Patria
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Una perdita violenta
Ho letto recensioni entusiaste di un romanzo definito d’autore e le mie aspettative erano indubbiamente molto alte. Personalmente però vado controcorrente, perchè l’ho trovato estremamente, ed inutilmente, lungo e, nonostante questo, ho trovato carente il contesto storico, che poteva essere un cuore pulsante della narrazione, visto che le vicende ne sono fortemente determinate. Non ci ho visto quel mordente che cattura l’attenzione del lettore, né quella specie di attrazione che mi aspettavo. C’è tanta psicologia, questo sì, per descrivere il prima ed il dopo di una perdita violenta. Ma mi aspettavo un’intensità emotiva maggiore.
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Complesso e distinto!
Un libro complesso che rende giustizia ad un pezzo della storia contemporanea: la lotta dell'ETA nei paesi baschi spagnoli. Struttura molto complessa, ricca di flashback, di intrecci, sebbene la fabula sia piuttosto scontata. Forse non potrebbe essere diversamente. Ma il valore del testo è richiamato nello stesso titolo ovverosia la volontà di comunicare l'orrore della guerra civile vissuta nella quotidianità di due famiglie, un tempo molto vicine. La voce narrante, spesso cangiante e mutevole, stabilisce un filo diretto col lettore per portarlo nelle emozioni provocate dalla guerra, dalla barbarie. Che provoca subito la morte e dopo, lentamente, distanza, solitudini, inquietudini, rotture. Perché non esiste una guerra buona e, forse, non esiste una guerra giusta ma certamente, ogni guerra, lacera. E questo è il senso del libro.
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IL COSTO DEGLI IDEALI
“Il giorno in cui ammazzarono il Txato pioveva. Giorno feriale, grigio, di quelli che sembrano continuare ad allungarsi, in cui tutto è lento, bagnato e la mattina è uguale al pomeriggio. Un giorno normale, con la cima dei monti che circondano il paese coperta dalle nubi. (…)Il Txato non sapeva, come poteva saperlo?, che vedeva oggetti, sbrigava faccende, aveva pensieri per l’ultima volta. Per lui fu l’ultima alba. E per l’ultima volta svolse delle azioni quotidiane. Prese/toccò/guardò cose nel corso dell’ultima mattina della sua vita”.
Il romanzo in lingua spagnola più importante degli ultimi decenni. Patria è un’opera poderosa, notevole sia per il contenuto sia per lo stile. Poco più di 700 pagine, dove la narrazione prosegue per piani temporali che si intersecano e si sovrappongono richiedendo al lettore, soprattutto all’inizio, la massima attenzione.
Il romanzo è ambientato in terra basca, da cui proviene lo stesso Aramburu. L’inizio in medias res, i nomi insoliti dei personaggi, cui non siamo abituati se non conosciamo la cultura basca, sono le difficoltà cui va incontro chi si accinge a leggere il romanzo, insieme al fatto che la storia prosegue su piani temporali diversi: si va avanti e poi si va indietro, poi di nuovo avanti…
Come nei grandi capolavori ad acquerello dove altri dettagli si aggiungono dopo che la prima passata di colore si è asciugata. Verso la fine tutti tasselli tornano e viene fuori un diamante perfetto, il cui prismatico vertice corrisponde all’omicidio del Txato. Questa scena torna più volte nel romanzo: una volta vista dall’io narrante, un’altra volta dal Txato stesso, un’altra ancora da uno dei terroristi. Un libro che cattura per la storia delle due famiglie protagoniste, per i forti personaggi femminili, in particolare le due matriarche Bittori e Miren, per il travaglio dostoevskiano del terrorista Joxe Mari una volta in cella.
Patria è la storia di due famiglie divise e distrutte dall’ETA e dalle vicissitudini della vita, due famiglie amiche, divise da ideali diversi. La famiglia del Txato, piccolo imprenditore nel settore dei trasporti, sposato con Bittori, ucciso dall’ETA, perché aveva smesso di pagare “il contributo volontario” all’organizzazione. La moglie continuerà a parlare con lui seduta sulla sua tomba e, in questa corrispondenza di amorosi sensi, racconterà a lui e a noi dei figli, di Nerea e di Xavier, ciascuno infelice a suo modo.
Patria è la storia della famiglia di Joxian, legata da anni a quella del Txato, composta dal modesto e umile capofamiglia, sua moglie Miren e i tre figli: Aranxa, costretta a quarantaquattro anni sulla sedia rotelle e al silenzio in seguito ad un ictus, Joxe Mari, il prediletto dalla madre, il terrorista che finisce a vent’anni in cella per tutta la vita, e Gorka, il mite e saggio figlio omosessuale.
In questa rosa dove i petali disposti concentrici e a raggiera sono le storie dei vari personaggi, il lettore conoscerà da vicino le sofferenze e i travagli di ognuno, dall’adolescenza all’età matura, ciascuno con le sue ferite, i suoi sogni infranti. I personaggi più forti sono indubbiamente le donne: anche le figlie, Nerea e Aranxa, entrambe con un matrimonio fallito alle spalle, contribuiscono con le loro storie personali alla ricchezza non soltanto “emotiva” del romanzo.
In un intenso dialogo dopo anni di separazione, l’una dirà all’altra:
“Ci sforziamo di dare un senso, una forma, un ordine alla vita, e alla fine la vita fa di noi quello che le va”.
Dinamica la figura del terrorista Joxe Mari, amato ed idolatrato dalla madre, perché eroe della lotta armata e dell’ideale aberzale (patriottico basco) di liberazione: il giovane in cella sconta la propria vita e brucia la propria giovinezza.
“Ti chiedi: ne è valsa la pena? E per tutta risposta uno si ritrova con il silenzio di questi muri, la faccia sempre più vecchia nello specchio, la finestra con il suo pezzettino di cielo che gli ricorda che ci sono vita e uccelli e colori là fuori, per gli altri”.
Unica salvezza sarebbe chiedere perdono a Bittori e alla famiglia del Txato, ma:
Constatò: chiedere perdono richiede più coraggio che sparare, che azionare una bomba. Quelle sono cose che possono fare tutti. Basta essere giovane, ingenuo e avere il sangue caldo. E non era soltanto che ci volevano due palle così per riparare sinceramente, anche se soltanto a parole, alle atrocità commesse.
A completamento dell’opera lo scrittore ha inserito un Glossario dei termini baschi utilizzati nel romanzo.
Patria è il romanzo che parla di vittime, le vittime dell’ETA: uccisi e uccisori, indifferentemente. Tutti i personaggi suscitano empatia nel lettore, con tutti i loro pregi e i loro difetti.
“«L’ETA deve agire senza fermarsi mai. Non ha altra scelta. È da tempo che è caduta nell’automatismo dell’attività cieca. Se non fa danni, non è, non esiste, non svolge nessuna funzione. Questo modo di funzionare mafioso è al di sopra della volontà dei suoi componenti. Nemmeno i suoi capi si possono sottrarre. Sì, va bene, prendono decisioni, ma è solo apparenza. Non possono comunque evitare di prenderle perché la macchina del terrore, una volta che ha preso velocità, non si può fermare”.
Patria ha vinto il Premio Strega europeo 2018 e il Premio Tomasi di Lampedusa. E’ quel libro che non vorresti mai terminare di leggere, è il libro che, concluso, ti manca.
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Vite buttate via
“ – Ho scritto anche contro il delitto perpetrato con un pretesto politico, in nome di una patria dove una manciata di persone armate, con il vergognoso sostegno di un settore della società, decide chi appartenga a quella patria e chi debba lasciarla o scomparire. […]
- Ho cercato di evitare i due pericoli che ritengo più gravi in questo tipo di letteratura: i toni patetici, sentimentalistici, da un lato; dall’altro, la tentazione di fermare il racconto per prendere in maniera esplicita una posizione politica. Per farlo, secondo me, ci sono le interviste, gli articoli o i dibattiti come questo.- […]
- Ho voluto rispondere a domande concrete. Come si vive intimamente la disgrazia di aver perso un padre, un marito, un fratello in un attentato? Come affrontano la vita, dopo un delitto dell’ETA, la vedova, l’orfano, il mutilato?”
Xabier, figlio di una vittima dell’ETA, si ritrova ad assistere alla presentazione di un libro durante le Giornate sulle Vittime del Terrorismo e sulla Violenza terrorista a San Sebastiàn. Sta parlando uno scrittore; difficile non cogliere nelle sue parole le parole che userebbe lo stesso Aramburu per presentare il suo celebrato romanzo “Patria”.
“Patria” è senza dubbio un’opera costruita con queste motivazioni di fondo: non si tratta di un testo di approfondimento sull’ETA, ma di un romanzo che getta luce sulla vita quotidiana delle persone che hanno preso parte, volenti o nolenti, all’attuazione dell’uso della violenza a sostegno di una causa ideologica.
Attraverso una narrazione fatta di frasi e capitoli brevi e concisi, che alternano il punto di vista di vari personaggi appartenenti a due famiglie di origini basche, nell’arco temporale che va all’incirca dagli anni Ottanta del Novecento al 2010/11, l’autore ci racconta una vicenda che è profondamente radicata nel territorio basco ma che potrebbe interessare anche altre realtà, tutti quei luoghi in cui sono state fatte delle scelte di usare la violenza per motivazioni politiche.
Il lungo romanzo di Aramburu, in grado di mantenere sempre alta l’attenzione e il coinvolgimento del lettore grazie all’uso sapiente dell’alternarsi dei piani temporali e della scelta stilistica di usare un linguaggio immediato e fortemente espressivo, sembra accompagnarci proprio in questo tipo di riflessione: cosa può provocare un atto così inumano ed estremo come quello di scegliere deliberatamente di assassinare delle persone? L’atto è giustificato da motivazioni ideologiche ma questo cambia qualcosa in quella vita stroncata? E in quella dei suoi familiari? In fondo, anche gli assassini sono in primo luogo delle persone, degli esseri umani, magari arrivati a un atto tanto estremo per ragioni abbastanza banali, spinti da impulsività, ignoranza, immaturità. E le vittime? Come si presenta la storia personale e familiare di un uomo assassinato in nome di un teorico ideale?
In “Patria” possiamo leggere, grazie alla letteratura, una storia possibile in risposta a questi interrogativi. Una vicenda coinvolgente, che racconta come la quotidianità di due famiglie, inizialmente legate da una forte amicizia, sia stata sconvolta per sempre dal fatto tragico che un componente di una di queste famiglie viene ucciso dall’ETA, mentre nell’altra famiglia uno dei componenti è entrato da tempo a far parte della stessa organizzazione terroristica. La storia e la lotta armata entrano nelle vite dei protagonisti e noi li seguiamo nella tensione, nel dolore e nella ricerca del perdono e della pace.
Sicuramente un ottimo romanzo, che ha meritato il successo ottenuto. Da leggere.
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PATRIE E PERSONE
“Tutti i bei ricordi le si presentarono di colpo […] come quelle foglie con una faccia di un colore e l’altra di un altro, una di un verde brillante, piacevole a vedersi, l’altra di un verde più pallido che era il verde della colpa e dei rimorsi. Si guardava le mani e si pentiva di essere stata giovane; o peggio, di essere stata felice.”
“Patria” di Fernando Aramburu è stato uno dei più grandi e inaspettati successi della narrativa europea del XXI secolo. Mi è parso interessante verificare, a distanza di quattro anni dalla sua pubblicazione, se i motivi che hanno portato il romanzo a ricevere il plauso quasi unanime del pubblico internazionale (spesso appannaggio esclusivo della letteratura più commerciale) fossero suffragati da valide ragioni di natura più prettamente artistica. La prima cosa che mi viene da dire è che “Patria” è un’opera innestata in una realtà molto circoscritta (un piccolo paese basco dove gli abitanti esprimono con fierezza ambizioni indipendentistiche, dove tutti parlano la lingua “euskera” al posto del castigliano, dove imperversa la lotta armata dell’ETA contro uomini e istituzioni dello Stato spagnolo), ma che ha risonanze tali da poter essere considerato un libro praticamente universale. Il lettore italiano, nello scorrere le vicende delle due famiglie del Txato e di Joxian, dapprima amiche per la pelle e poi irreparabilmente divise dalle sanguinose ferite inferte dal terrorismo basco, può riandare con la mente agli anni di piombo, quello britannico al periodo della guerra dell’IRA, e tutti probabilmente pensare a quanto il conflitto dell’ETA contro lo Stato spagnolo assomigli all’Intifada palestinese. “Patria” tocca perciò corde ampiamente condivisibili dalla vasta platea dei suoi lettori. In più lo fa con una struttura narrativa molto originale, partendo cioè da un punto della storia dove quasi tutto (l’omicidio del Txato, l’arresto di Joxe Mari) è già avvenuto e andando avanti e indietro nel tempo per ricostruirla in maniera per così dire a-cronologica, seguendo, nel corso di brevi e concisi capitoli, le vicissitudini alternate dei suoi sette personaggi. “Patria” diventa così un complesso libro sul tempo e sulla memoria, dove il film dei ricordi si dipana rapsodicamente in scene che sono “frammenti di vetro come una bottiglia caduta a terra. E in ogni coccio, un ricordo, un episodio, le ombre e le figure disperse del passato”. Il passato viene evocato a partire da fatti insignificanti (il riflesso della luce mattutina sulla bicicletta del marito per Miren, il rosso del sangue di un prelievo per Xabier, con l’effetto di far riaffiorare rispettivamente il confronto violento con il figlio nella cucina di casa per la prima e l’avvertimento di correre subito a casa perché era accaduto qualcosa di grave a suo padre per il secondo), come a sancire che certi ricordi rimangono inesorabilmente “a risuonare dentro in un presente interminabile, bruscamente congedato dal fluire del tempo”. Pur essendo un romanzo apparentemente ondivago, “Patria” ruota ossessivamente, compulsivamente, intorno a un nucleo centrale, che è l’omicidio del Txato, come se quell’avvenimento avesse cristallizzato tutto, bloccandolo in un eterno presente, da cui, come in sortilegio maligno, è impossibile liberarsi. Si può dire addirittura, con le parole di Xabier (“Ho finito l’università sette mesi prima di, ho partecipato a quel congresso a Monaco nove anni dopo che”), che tutti gli avvenimenti sono accaduti a una determinata distanza di tempo dall’assassinio del padre, il quale diventa perciò un fatidico spartiacque, proprio come la nascita di Cristo rispetto agli avvenimenti storici. Anche gli altri personaggi del romanzo, attraverso i loro ricordi, riflettono incessantemente le ripercussioni di un tragico accadimento che ha cambiato la vita di tutti, una volta per sempre, come un terremoto che ha distrutto case e scavato voragini. La difficoltà di elaborare il lutto (anzi, i lutti, perché l’arresto di Joxe Mari pareggia in un certo senso la morte del Txato), di riconciliarsi con il passato (Nerea rinfaccia al fratello: «Siete emotivamente bloccati. Tu e l’ama siete in un buco di pena e di rancore e di malinconia dal quale non potete uscire e da cui non so se volete uscire»), di sbrogliare l’ingarbugliata matassa dei rancori reciproci (ognuno si sente in qualche modo vittima, anche la madre del terrorista, che afferma: «Siamo vittime dello Stato e adesso siamo vittime delle vittime»), rinchiude la vicenda in un circolo vizioso, in cui le emozioni, i sentimenti, i sogni e le speranze sono condannati a implodere e a non riuscire a trovare uno sfogo, una via di uscita. Come in una faida, le due famiglie (una volta amiche, e ora ognuna dalla parte opposta di una invisibile barricata eretta da assurde e aprioristiche ideologie di cui non si riesce mai ad afferrare pienamente la logica) sono costrette a vivere in uno stato bloccato di odi e di recriminazioni, diventando i simboli di tutti quei conflitti storico-politici-sociali che negli ultimi decenni hanno contrassegnato, con la loro irriducibilità, la storia del mondo contemporaneo, lasciandosi alle spalle innumerevoli sofferenze e sventure. L’assassinio del Txato diventa così un simbolico buco nero in cui non solo collassano le sorti delle due famiglie protagoniste, ma precipita anche la coscienza dell’intera collettività. E’ solo l’intervento coraggioso di chi non ha più nulla da perdere (e che è quindi capace di ragionare non per partito preso, non con pregiudizi e opinioni prefabbricate, ma seguendo la semplice forza dei sentimenti), e cioè una donna costretta sulla sedia a rotelle da un ictus e capace di parlare solo per mezzo di un iPad, una madre malata terminale di cancro e conscia di avere pochi giorni da vivere e un terrorista condannato a 120 anni di carcere e in crisi di identità, a permettere di cambiare le cose e far sì che gli strappi, poco a poco, si ricuciano e le distanze, sia pure a fatica, si riducano, riportando, se non la serenità, almeno il conforto del pentimento e della riconciliazione.
Teso come un thriller (chi ha sparato al Txato?), avvincente come un romanzo storico, umanamente variegato come una saga familiare, “Patria” riesce a mantenere livelli altissimi per la gran parte delle sue pagine. Purtroppo il finale non riesce ad essere all’altezza del resto, non tanto per il suo tono buonista e consolatorio, quanto per la sua prevedibilità (gli ultimi capitoli risultano praticamente pleonastici) e per la sua ansia di volere a tutti i costi far quadrare i conti e chiudere il cerchio (come recita anche il titolo del terzultimo capitolo) della storia, quando forse avrebbe giovato una maggiore incompiutezza, quasi che volere sigillare la vicenda e suggellarla con una morale facilmente leggibile tra le righe togliesse quel pathos dovuto all’imprevedibile, all’ingovernabile e all’indeterminato. E’ un po’ come quando ci si accinge a fare un puzzle, consapevoli che il fascino del passatempo consiste nel vedere comporsi dal nulla, poco a poco e a fatica, il disegno complessivo, mentre gli ultimi pezzi mancanti scorrono via in maniera quasi automatica, senza alcuno sforzo gratificante. Nonostante questa riserva, Aramburu dimostra di possedere quella equanimità, quella obiettività, quella capacità di mantenere la distanza emotiva dagli scottanti fatti narrati, che solo i grandi autori hanno (un solo, significativo, esempio: il Vasilij Grossman di “Vita e destino”). Inoltre lo scrittore spagnolo, pur sapendo perfettamente calarsi nel clima storico, non perde mai di vista i suoi personaggi, ritratti affettuosamente nelle loro normali occupazioni, con i loro tic, i loro difetti e le loro idiosincrasie. Il climax drammatico viene così stemperato di frequente da momenti più leggeri, soprattutto nella rappresentazione della vita domestica delle due famiglie (i battibecchi tra Bittori e il Taxto o tra Miren e Joxian sono impagabili), determinando quella alternanza tra tragedia e commedia che da sempre (penso ad esempio a Shakespeare) caratterizza tutti gli autentici capolavori. Lo stile di Aramburu è semplice e scorrevole, teso a riprodurre un tono il più possibile prosaico e colloquiale (cosa che gli si fa perdonare espressioni altrimenti orribili del tipo “Nerea era innamorata dalla testa ai piedi e ritorno”). Da questo proposito derivano alcuni inconfondibili vezzi stilistici, come l’alternanza, persino nella stessa frase, della terza e della prima persona (“Bittori, gli occhi asciutti, perché io d’ora in avanti non piangerò nemmeno se me li sfregano con la cipolla, pensò che la prossima volta che entrerà luce in questo buco sarà quando seppelliranno me”), la preoccupazione di definire in maniera psicologicamente precisa una sensazione o una situazione, usando prima un aggettivo e subito dopo – in forma dubitativa, con il punto interrogativo – un secondo aggettivo (“D’altra parte le era difficile, impossibile?, cancellare otto anni di ricordi dolorosi”), oppure accostando due aggettivi divisi tra loro da una barra obliqua (“Il timore… era là, dentro di lei come dolore sordo/vago ma non per quello meno bruciante”), l’abitudine di usare all’interno di una frase una domanda (“A Bittori non era sfuggito un gesto dell’ospite. Quale? Be’, che credendo che nessuno la vedesse, …”), l’uso di piccole ellissi nei discorsi indiretti (“Stava perdendo la pazienza, alzava la voce, gli disse che e lo minacciò di”), ecc. C’è in “Patria” una naïveté, una immediatezza stilistica, che non deve trarre in inganno, dal momento che dietro ad essa è facile intuire una profonda consapevolezza da parte dell’autore dei propri mezzi espressivi. Di “Patria” si conserva al termine della lettura una impressione molto vivida: personaggi fieri, severi, eppure teneri dietro al loro costante cipiglio, come Miren e Bittori, oppure ripiegati in un autodistruttivo dolore, come Xabier (che ritiene “indegno cercare di strappare alla vita pezzi di felicità” dopo la morte del padre, provando “una specie di repulsione nei confronti dell’allegria”), non si dimenticano facilmente, così come incisa profondamente nelle pagine appare l’umanistica convinzione dell’autore che nessuna causa, per quanto importante e giusta, nessuna guerra, per quanto santa (e Aramburu si guarda bene dall’entrare nel merito delle rivendicazioni dell’indipendentismo basco o delle ragioni della repressione dello Stato spagnolo), può far dimenticare le sofferenze e le ingiustizie patite dai singoli individui, e che assai più che le patrie (labili concetti dietro a cui spesso si nascondono interessi ben poco nobili) a contare sono alla fin fine, soprattutto, le persone.
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Il fanatismo patriottico genera mostri
Gran bel libro.
Assolutamente da leggere se si è interessati alle belle storie con uno sfondo storico molto ben ricostrutio. Questa è un'opera dove Aramburu ha messo molto di lui, della sua vita e delle sue esperienze passate dove si capisce che quello che si legge in molti aspetti è proprio vita vissuta dall'autore.
Un libro che ripercorre gli ultimi anni della lotta dell'ETA e che ne affronta da un punto di vista privilegiato le varie vicissitudini delle famiglie coinvolte. Bello, straziante, commovente e duro. Un libro che merita davvero tutto quello di buono che si dice.
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Il pentimento e il perdono
Le ambizioni di indipendenza di un popolo che si scontrano con i concetti di unità nazionale e di ordine costituito, la violenza di chi crede di poter raggiungere i suoi obiettivi politici versando sangue e quella di uno Stato centrale che fa fronte al terrorismo con altra violenza, con torture, con una feroce repressione. Ma anche l'idea di famiglia come fulcro dell'esistenza umana, nel bene e nel male, sia che la si veda come rifugio, appoggio, luogo di comprensione, sia come prigione dalla quale scappare senza però poter dimenticare il sangue, i legami, gli affetti. Siamo nella provincia basca di San Sebastian e conosciamo due nuclei familiari legati da una profonda amicizia. I capi famiglia sono Txato, imprenditore nel campo dei trasporti, e Joxian, operaio in una fonderia, accomunati dalla passione per il ciclismo, per le carte e per il vino. Le rispettive mogli, Bittori e Miren, sono inseparabili. I figli, Xabier e Nerea da una parte, Arantxa, Joxe Mari e Gorka dall'altra, crescono insieme come se fossero figli degli stessi genitori. Le loro vite sembrano scorrere tranquille, ma il Txato comincia a ricevere dall'ETA continue minacce e richieste di estorsione. Dall'altra parte Joxe Mari si avvicina sempre più all'organizzazione terroristica indipendentista. Inevitabilmente la situazione tra le due famiglie si fa pesante e anni di amicizia, affetti e condivisione vengono messi da parte. La violenza entra nelle loro esistenze, rende ciechi, non fa più distinzione tra amici e nemici, tra nazionalisti e indipendentisti, e anche chi si è sempre tenuto alla larga da questi giochi politici, anche chi ha sangue basco nelle vene e parla Euskara, può morire come un traditore. Una lunga epopea famigliare che racconta spaccati di storia recente troppo spesso taciuta, con uno stile semplice ma incalzante, con una forte caratterizzazione dei personaggi che permette una buona introspezione, con il distacco del semplice cronista che non dà giudizi ma si limita a raccontare, proponendo però la visione dello stesso evento da più prospettive. Questo, se da un lato porta ad un lieve eccesso di ripetizioni, dall'altro permette di immedesimarsi sia nelle vittime, sia nei carnefici, sia in chi si limita a osservare passivamente gli eventi. Fernando Aramburu, pur restando una neutrale voce narrante, non risparmia stilettate a nessuno. Al terrorismo, seminatore di sangue e di odio, alle forze dell'ordine, violente, arroganti, torturatrici, alle istituzioni religiose, troppo spesso in silenziosa combutta con gli uni o con gli altri, comunque lontane dal loro vero scopo. Agli stessi genitori, troppo impegnati in altro per accorgersi delle cattive pieghe che prendono i figli. All'ignoranza, alla mancanza di cultura, terreno fin troppo fertile per fare attecchire negli animi delle persone il seme dell'avversione, della ferocia, del conflitto. Ma Patria è anche qualcosa in più. È anche ironia, è Bittori che disquisisce con le stoviglie o Miren che redarguisce Sant'Ignazio come farebbe con suo figlio. È anche amore, con le storie tormentate di Nerea, Xabier e Arantxa. È salvezza, quella di Gorka, raggiunta attraverso la cultura. Soprattutto, Patria, è la celebrazione di due sentimenti che per l'essere umano sono sempre stati e continuano ad essere tra i più difficili da provare e da esternare: il pentimento ed il perdono. "Però un uomo può essere una nave. Un uomo può essere una nave con lo scafo d’acciaio. Poi passano gli anni e si formano delle incrinature. Di lì passa l’acqua della nostalgia, contaminata di solitudine, e l’acqua della consapevolezza di essersi sbagliato e di non poter rimediare all’errore, e quell’acqua che corrode tanto, quella del pentimento che si sente e non si dice per paura, per vergogna, per non fare brutta figura con i compagni. E così l’uomo, ormai nave incrinata, andrà a picco da un momento all’altro".
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Spaccati di vita e di storia
È proprio vero, la vita è semplicemente imprevedibile. È capace di sorprenderci con la sua innata capacità di rompere gli equilibri e al contempo ricostruirne di nuovi, con la facilità con cui i legami possono essere distrutti, con la sua unica tragicità. Protagoniste di questi sconvolgimenti sono due famiglie basche, due nuclei legati da un profondo rapporto di amicizia che vengono a trovarsi su fronti politici opposti come risultato di quelle piccole crepe e quei drammi che anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno, si sono insinuati nelle rispettive esistenze. Fino al culmine di quell’avvenimento, quello che con il suo manifestarsi scava un solco profondo e incolmabile. Perché quel che accade alle famiglie di Joxian e del Txato, a seguito dell’omicidio di quest’ultimo a opera dell’ETA in cui milita niente meno che Joxe Mari, il figlio di Joxian e Miren, è un qualcosa a cui non può trovarsi giustificazione o motivazione alcuna. È un qualcosa che non tocca soltanto chi in quell’attentato perde la propria vita ma anche e soprattutto chi sopravvive che deve imparare a convivere con una perdita ingiusta, che deve imparare a convivere con le voci, con i nomignoli, con le colpe di altri, con quella macchia. Perché è chi resta che deve convivere con quel silenzio più rumoroso di mille campane e che deve lottare contro la memoria che scorre, che si perde, che focalizza l’attenzione sull’uno che è vittima ma non anche su chi attorno a quest’ultimo viveva.
Senza pregiudizio, senza giudizio Fernando Arambaru ricostruisce una delle pagine più difficili della storia del popolo basco e vi riesce con grande maestria grazie ad uno stile narrativo asciutto ma dettagliato, un alternarsi di voci narranti che invitano il lettore a vestire i panni di ciascun protagonista, un connubio di emozioni e sentimenti che proprio grazie a questo avvicendarsi suscitano l’empatia, la riflessione, la voglia di andare avanti sino a scoprire di una realtà mai scontata (né tantomeno semplice) dove fatti, avvenimenti, vite si intrecciano e trasformano tra amore e lotta, tra il sangue versato e il dopo.
In particolare, sono Bittori e Miren a rendere palpabile il dolore. Loro, che sono mogli, madri, donne forti e risolute, sono anche coloro che quel retrogusto amaro della tragedia lo portano dentro senza mai potersi permettere di cedere. A loro, semplicemente, non è consentito di spezzarsi. A queste due figure primarie che dalla tragedia trovano la forza di andare avanti, si contrappone la dimensione dei figli. In particolare l’attenzione si focalizza sul ruolo di Arantxa che a seguito dell’ictus che la costringe alla sedia a rotelle privandola della possibilità di poter proferire parola e con la parte sinistra del corpo completamente paralizzata, non rinuncia al suo senso di umanità e alla sua voglia di vivere. Con coraggio e forza di volontà, perché l’odio non è la soluzione e chiedere perdono per gli errori commessi non è mai facile.
Questo e molto altro è “Patria”. Un libro che è una testimonianza, una memoria storica, un invito. Un elaborato, ancora, che chiede tempo per essere assimilato e che una volta concluso si fatica a dimenticare. Lo dimostra il fatto che, seppur abbia portato a termine la prima lettura nel maggio del 2018, ancora oggi vi torno con la mente per coglierne nuove e diversificate sfumature. Non stupisce inoltre che, le successive opere dello scrittore, risultino inevitabilmente minori a questa, poiché semplicemente incomparabili.
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Delitto, castigo, perdono
Questo romanzo esce in Italia proprio quando l'ETA si scioglie definitivamente, dopo decenni di terrore che conta più di ottocento morti e tra questi, più di trecento civili. Certamente, quando i media ci restituiscono le immagini e le storie del terrorismo, ci si sofferma troppo poco sull'effetto che questi assassinii provocano sulle famiglie delle vittime. In questo romanzo, Aramburu esplora il terreno fragile, scivoloso e incerto di chi ha subito il danno e di chi lo ha inferto. Ma che succede quando i protagonisti del racconto vivono nella stessa comunità, per di più legati da profonda amicizia? È questo che racconta lo scrittore, riuscendo a far impallidire qualsiasi motivazione politica davanti alla potenza dei personaggi, delle donne in particolare, mogli e sorelle delle vittime. Un racconto dettagliato che non può non farci pensare al nostro paese, -con le dovute differenze storiche- e della "nostra" lotta armata. Racconta come giovani menti vengono requisite dall'organizzazione, soprattutto se prive di senso critico, è meraviglioso il confronto tra i due giovani fratelli, Joxe Marì e Gorka, uno vittima della propria ignoranza, facilmente manipolabile, l'altro poeta, appassionato lettore e per questo sbeffeggiato. Meravigliosa la figura di Bittori,
che non può darsi pace, e dei suoi dialoghi sulla tomba del marito assassinato.
Altra nota affascinante, è che l'autore si serve di una forma di scrittura audace, diretta, popolare. Ogni tanto ci si chiede: ehi! sta parlando proprio a me!
C'è un bellissimo andamento circolare nel romanzo, se dovessi rappresentarlo graficamente, sarebbe il cerchio Zen, simbolo dell'illuminazione, della forza, dell'universo. Quell'universo mondo che non ha bisogno di sparare o di vendetta, ma più semplicemente desidera una richiesta di perdono come riparazione all'ingiustizia subita. È così determinata Bittori, da chiuderlo quel cerchio, in un finale sottotono e potente che lascia il il groppo in gola.
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La difficoltà di essere vittime.
“Chiedere perdono richiede più coraggio che sparare, che azionare una bomba. Quelle sono cose che possono fare tutti. Basta essere giovane, ingenuo e avere il sangue caldo.”
Si, chiedere perdono non è facile, specialmente quando si raggiunge, dopo lunga riflessione, la consapevolezza di avere commesso tragici errori, di aver procurato dolore immenso ad altri, di averne tragicamente mutato le sorti e le prospettive di vita.
Nel suo bellissimo romanzo “Patria” Fernando Aramburu descrive il dramma che sconvolge la vita di due famiglie basche, legate da profondi sentimenti di amicizia, che si trovano improvvisamente schierate politicamente su fronti opposti. Non c’è nulla che possa dividere o unire più della passione politica e trovarsi su campi avversi può significare distruggere anni di concordia, di affetto reciproco, di leale confidenza. È quanto accade alle famiglie di Joxian e del Txato, all’indomani dell’assassinio di quest’ultimo a opera dell’ETA, nelle cui fila milita Joxe Mari, figlio di Joxian e Miren. Di solito ciò che più colpisce in un attentato terroristico è l’efferatezza del crimine, la morte delle vittime colpite, ma poco ci si sofferma sulla sofferenza delle vittime sopravvissute, su come la loro vita cambi, sconvolta da una vicenda così tragica. Sui familiari superstiti, poco si dice o quanto meno se ne parla brevemente e superficialmente. Ma il terrorismo è un atto che di per sé si estende ad un più vasto numero di persone e non è solo mirato a generare paura nella popolazione innocente, è una azione portata avanti con un pretesto ideologico esasperato e male interpretato che trova il sostegno di una parte contro un’altra e travolge soprattutto i familiari, vittime silenti. Quale sarà la vita degli orfani, delle vedove, dei padri?
Aramburu scrive con equilibrio e pacatezza, denunciando, attraverso i suoi personaggi, l’inganno di ideologie che diffondono l’odio e combattono con la violenza, eppure non risparmia pagine che denunciano le vergognose torture alle quali lo stato democratico sottopone i sospetti.
Splendide le figure femminili di questo romanzo, da Bittori a Miren a Arantxa a Nerea. Figure dal carattere deciso, volitive, pronte ad affrontare i momenti più difficili con coraggio e caparbietà , facendo dell’orgoglio un punto d’onore, dal quale non recedere mai. E nella tragicità della vicenda, i personaggi maschili mostrano più di una fragilità, da Joxian a Gorka, che trova nella poesia un rifugio che lo tenga lontano dalla violenza della vita. E Joxe Mari, il terrorista, colui il quale aveva combattuto e sbagliato per seguire un falso ideale è quello che paga con la perdita della libertà e porterà indelebili sul suo corpo i segni dei suoi errori e della abietta repressione di un regime che si dice democratico.
Un romanzo coinvolgente, che indigna e commuove, che conduce con la passione dei suoi personaggi in un mondo di esperienze memorabili.