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Nemesi

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Al centro di Nemesi c'è un animatore di campo giochi vigoroso e solerte, Bucky Cantor, lanciatore di giavellotto e sollevatore di pesi ventitreenne che si dedica anima e corpo ai suoi ragazzi e vive con frustrazione l'esclusione dal teatro bellico a fianco dei suoi contemporanei a causa di un difetto della vista. Ponendo l'accento sui dilemmi che dilaniano Cantor e sulla realtà quotidiana cui l'animatore deve far fronte quando nell'estate del 1944 la polio comincia a falcidiare anche il suo campo giochi, Roth ci guida fra le più piccole sfaccettature di ogni emozione che una simile pestilenza può far scaturire: paura, panico, rabbia, confusione, sofferenza e dolore.



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Nemesi 2018-09-13 06:00:55 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    13 Settembre, 2018
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IL PREZZO DELLA COLPA

Il canto del cigno “perfetto” di Philip Roth avrebbe ben potuto essere, nel 2006, “Everyman”, un libro “capace – citando le parole di Corrado Augias – di toccare le profondità ultime della vita e della morte”. Rileggendole, le parole di Roth riferite al destino del suo protagonista (“Non esisteva più, era stato liberato dal peso di esistere, era entrato nel nulla senza nemmeno saperlo. Proprio come aveva temuto dal principio.”) sembrano quasi profetiche al pensiero della recente morte dello scrittore americano. Invece Roth ha voluto dare il definitivo addio alla scrittura con un altro romanzo, “Nemesi”, apparentemente meno personale e autobiografico (a parte la consueta ambientazione nella città natale di Newark). Confesso di avere sempre avuto un debole per gli autori capaci di dare l’addio alle scene in bellezza, prima che il declino anagrafico si trasformasse inesorabilmente in malinconico declino artistico. Per fare un solo esempio, da genovese quale sono ho provato un grande rispetto, se non addirittura una incondizionata ammirazione, per Ivano Fossati quando ha deciso di congedarsi definitivamente dalla musica con un disco bello e profondo come “Decadancing”. E per lo stesso motivo ho gioito quando ho potuto constatare che, per fortuna, “Nemesi” è un romanzo inferiore ai suoi capolavori della fine del secolo scorso solo, forse, per numero di pagine, ma non certo per intensità e qualità di scrittura.
Il pregio di Roth per me è sempre stato quello di coniugare una estrema semplicità narrativa con una altrettanto evidente complessità tematica, tale da far sì che i personaggi dei suoi libri, con le loro singolari e spesso paradossali vicissitudini, assurgessero sempre a emblemi di una condizione umana universale. Quando racconta di Bucky Cantor, il giovane protagonista che nella torrida estate del 1944 si trova ad affrontare le tremende conseguenze di una virulenta epidemia di poliomelite che sconvolge la città di Newark, Roth fa sì l’affresco di un mondo e di un’epoca a lui familiari (dal momento che ritornano ossessivamente in molte sue opere), ma allo stesso tempo apre il romanzo a prospettive assai più ampie. Lo scrittore del New Jersey, anche se accusato da alcuni critici di scrivere sempre le stesse storie (è emblematica la posizione espressa da Carmen Callil la quale, dopo che a Roth era stato assegnato nel 2011 il prestigioso Man Booker Prize, aveva polemicamente affermato: “Continua a parlare dello stesso argomento in quasi tutti i suoi libri, è come se fosse seduto sul tuo viso non lasciandoti respirare.”), non era uno che amava guardarsi l’ombelico, anzi nel corso della sua carriera non ha esitato ad affrontare la distopia (“Il complotto contro l’America”) o l’allegoria politica (la “Trilogia americana”). Dei suoi libri “Il complotto contro l’America” è forse quello che più si avvicina a “Nemesi”, sia per il periodo storico (gli anni dell’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale) sia per l’ambientazione (il quartiere ebraico di Weequahic). Non so dire se, come nel romanzo precedente, lo spunto narrativo sia inventato, quello che conta è però che esso è del tutto verosimile. Anche se per la mia generazione la poliomelite è stata niente di più che una malattia di cui conosceva solo vagamente il significato, in quanto i moderni vaccini l’avevano per fortuna relegata (come il tifo, la difterite o il vaiolo) a un passato ormai lontano e superato, per coloro che erano nati negli anni ’20 e ’30 essa ha avuto infatti un ruolo per nulla secondario, anche se magari solo a livello psicologico, nelle loro biografie. Ricordo ad esempio che quando ero bambino veniva raccontata spesso a scuola la storia di Wilma Rudolph, la “gazzella nera” che nel 1960 aveva vinto tre medaglie d’oro alle Olimpiadi di Roma dopo che nella sua infanzia era stata vittima, come tanti altri suoi coetanei, della polio.
Nel romanzo di Roth l’epidemia che sconvolge Newark è contemporanea all’entrata in guerra degli Stati Uniti. Viene perciò naturale la tentazione di leggere “Nemesi” come una allegoria, con il virus della malattia a simboleggiare un nemico assai meno invisibile. In effetti “Nemesi” ricorda per molti versi “La peste” di Camus: con la sua calma, la sua ponderazione e la sua ragionevolezza Bucky all’inizio sembra addirittura una nuova versione del dottor Rieux. L’analogia non va però molto più in là di una certa somiglianza di atmosfera. Certo, in alcune pagine fa capolino persino l’antisemitismo, quando un gruppo di teppisti italiani fa irruzione nel campo giochi sorvegliato da Bucky con l’intento provocatorio di portare la polio tra gli ebrei, oppure quando si paventa di mettere in quarantena l’intero quartiere ebraico di Weequahic, trasformandolo di fatto in un ghetto chiuso, e questi semplici accenni a un’intolleranza mai del tutto sopita anche nei democraticissimi Stati Uniti fa scorrere qualche brivido lungo la schiena. Ma quello che preme di più a Roth è raccontare il grande dilemma morale in cui si trova invischiato il protagonista, il quale all’inizio del libro ci viene presentato come l’eroe positivo per eccellenza. Istruttore di educazione fisica ed educatore di un campo giochi estivo, venerato dai ragazzi e rispettato dagli adulti per la sua integrità, la sua dedizione al lavoro, il suo senso del dovere e il suo patriottismo, Bucky Cantor rappresenta l’ideale dell’uomo medio americano, che non si crogiola mai nelle sue sfortune (è stato allevato dai nonni, in quanto la madre è morta al momento del parto e il padre è sparito dopo essere finito in prigione per furto), ma si adopera indefessamente per farsi largo nella vita ed uscire con onore da ogni situazione. Quando scoppia l’epidemia, Bucky si impegna a lottare contro la polio come un soldato, lui che dall’esercito è stato esonerato a causa dei suoi problemi di vista. La malattia che colpisce alcuni suoi ragazzi lo prostra come se si trattasse della morte di un commilitone in battaglia, ma la sua missione, nonostante egli possa fare ben poco per contrastare il dilagare del virus, è sempre quella di prestare conforto, dare sicurezza, lanciare inviti a non farsi prendere dal panico ed essere vicino a chi soffre. Quando la fidanzata Marcia lo convince a partire alla volta di Indian Hill, un campeggio estivo nelle salubri Pocono Mountains dove è chiamato a sostituire un educatore chiamato sotto le armi, Bucky vive il suo trasferimento come una forma di diserzione, una vergogna che neppure il profondo amore per la ragazza riesce del tutto a mitigare. Gli sviluppi della storia metteranno non solo in discussione i tetragoni valori del protagonista, ma addirittura lo condurranno a un esito imprevedibilmente tragico.
Viene da chiedersi a questo punto a cosa si riferisca la nemesi del titolo, una parola che richiama tragedie greche come “Le baccanti” di Euripide o “I Persiani” di Eschilo, oppure ancora antichi miti come quelli di Sisifo e di Prometeo. La nemesi non è qui, come potrebbe apparire a prima vista, la vendetta di Dio che punisce Bucky Cantor per essere improvvidamente assurto a eroe agli occhi della gente o per avere goduto immeritatamente di salute, amore e successo; essa è piuttosto la punizione che il protagonista infligge a se stesso per una colpa che non esiste e che lui certamente non ha commesso, ma che la sua esacerbata coscienza gli fa sentire come un’onta imperdonabile (quella di non aver saputo proteggere i “suoi” ragazzi prima, e averli addirittura involontariamente contagiati poi), fino al sacrificio supremo di condannarsi a una vita di solitudine e di rimorsi. Il suo ipertrofico senso di responsabilità, il suo voler essere un granitico uomo tutto d’un pezzo, fanno sì che Bucky si sostituisca a Marcia nel decidere in sua vece che rinunciare a lui, ridotto alla condizione di invalido, sia la cosa migliore per la felicità futura della ragazza, con ciò comminando a se stesso, come un novello Prometeo che si incatena da solo alla rupe del suo sconforto per farsi dilaniare il fegato dai suoi crudeli sensi di colpa, il più tremendo dei castighi, ossia la rinuncia all’amore (e più in generale al rispetto per se stesso, lui che prima era così virilmente fiero ed ora si sente un mezzo uomo, uno storpio il cui unico sentimento è rimasto l’odio per l’altrui commiserazione). Come acutamente osserva il narratore, Bucky Cantor si sostituisce addirittura a Dio nel prendersi la colpa di ciò che è accaduto, anzi si trasforma egli stesso nel tanto vituperato Dio che fa soffrire senza motivo i bambini innocenti. E’ questo il suo vero peccato, la sua hybris, non quello di essere stato un inconsapevole untore; ed è questo che rende Bucky Cantor un personaggio al tempo stesso detestabile e commovente, autenticamente tragico nella sua assoluta, maniacale disperazione (Roth dice di lui che “pareva che avesse vissuto su questa terra settemila anni di vergogna”). In Bucky si esprime tutto il profondo pessimismo dell’autore, quel pessimismo onnipresente che spesso in passato veniva celato dietro la maschera dell’ironia e della provocazione grottesca. La felicità per Roth non è evidentemente la condizione normale per gli esseri umani, e davanti ai nostri occhi Bucky Cantor appare come l’ultimo di una lunga galleria di anti-eroi americani segnati dal marchio della sconfitta (lo Svedese di “Pastorale americana”, l’Ira Ringold di “Ho sposato un comunista”, il Coleman Silk de “La macchia umana”). Anche se Roth nelle sue opere si è spesso “nascosto” dietro a dei narratori esterni (come nel caso della “Trilogia americana” con Zuckerman, anche in “Nemesi” la vicenda viene infatti raccontata da un testimone dei fatti che ha raccolto anni dopo le confidenze del protagonista), con ciò generando volutamente una sorta di raffreddamento emotivo delle sue storie, i personaggi rothiani hanno sempre saputo ritagliarsi un rapporto di empatia con il lettore, dimostrando di essere, pur nell’essenzialità dello stile o, nei suoi ultimi romanzi, nella concisione del racconto, ricchi di molteplici sfaccettature e sottigliezze psicologiche. La fine (prima quella artistica e poi, ineluttabilmente, quella fisica) di Philip Roth ci ha resi tutti tristemente consapevoli di come questi personaggi ci siano entrati profondamente nella carne e di quanto ci mancheranno negli anni a venire.

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"Il complotto contro l'America" di Philip Roth
"Pastorale americana" di Philip Roth
"La peste" di Albert Camus
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Nemesi 2018-03-18 17:19:28 Anna_Reads
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    18 Marzo, 2018
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Un'aura di inestirpabile fallimento.

Newark estate 1944. Un’epidemia di poliomielite falcia i bambini della città e si accanisce soprattutto sul quartiere ebraico di Weequahic dove lavora, come animatore di un centro sportivo per ragazzi, il protagonista, Bucky Cantor. Ventitreenne, atletico, nipote devoto (la madre è morta nel darlo alla luce e il padre è un delinquente), scartato dal servizio militare per problemi alla vista.
Il breve romanzo di Roth narra la dolorosa parabola di Mr Cantor, un uomo “giusto” spinto dal costante e nobile proposito di fare la cosa giusta, “mille volta la cosa giusta” e che alla fine si trova a fare un bilancio della sua vita che non solo – come da titolo – è pervasa da “un’aura di inestirpabile fallimento”, ma è anche caratterizzata “da una persistente vergogna.”
Che ha combinato di così terribile, Mr Cantor? Niente, in realtà. Forse è stato vettore del contagio? Forse, ma inconsapevolmente (lui stesso è stato gravemente malato). Forse è stato un inerme strumento nelle mani di dio, un dio che “in base alla sua concezione era un essere onnipotente che riuniva in un'unica entità divina non tre persone, come nel cristianesimo, ma due: uno stronzo depravato e un genio del male.” Comunque un personaggio che non trova – e non vuole trovare – pace. Perché una ragione ci deve essere, un motivo ci deve essere e se la colpa non si può dare a dio, bisogna almeno poterla attribuire a sé stessi. O ad entrambi.
Sensazione di deja vu?
Be’, sicuramente qualcosa del vituperato (da me) Seymour Levov di Pastorale Americana sussiste in Bucky Cantor. Anche la struttura di Nemesi riprende quella di Pastorale, ad esempio nella narrazione affidata ad un personaggio marginale che viene dal passato, e lo Svedese un po’ si palesa in questo suo (imperfetto) fratellino.

Come sono contenta di aver letto questo libro (grazie Ross!)
Mi ha permesso di “fare la pace” con Philip Roth, perché se tanto mi era piaciuta “Pastorale” mi aveva anche costretto a starmene per anni lontana dal suo autore. “Colpa”, appunto dello Svedese e del suo essermi completamente odioso e respingente dalle prime righe. Tanto che avevo creduto che fosse una precisa volontà di Roth aver creato IL personaggio odioso. Invece ho scoperto che non è così, che, anzi, lo Svedese è un personaggio in genere amato.
Non da me.
Il punto che ho preferito di “Pastorale” è quando l’“imperfetto” fratello Jerry lo prende e gli dice tutto quello che avrei voluto dirgli io.
Mr Canton, invece, somiglia allo Svedese, ma riesce a farti intravedere il suo dramma e anche la sua anima. Vuole essere giusto, vuole trovare (e trovarsi) delle responsabilità, vuole le risposte e lo vuole non perché “si fa così”, ma perché “è giusto così”. Mr Cantor ha un bisogno di fare quello che è giusto che sconfina nel delirio di onnipotenza: lui (insieme al dio di cui sopra) responsabili di ogni malvagità e nequizia. È magistrale la scrittura di Roth, perché ti lascia empatizzare e solidarizzare con Mr Cantor. Ti fa approvare le sue “titaniche” decisioni, ti fa commuovere insieme a lui per i suoi lutti, ti fa sentire sulla pelle la sensazione di tragedia imminente e, insieme, di pace e beatitudine (la pesca, l’alba dopo il temporale). Finché Mr Cantor è l’unico personaggio in scena si è tutt’uno con lui.
Ma è quando entra in scena Arnie Mesnikoff che Roth scopre le carte. Arnie il personaggio positivo. Ernie che si è trovato una dimensione e una felicità, nonostante la polio, il dolore, il lutto. Eroe, lui, eroe davvero. Lui che non ha nessun bisogno di sfidare dio perché ne ha compreso l’inesistenza.
E Mr Cantor sbiadisce sul fondo, con suo titanismo, il suo delirio, la sua finta hybris. Grande, grande Roth.
Detto questo… be’.
Possono anche darglielo il Nobel.
Certamente a Stoccolma avranno già preso nota del mio fondamentale consiglio.

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Nemesi 2016-04-03 14:53:50 Cristina72
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Cristina72 Opinione inserita da Cristina72    03 Aprile, 2016
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Chi è l'untore?

Romanzo profondamente doloroso, dalla prosa lineare e dal contenuto complesso, a più livelli interpretativi, con al centro un'epidemia di poliomielite scoppiata in una torrida estate degli anni Quaranta nella cittadina americana di Newark.
Se i venti di guerra che soffiano dall'Europa e dal Pacifico sono accompagnati da uno spirito patriottico che tiene alto il morale della popolazione, la polio, invece, è un nemico invisibile che prostra ed umilia i sommersi e i salvati, costretti, questi ultimi, ad assistere impotenti al triste spettacolo di giovani vite falcidiate o rovinate per sempre dalla deformità fisica.
Figura tragica il protagonista, Bucky Cantor, giovane di belle speranze, animatore di un campo giochi del quartiere ebraico, energico e carismatico come i saldi principi che regolano da sempre la sua esistenza.
Questa, in effetti, è la storia più triste che possa essere raccontata: la progressiva devastazione di un essere umano, la fine inesorabile, per implosione, della sua gioia di vivere.
A chi dare la colpa dell'epidemia? Al caldo, alle mosche, al latte, all'acqua? Chi è l'untore? Gli italiani, gli ebrei, lo scemo del quartiere? Perché Dio, se esiste, ha permesso tutto questo?
Non sembra esserci una verità assoluta, per quanto si annaspi nella sua ricerca, e il timore della contaminazione è talmente percettibile che a tratti si avverte l'esigenza di interrompere la lettura per tornare alla realtà e scrollarsi di dosso un senso di venefica oppressione.
Le domande, però, restano, e la parola che dà il titolo al romanzo, Nemesi, è come la tessera di un mosaico - una delle tante - che va tristemente al suo posto, mentre si pensa a Kafka, altro scrittore ebreo che del senso di inadeguatezza e colpa fece la sua cifra espressiva.
Ma in questo caso la discesa agli inferi del personaggio principale è progressiva, e i rivolgimenti psicologici che ne mutano a poco a poco l'atteggiamento, determinandone la metamorfosi, si direbbe che portino già in se stessi il germe della condanna.
Emozionante la scena in flashback del finale, con la descrizione di un'impeccabile performance atletica che restituisce dignità ad un corpo e ad uno spirito offesi dalla crudeltà del destino: un accorato e nostalgico inno alla vita.

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Nemesi 2014-12-03 20:19:58 Valerio91
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    03 Dicembre, 2014
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Il male che ci portiamo dentro

Nell’estate del 1944 è in corso una guerra nella guerra. Un conflitto silenzioso tra gli esseri umani che, mentre combattono tra loro, affrontano un nemico subdolo e letale, impossibile da sconfiggere se non dal tempo. La poliomielite, tremenda malattia che paralizza il corpo e porta in alcuni casi alla morte, miete vittime a Newark, New Jersey. Essa mostra al protagonista Bucky Cantor e ai bambini ai quali insegna educazione fisica al parco giochi, la terribile prospettiva della morte. Uno ad uno molti bambini si ammalano, altri muoiono, e nessuno di loro merita tale destino inclemente. Un nemico invisibile striscia tra le pagine di quest’opera tragica di Philip Roth. Nemico che ti sbatte sulla faccia l’ingiustizia della vita, di fronte alla quale nasce l’impotenza e il desiderio di non rimandare le scelte importanti e la felicità che si può avere oggi, a domani. La morte è inclemente e non conosce età né bontà d’animo, colpendo chi vuole e quando preferisce, senza fare distinzioni tra il vecchio e il giovane, tra il buono e il malvagio. La polio stermina i bambini mentre la guerra fuori imperversa e miete altre vittime, anch’esse prive di colpa. Figure che sul campo di battaglia, agli occhi del nemico, appaiono come figure senz’anima, da abbattere in nome dei presunti ideali di una nazione. Ognuno di quei capri guerrieri offerti in sacrificio ha alle spalle una storia, persone che lo amano e che egli ama, persone che abbandona in una guerra che crede sua eppure non lo è. Vite spezzate che, se analizzate e valorizzate debitamente una ad una, accumulando la tragedia personale di ogni esistenza, centuplicano il valore delle morti, delle perdite, rendendo il ricordo del conflitto mondiale più sanguinoso e triste di quanto non sia già. Il rimorso permea le pagine di questo triste romanzo, rimorso che porta a un sacrificio superfluo e perfino inutile e masochista. Storia che ritrae un male del quale non possiamo liberarci, non importa quanto lontano si possa fuggire dalla presunta fonte. Esso ci raggiungerà sempre, perché ce lo portiamo dentro.

“[…] ho perso l’abitudine di imprecare contro il mio destino. Ho capito che a Weequahic nel 1944 avevo vissuto una tragedia sociale della durata di un’estate che non dovesse necessariamente diventare una tragedia personale della durata di una vita.”

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Nemesi 2013-11-17 14:03:37 Marco Caggese
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Marco Caggese Opinione inserita da Marco Caggese    17 Novembre, 2013
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Una dolorosa vicenda umana

Nemesi è una romanzo doloroso, intriso di un sottile tormento dalla prima all’ultima pagina, ma è questo l’aspetto che rende questo romanzo di Roth estremamente riuscito.
Le vicende narrate riguardano la comunità ebraica americana di Newark, colpita da un flagello, la polio, durante la torrida estate del 1944. Bucky Cantor, il giovane istruttore sportivo protagonista della storia, deve combattere contro questo dramma che colpisce alcuni dei ragazzi a lui affidati.
La scrittura densa e compatta di Roth rende la parte iniziale del romanzo un po’ lenta nello svolgimento, a mio avviso, ma pagina dopo pagina, l’intensità drammatica del libro cresce, insieme alle inquiete scelte che il protagonista dovrà compiere.
Nell’ultima parte del libro le vicende si susseguono affannose e coinvolgenti, e, personalmente, mi hanno “costretto” a leggere fino all’ultima pagina senza poter chiudere il libro.
Stupisce quanto questo autore sia riuscito a creare la profondità e la complessità psicologica del personaggio protagonista, un giovani segnato da una vicenda familiare molto dura, e le cui scelte, anche quelle più difficili da condividere, trovano tutte un concreto fondamento nelle sue vicende personali. Il meccanismo psicologico intessuto dall’autore si rivela al termine della lettura praticamente perfetto. Un'attenzione particolare va rivolta alla visione di Dio che matura nel corso del racconto da parte di Bucky, un sentimento schietto, viscerale, privo di ipocrisie e profondamente vero.
Si esce da queste pagine con la dolorosa sensazione che per alcuni non esista una via per la redenzione.
Philip Roth è riuscito a creare una storia molto vivida, segnata dal dramma, ma emotivamente riuscita alla perfezione, anche grazie a tutti i personaggi di contorno, magistralmente funzionali alla narrazione.

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Nemesi 2013-07-21 13:10:10 Todaoda
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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    21 Luglio, 2013
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solo il titolo...

Sta tutto nel titolo: "Nemesi", intesa sia nell'accezione comune del termine come il nemico o per meglio dire tutto ciò che si contrappone per natura all'individuo e ai suoi intenti, sia più propriamente in senso etimologico come quella sorta di legge di natura che rimedia alla giustizia con l'ingiustizia tendendo ad un indispensabile equilibrio totale e sia infine nella connotazione originale, come la divinità greca incarnazione e personificazione della volontà comminatoria di giustizie ed ingiustizie.
Per prima si incontra quella "comune" intesa qui come la Polio. Il campione di essere umano, protagonista del romanzo, Mr. Cantor rappresenta l'individualità dell'uomo. L'obbiettivo dell'uomo (salvo strane eccezioni) è vivere, tendere alla vita e scansare la morte, la malattia di conseguenza, specie se mortale, è per definizione la naturale nemesi dell'uomo infatti essa è in contrasto con l'obbiettivo ultimo di tutti coloro che la contraggono, sopravvivere, dunque è la loro nemesi. Non è sufficiente però, se la Nemesi del titolo non evolvesse, se l'essenza stessa della malattia non rappresentasse qualcosa di più, definirla “nemesi” sarebbe inappropriato, se rimanesse confinata soltanto nella concezione medica sarebbe abbastanza parlare di "antagonista sociale", di "antitesi dell'uomo." Ovvero di semplice nemico. La nemesi del titolo invece no, in sé ha le potenzialità per aspirare a qualcosa di più, di più profondo e universale, la malattia per sua stessa natura evolve in quella forma etimologicamente più appropriata di legge di natura, di dispensatrice di equilibrio attraverso l'ingiustizia. Roth dunque attraverso Mr.Cantor, Bucky, si trova a riflettere, e in questo modo a fronteggiare, su un nuovo dualismo che non è più quello ingenuamente concreto del bene contro il male, ma delle cause genitrici di questi due poli opposti.
Se esiste questa sorta di legge naturale a cosa è dovuta e per tanto come agisce? E’ il frutto di un invincibile casualità a cui l’uomo col suo intelletto può solo porvi rimedio o è la diretta conseguenza di scelte precise, di decisioni oggettivamente specifiche prese dai singoli individui e che sommate tra di loro formano un ineluttabile quadro variopinto definito come destino? Le domande che ne scaturiscono sono la logica conseguenza al dilemma posto in questi termini: nel caso sia vero il principio di casualità ha ancora senso prendere delle decisioni, sforzarsi a priori per evitare un evento, nella fattispecie contenere l’epidemia di Polio? O è più utile concentrare le energie sul limitare i danni dopo che l’evento ha colpito? Ma ancora, ha senso prendere delle decisioni “post eventuali” se poi tanto il cieco caso ci infila di nuovo lo zampino stravolgendo (o magari assecondando) ogni tentativo umano? Dunque in generale ha ancora senso scegliere quando è tutto nelle mani del casualità?
Nel caso invece sia vera la seconda interpretazione, il principio che ogni scelta è causata, e a sua volta la causa di un'altra scelta, e così via in un eterno girotondo deterministico, come può Bucky Cantor, l’uomo, compiere la scelta giusta, come può da solo nel suo piccolo riuscire a considerare tutte le varianti, le possibilità, le opportunità, i pro e i contro, le connessioni, le conseguenze e prendere la decisione giusta, per se stesso e per tutti gli altri? Se il suo destino è legato a quello di chi ha intorno e per estensione a quello dell’intera umanità, appunto per quel gioco di causa – effetto globali, come può essere certo che un suo sì non corrisponda al no di un altro, che il suo positivo non sia il negativo di un altro, che il bene per lui non sia il male per gli altri e viceversa?
E’ il principio di casualità contro il determinismo, di caso contro causa e in mezzo a questa lotta c’è l’uomo.
Bucky Cantor non è solo la rappresentazione dell’uomo, è la esemplificazione dell’eroismo dell’essere umano, è la condensazione delle virtù che nel loro piccolo ogni uomo si attribuisce. Egli per sua stessa natura non vuole tendere al bene personale ma a quello universale, non a quello soggettivo ma a quello oggettivo. E’ l’eroe che combatte contro la sua nemesi e quella di tutti gli individui. Ma in un mondo così non possono esistere gli eroi: nel primo caso sono inutili poiché compiere delle scelte non ha importanza, nel secondo caso sono irrimediabilmente destinati a perdere per l’enorme complessità delle implicazioni di ogni singola scelta. Mr. Cantor che si confronta con la sua nemesi dunque non rappresenta più l’eroe, ma la distruzione dell’eroe, la distruzione dell’essere umano.
Ancora una volta la nemesi ha la meglio e ancora una volta non è sufficiente, nelle ceneri della battaglia il sopravvissuto, l’eroe sconfitto, non si arrende: sa che non ha vinto e non potrà mai vincere, ma almeno vuole capirne il perché. “D’accordo”, sembra dire, “ho perso, ma perché ho perso? Che la nemesi sia il caso o il determinato destino, che cosa l’ha creata?”
Qui si compie il passo successivo, l’evoluzione finale del titolo che liberatosi delle spoglie terrene assurge sublimando a entità divina, alla dea greca dispensatrice di bene e male. L’uomo non comprende le ragioni del suo fallimento, è incapace di comprenderle come è incapace di vincere e dunque si rifà al suo passato, alla sua educazione, a quello che gli è stato insegnato, a quello in cui ha sempre creduto e a cui si è sempre appoggiato per trovare conforto: il divino. Nel caso di Mr. Cantor esattamente Dio. Lui è un credente, gli hanno insegnato ha confidare in Dio, a pregarlo nel momento del bisogno, eppure Mr.Cantor ha perso, l’umanità ha perso, com’è possibile?
Bucky Cantor realizzato il suo destino sembra quasi alzare gli occhi al cielo e gridare: “padre, perché mi hai abbandonato?”
La risposta non tarda a venire, forse Bucky è sconfitto ma come in un sadico gioco del persecutore gli è riservata ancora la possibilità di scegliere, e così lui ragiona: non sono stato abbandonato, Dio è creatore di tutto, se è vero che esiste dunque ha creato questa epidemia, ha creato la Polio e la Nemesi stessa. E’ lui il dispensatore di giustizia, poiché lui ha creato la giustizia, è lui dispensatore di ingiustizie poiché è lui il creatore di ingiustizia. E la Nemesi di colpo assurge, in un gioco degli opposti essa stessa diventa Dio e Dio la Nemesi, e come in un riflesso di uno specchio magico in cui si inverte il principio della trinità cristiana, noi siamo testimoni dell’atto finale della nemesi, anzi ormai Nemesi con la N maiuscola, che prende posto accanto al Padre e diventa il mezzo di Dio, come prima lo era lo Spirito Santo, il mezzo che si scatena sul Figlio tradito, che è rappresentato da Mr.Cantor, e in cima a questa assurda piramide scorgiamo un Dio umanizzato (come quello dei greci appunto) che sorride sadico, ormai egli stesso dispensatore più di male che di bene.
Davvero è questo il destino dell’uomo, davvero la Nemesi vincerà sempre?
Forse, ma chi siamo noi per saperlo? In fondo al tunnel si intravede una luce, una speranza: non tutti quelli colpiti dalla polio sono destinati alla sofferenza eterna, non tutti gli afflitti sono degli sconfitti. Forse più che rimuginare sulle cause del fallimento degli obiettivi dell’ uomo contro il destino, dovremmo trovarne sempre di nuovi, nuovi spunti, fini, ideali a cui tendere e con essi dovremmo ravvivare costantemente la speranza. Forse nel cieco mare della casualità e nel profondo oceano della causalità il vincere sta proprio nel non darsi per vinti e barcamenandosi tra un insuccesso e l’altro trovare di che sorridere. Forse chi comprende questo ha già vinto, in barba alla polio, al caso, alla nemesi e a Dio stesso. Probabilmente sì, ma non Mr.Cantor lui è il figlio tradito, lui è l’eroe distrutto, egli se sopravvive è destinato solo ad una grigia vita di sopportazione.
Philip Roth con questo romanzo ci consegna una visione irrimediabilmente pessimistica della vita, contro la quale si possono scagliare folle di inguaribili ottimisti e ben pensanti filosofi della domenica. E’ naturale, quando la vicenda viene posta in termini così aulici si può sempre dire tutto e il contrario di tutto e ancora non essere soddisfatti. Si Roth ha ragione, no Roth ha torto, ma un fatto a prescindere dal suo modo di ragionare rimane inequivocabile: Philip Roth sa pensare e soprattutto sa scrivere, e scrivere bene! Il testo non sempre è scorrevole, la narrazione non sempre è fluida, delle volte è indispensabile rileggere dei passaggi, ma ha un tale impatto, una tale forza sensoriale (perché limitarsi a quella visiva sarebbe riduttivo) che quasi sembra poter definire tra le righe del romanzo “l’entità libro.”: un oggetto esemplare, somma degli sforzi cerebrali dell’autore, della sua cultura, della sua intelligenza, della sua penna e della sua realtà. Uno scrittore così è da tempo che non spuntava, all’incirca dal 1899, anno della nascita di Hemingway. Se per alcuni questo paragone è banale, o addirittura forzato, è a ben vedere in realtà assolutamente lecito poiché se i dettagli (come i mondi e i tempi) sono discordanti ad accomunarli ci pensa lo stile, la stessa viva e cruda forza nel descrivere il mondo, la stessa brama di concretezza, la stessa sete di reale e probabilmente la stessa intelligenza.

Ed infine le solite scuse: mi rendo conto di essermi concesso eccessivamente ai vaneggiamenti filosofici e di essermi altrettanto eccessivamente dilungato nelle possibili interpretazioni mistico/religiose pontificando su argomenti che il più delle volte non condivido senza essere sicuro di averli compresi. Tuttavia un centinaio di righe per interpretare un titolo così pregno di significati mi paiono addirittura poche…
- il titolo? - vi chiederete.
- già solo il titolo, poichè questa non è una recensione a “Nemesi” il romanzo, ma a “Nemesi” il titolo.
- E quella al romanzo allora?
- Ah per quella occorrerebbe un' enciclopedia!
Scherzi a parte è vero non tutto quello che ho detto è condivisibile, come non tutto quello che Roth ha scritto è condivisibile, ma quando per recensire un libro di circa 170 pagine mi rendo conto che me ne occorrerebbe uno altrettanto lungo, non posso che ammettere di trovarmi di fronte ad un vero e proprio capolavoro (e di non possedere per nulla il dono della concisione, ma questo è un altro discorso...)

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Nemesi 2013-05-12 07:31:08 chicca
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chicca Opinione inserita da chicca    12 Mag, 2013
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Nemesi

Ogni romanzo di Philip Roth è una scoperta , c' è sempre qualcosa di nuovo, di dirompente, qualcosa per cui ti dici : - Non potrà mai fare di meglio - e invece ogni volta è una storia nuova che ti toglie il fiato. Non si capisce dove trovi la vena letteraria, deve aver scoperto una specie d' elisir di vitalità creativa quest' uomo sugli ottanta con una produzione bibliografica kilometrica alle spalle.
Nell'estate del 1944 gli Stati Uniti oltre a dover affrontare i tedeschi e i giapponesi per terra e per mare si trovano a combattere anche contro il flagello della polio. Ne verrà colpito anche il presidente Roosevelt. È in questo contesto che prende vita il personaggio principale di questo romanzo : Eugene Cantor. Bucky, per gli amici, è un ragazzo ebreo di Newark, vent'anni, atleta eccellente, un futuro come insegnante di educazione fisica. Sua madre è morta durante il parto. Suo padre è un ladro che si è dato alla macchia. Bucky è cresciuto nell'amore e ha imparato il senso del dovere dai suoi nonni materni, gli unici veri genitori che abbia mai avuto. Se non avesse avuto un problema di vista sarebbe sicuramente sotto le armi e molto probabilmente sarebbe un soldato esemplare.Quella che per molti sarebbe stata una fortuna per lui diventa una vergogna difficile da sopportare. Bucky vive costantemente con il pensiero di quello che "sarebbe potuto accadere se ..."
Se sua madre non fosse morta di parto, se suo padre non fosse stato un ladro, se il difetto agli occhi non gli avesse precluso l' arruolamento, se fosse stato più accorto, se, se, se...
Un grande romanzo in pieno stile Roth sul senso di colpa.
Bellissimo.

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Nemesi 2011-02-07 20:15:15 Sarastaleggendo
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Sarastaleggendo Opinione inserita da Sarastaleggendo    07 Febbraio, 2011
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come il vino, col tempo migliora

Tu te lo dici, che non può scrivere un libro all'anno e sempre bello, che prima o poi scriverà una porcheria, che forse "L'Umiliazione" era il libro perfetto per chiudere la carriera senza sputtanarsi. Poi arriva Nemesi, e lo leggi, e trovi di nuovo Roth, ma un po' diverso, è sempre lui, lo riconosci, ma è un po' più amaro, meno irriverente, in questa storia stupenda di come un dubbio piccolo piccolo che si insinua in una vita perfetta la possa distruggere completamente, perchè la perfezione non ammette errori, e la forza non ammette debolezza, e quando la scopre in sè, implode. Questo, almeno, è quello che ci ho letto io, e delle domande a cui non ho risposta pur essendomele spesso poste, col vantaggio che in me la perfezione non esiste.

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