
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La guerriglia dei sentimenti
Leggere un autore premio Nobel crea sempre delle aspettative, è inevitabile ed intrinseco all’importanza che si attribuisce, a ragione, ad un riconoscimento tanto prestigioso. “Il vecchio e il mare” sembra essere il culmine, l’apice indiscusso che ha consacrato Hemingway. Nonostante questo, personalmente non ho potuto non amare maggiormente il romanzo di cui mi accingo a parlare, ultimo in ordine cronologico dell’intera produzione letteraria dell’autore: si tratta di “Per chi suona la campana”.
In primis, dovendo fare un piccolo confronto, non necessariamente appropriato, con “Il vecchio e il mare”, l’unica altra opera che ho letto dell’autore, mi sembra salti subito all’occhio il carattere meno simbolico e meno ermetico di “Per chi suona la campana”. Quest’ultimo è sicuramente più considerabile come romanzo, rispetto al primo, in quanto più articolato, più corposo e notevolmente più popolato. Rientra sicuramente più nelle mie corde, nonostante una trama inesistente fin verso le battute finali. Ma proprio qui ritengo stia il bello, la maestria, il virtuosismo di scrivere cinquecento pagine di pura bellezza narrativa e stilistica senza una base di avvenimenti concreti. Pagine che non annoiano, poiché troppo vere, a volte crude, a volte evocative, a volte tanto intrise di evidente, lampante verità e saggezza da rimanerne spiazzati.
I freddi ragionamenti di Jordan, l’Inglés, permeati insistentemente dalla necessità schiacciante di vivere, amare e provare sentimenti, si alternano ai racconti di guerriglia raccontati dai personaggi ausiliari, tutta una cerchia di persone con i quali il protagonista si troverà a convivere e collaborare per portare a termine la sua missione. Una missione in terra straniera, in una Spagna raccontata dalle sue valli, dai suoi altipiani, dai suoi boschi, che solo da lontano sente giungere gli echi più forti della guerra interna che devasta la nazione, negli anni della seconda guerra mondiale inoltrata. La stessa guerra civile raccontata con tanta, pittorica crudezza dalla “Guernica” di Picasso, viene affrescata in questo romanzo grazie ai numerosi racconti che riportano i componenti della falange di partigiani cui si aggrega Jordan. Ed è così che i racconti pieni di orrori, di sangue e di violenze si accostano alla consolante presenza della giovane e bella Maria, anch’essa parte dei guerriglieri, di cui Jordan si infatuerà.
Tutto questo per una semplice compito da svolegere, far saltare un ponte, in mezzo ad una zona boscosa, per evitare i possibili rifornimenti del nemico. A questo si dovrà giungere, ma ai fini del romanzo, che l’obbiettivo si raggiunga o meno mi sembra a dir poco irrilevante. Tutta la bellezza straordinaria del romanzo si svolge prima, nella testa di questo professore americano che ha deciso di abbandonare patria e vita per dedicarsi ad una guerra non sua, ma che condivide e a cui ormai appartiene. Una mente tesa al proprio dovere, ma tesa anche al ritorno. Basculante dalla certezza della riuscita ad ogni più minimo dubbio. Dalla voglia di vivere, ma anche dall’accettazione della morte.
Una chiosa in grande stile, che delude un po’ ma che raggiunge una sua prefezione, conclude un’opera letteraria di immenso valore, prima letterario, poi storico.
Romanzo quindi consigliatissimo, anche ai non amanti delle storie di guerra. Anche io non lo sono, eppure, nonostante si parli spesso di guerriglia, di fucili e di tattiche militari, tutto ciò non risulta mai pesante, ma anzi estremamente bilanciato da un amore per la lingua e per l’espressione del sentimento forse mai eguagliati da nessun’altro scrittore.
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Tre lunghissimi giorni..
Non è stato per nulla semplice finirlo, purtroppo è un romanzo che per quanto sia bello nel suo insieme, mi è risultato a tratti pesante e tedioso, a limite del logorroico. In particolare quando si perde in lunghissime e contorte elucubrazioni.
“Per chi suona la campana” è una minuziosa descrizione dei tre giorni che precedono un azione di sabotaggio, tre giorni che precedono un azione da cui dipendono le sorti della guerra civile spagnola, tre giorni di tensione, amore, amicizia e valore,dubbi e perplessità. Tre giorni in cui gli ideali e l’amore si scontreranno, giorni di scelte difficili.
I fatti sono accompagnati dall’ introspettiva di un dinamitardo idealista, Robert Jordan detto L’ Inglès,e dai sentimenti di ognuno dei membri di una banda di guerriglieri assassini e senza scrupoli che si nascondono dietro le linee del fronte Franchista. Banditi al soldo dei Repubblicani.
La descrizione dei personaggi è talmente minuziosa che Pablo, Maria,Anselmo, Augustin, Eladio, Fernando,Pilar, e Robert Jordan, ti si stampano nel cervello , impari a conoscerli e addirittura a riconoscerli per i loro comportamenti, senza che Hemingway ti debba ogni volta ricordare di chi stati leggendo. Ogni personaggio e ben descritto e caratterizzato con originalità, ma è proprio questa descrizione ossessiva che ti porta in varie occasioni quasi a dire, “basta lo lascio li “. Ma sarebbe un errore, perché il finale è intenso e coinvolgente come pochi ed è strettamente legato, ad doppio filo all’affetto che solo Hemingway, con le sue descrizioni minuziose, fa in modo che ti leghi ai membri della banda di Pablo!
Pablo:sordido individuo, crudele e infantile, controverso capo banda.
Pilar la donna del capo : Zingara idealista, un po’ la puttana dal cuore d’oro, dal carattere duro.
Anselmo: il vecchio idealista pronto al sacrificio per la causa, umiltà e saggezza.
Lo zingaro: Indolente e pigro rivoluzionario bandito.
L’ingèls : Specializzato in esplosivi, specchio della dualità del uomo, i giorni che precedono la missione lo porteranno a rivalutare la sua posizione al interno del mondo e della guerra.
Maria è come la spagna di quegli anni, stuprata, torturata e afflitta, giovane e inesperta, difesa da un gruppo di banditi vestiti da rivoluzionari.
Questi sono solo alcuni degli splendidi personaggi che si stagliano all’orizzonte di questo corposo romanzo.
Lo stile è schietto, essenziale, i dialoghi fulminei, coerenti, concreti. le descrizioni dei paesaggi precise dettagliate ti trasportano sulle montagne dove l’odore di aghi di pino, di resina e di vino stantio e sudore di cavalli fanno da cornice allo svolgersi della vicenda .
In conclusione un romanzo affascinante e intenso che però,spesso, ha messo a dura prova la mia pazienza, Un romanzo che è come una montagna, solo quando sei in vetta trovi la giustificazione alla fatica fatta per giungerci …
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La guerra, tragica e sporca avventura
Il libro, allegato ad un settimanale, era dimenticato in uno scaffale da anni. Ogni tanto gli lanciavo un'occhiata distratta, ma il titolo mi sembrava un po' melenso, perciò lo ignoravo. Le recensioni scritte su questo portale mi hanno incuriosito e ho deciso di leggerlo.
E' un romanzo denso, con personaggi forti e ben delineati, che si muovono sullo sfondo della guerra civile spagnola. La guerra, tragica e sporca avventura, la Spagna, paese generoso e sanguinario, fascisti e repubblicani, avversari che si macchiano di delitti efferati: tutto viene racchiuso e raccontato da Hemingway nello spazio di tre giorni, giorni che si dilatano perché vissuti intensamente dal protagonista, il volontario americano Robert Jordan, “l'Inglés”.
Gli ordini sono quelli di far saltare un ponte, e l'appoggio dei guerilleros locali, accampati in una caverna, è di fondamentale importanza per la riuscita di un piano che si rivelerà sempre più difficile, se non disperato. Nella caverna, tra stufati e tazze di vino, in un'atmosfera un po' da Far West, dove è sempre consigliabile tenere un'arma a portata di mano, l'americano trova l'amore della sua vita, qualche alleato fidato e qualche canaglia.
Ci sono pagine che non si dimenticano, come la sfilata di civili fascisti, o presunti tali, dati in pasto ad una folla inferocita che li massacra a bastonate (sembra davvero di sentire l'odore nauseante di sangue e sudore). La curiosità che suscita il racconto della vicenda nell'americano, che vorrebbe “scrivere quello che abbiamo fatto noi, non quello che gli altri ci hanno fatto”, è probabilmente la stessa dell'autore, che non vuole dimenticare l'importanza della pietà verso qualunque essere umano.
“Qué puta es la guerra”, ripetono da entrambe le parti, ma con un pensiero di fondo: uccidere è necessario per la causa e solo i codardi si sottraggono al loro dovere.
“Morire era niente e El Sordo non aveva dentro di sé una visione chiara della morte né la temeva. Ma vivere era l'immagine di un campo di grano che ondeggia al vento sul fianco di una collina. Vivere era un falco nel cielo. Vivere era una giarra di terra piena d'acqua nella polvere della trebbiatura, col grano lanciato in aria e la pula che vola. Vivere era un cavallo tra le cosce e un fucile sotto una gamba e una collina e una valle e un fiume fiancheggiato d'alberi sulle rive, e l'estremo della valle e le colline al di là”. Pensieri di un combattente repubblicano accerchiato da soldati fascisti, estremo e toccante inno alla vita.
L'idea della morte e la necessità di combattere, resistere, amare finchè si resta in vita percorre l'intero romanzo, e le pagine finali trasmettono l'ansia che precede il combattimento. Si sta dalla parte di personaggi divenuti ormai familiari e di cui conosciamo le aspirazioni più profonde, ma a qualcuno toccherà soccombere.
Emozionante osservare con gli occhi di uno di loro il sorgere dell'alba e sentire gli ultimi battiti del suo cuore.
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Boring!
A volte capita che neanche lo stile di un grande scrittore faccia resuscitare un libro che può essere descritto con una sola, esplicita, parola: noioso.
Sarà che la guerra civile spagnola non è il mio argomento preferito ma spesso mi sono ritrovata con la testa tra le nuvole piuttosto che continuare a leggere questo libro.
Consigliato solo a chi soffre di insonnia.
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L'ingles
Questo è un libro che ci racconta la tragicità della guerra di Spagna vista dai protagonisti.
Un romanzo che narra la violenza, la passione di un amore, la risolutezza del voler terminare il proprio incarico anche quando si è capito con non sarà decisivo come si pensava, il tradimento, l’opportunismo, la lealtà ma soprattutto di uomini disposti a morire per un ideale.
I personaggi sono descritti in maniera magistrale come pure i sentimenti.
L’introspezione dei personaggi, che a tratti può risultare un pochino noiosa, ci porta a riflettere molto.
Sappiate che la storia si svolge in tre giorni ed Hemingway utilizza 500 pagine per narrarvela, quindi non aspettatevi un libro d’azione.
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si è fermato il tempo
Durante la lettura di questo libro si è fermato il tempo intorno a me.. mi pareva proprio d'essere anch'io sul ponte.. i personaggi sono pieni di impeto e sentimenti da far partecipare il lettore alla vicenda.. la storia d'amore è a tratti irreale e a tratti concretissima.. ma c'è un enorme PERO'... il romanzo è di una lentezza disarmante!! posso capire tutte le elucubrazioni e i conflitti interiori dei personaggi, ma la narrazione invita proprio a desiderare che il famigerato ponte salti e non se ne parli più!! Si è fermato il tempo perché il tempo del racconto è fermo, congelato, la vicenda va avanti ma si ha la sensazione di essere sempre là, sempre bloccati, chiusi in una confusione di sensazioni. Non voglio criticare l'autore perché ignoro quale fosse il suo scopo e ignoro quale sia il suo stile negli altri suoi romanzi, ma a questo punto credo semplicemente che Hemingway non faccia per me...