Narrativa straniera Romanzi Nel paese delle ultime cose
 

Nel paese delle ultime cose Nel paese delle ultime cose

Nel paese delle ultime cose

Letteratura straniera

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Anna Blume era partita alla ricerca del fratello giornalista, scomparso senza lasciare traccia durante un reportage, ed è approdata nel Paese delle ultime cose: ormai per lei e per tutti non c'è più possibilità di salvezza, di fuga. La definitiva catastrofe si è compiuta ma nonostante tutto Anna resiste e si aggrappa a tutte le sue forze per sopravvivere salvando in qualche luogo della sua coscienza una traccia di irrinunciabile umanità, una testimonianza di amicizia, persino d'amore. E con essa la voglia di raccontare e conservare la memoria di quanto accaduto affinché anche gli altri sappiano. Con evidenti richiami alla letteratura fantastica, al noir, ma anche appellandosi alla nostra storia recente, Nel paese delle ultime cose è un tour de force crudo e affascinante che rivela via via la sua intenzione provocatoria: scrivere il romanzo del ventesimo secolo, le tappe di un viaggio infernale con i suoi moderni dannati.



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Nel paese delle ultime cose 2018-02-14 17:35:53 Riccardo76
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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    14 Febbraio, 2018
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Un mondo alla fine del mondo

E se tutto questo fosse dentro la nostra testa? se questa lettera lunga fosse una sorta di emotiva voglia di raccontare un tormento interiore?
Il romanzo di Auster è un misto di distopia, introspezione e storia riscritta, alcune scene mi hanno portano alla mente gli anni nefasti della shoah, altre scene ricordano “La strada” di Cormac McCarthy. Una ricerca incessante, un resistere e soffrire che infastidiscono e colpiscono per la disumana area che si respira. Auster riesce a farci vivere in quel paese delle ultime cose, dove poco ha valore, dove la vita è solo uno dei tanti oggetti di scambio, solo l’amore riesce ad illuminare lievemente il buio che sembra ricoprire ogni singola giornata.
Non credo ci sia una sola chiave di lettura, ma questa lunga lettera mi ha fatto pensare ad un travaglio interiore, un voler romanzare una devastazione interna, come se il fratello da ritrovare e portare a casa fosse in realtà un desiderio di uscire da un incubo, da una sofferenza atroce, dove solo l’amore dà sollievo e permette di rimanere vivi.
La scrittura come medicina che allevia i dolori e la disperazione, Auster inventa un mondo alla fine del mondo, un antro buio da cui scappare sembra impossibile, o forse semplicemente non se ne ha la forza o la voglia.

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Nel paese delle ultime cose 2018-01-02 20:51:43 Valerio91
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    02 Gennaio, 2018
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Nel paese degli ultimi

Paul Auster è un autore che mi intrigava già da parecchio, poi in seguito al successo di 4 3 2 1 ho deciso di tentare il mio approccio con lui. Ho scelto questo libro perché il titolo mi intrigava e anche per la sua mole contenuta, che ritenevo perfetta per rompere il ghiaccio.
Cosa dire, Auster è sicuramente un autore valido e leggerò sicuramente altre delle sue fatiche. Tuttavia, anche se "Il paese delle ultime cose" è un'opera che si sviluppa su un tema e una storia interessanti, non ha mantenuto del tutto le mie aspettative.
L'atmosfera ricorda un po' quella de "La Strada" di McCarthy: sicuramente meno apocalittica, ma la miseria in cui sono immersi gli uomini di questo "paese" distopico sembra essere molto simile. Mi ha ricordato anche "Cecità" di Saramago, in certi tratti, anche se non saprei dirvi precisamente per quale motivo.
L'abilità dell'autore nel dipingere questo mondo è comunque notevole, e ci si fa perfettamente l'idea di quel che vuole descrivere sia per quanto riguarda i luoghi che per gli stati d'animo. Eppure, il romanzo manca di quel qualcosa che possa renderlo indimenticabile, quel qualcosa che ti rimane dentro anche una volta che hai chiuso il libro. Inoltre, quello che da' titolo al libro mi sembra un concetto non sviscerato abbastanza, anzi.

Anna Blume parte verso il paese delle ultime cose alla ricerca di suo fratello William, un reporter che era stato inviato lì per inviare dei resoconti sulla situazione disperata in cui versa quella terra, ma che non ha mai fatto arrivare una riga. Tutti sembrano volere che desista dalla sua decisione; il Paese è un luogo da cui mai nessuno ha fatto ritorno, abbandonato a se stesso dall'indifferenza del resto del mondo, una sorta di globo a sé stante che si va mano a mano disgregando. Sottoposto continuamente a sovversioni di governo e alla sparizione di cose che cessano di esistere all'improvviso sia nella realtà che nella mente degli abitanti, quel luogo è il palcoscenico di un'apocalisse circoscritta, in cui tutti sono in povertà e barcollano tra la vita e la morte. In quella terra non sembrano esserci ricchi, o meglio, ci sono ma non si vedono mai; relegati in un paradiso invisibile che sembra impossibile da trovare in un posto come quello, eppure deve esserci. Come se il benessere non avesse il coraggio di mostrarsi.
Nel paese tutto è grigio, senza speranza, e tutti gli uomini che lo abitano sembrano vivere nella stessa miseria, nella stessa situazione disperata, riuscendo a stento a sopravvivere. Anna si ritroverà ben presto nella stessa condizione: una volta esauriti i risparmi si ritroverà a vagare per le strade, alla ricerca di qualche cianfrusaglia da rivendere in mezzo all'immondizia abbandonata, come tutti gli altri.
Come altre opere dello stesso genere, "Il Paese delle ultime cose" prova a mettere in risalto la totale mancanza di scrupoli che pervade gli esseri umani quando si trovano immersi nella miseria, quando anche la più piccola cosa è necessaria per sopravvivere. In queste condizioni Anna rappresenta la ribellione, la disperata ricerca di portare un po' di normalità straniera all'interno di quella terra perduta; ma sarà quella terra a consumare lei lentamente, insieme a quasi tutte le sue speranze.

"A un certo punto le cose si disintegrano in sozzura, polvere o rottami, e quanto rimane è qualcosa di nuovo, qualche particella o agglomerato di materia che non si riesce più a identificare. Rimane un pezzetto, un granello, un frammento del mondo che non c'è: un nulla, una cifra di infinito."

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La strada di Cormac McCarthy
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Nel paese delle ultime cose 2017-11-19 18:32:00 viducoli
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viducoli Opinione inserita da viducoli    19 Novembre, 2017
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Ovviamente quello delle ultime cose...

... è un altro paese

**Attenzione: anticipazioni sulla trama**

Paul Auster pubblica 'Nel paese delle ultime cose' nel 1987, subito dopo 'La trilogia di New York', l’opera che lo portò all’attenzione del pubblico e della critica. Si tratta di un romanzo per certi versi anomalo rispetto alla produzione dello scrittore statunitense, soprattutto perché si cimenta con un genere, quello della letteratura distopica, che – almeno per il momento – lo scrittore non ha più affrontato, ed anche perché, contrariamente alla quasi totalità della sua opera narrativa, non è ambientato a New York e neppure negli Stati Uniti.
All’interno di questa cornice inusuale troviamo però in questo romanzo alcuni dei temi tipici della letteratura di Auster: il rapporto tra il linguaggio e l’oggetto della rappresentazione semantica (le cose), la struttura sociale come leviatano che costringe l’uomo ad una incessante lotta per l’esistenza, il caso come fattore determinante il corso della vita, la funzione dello scrittore e della scrittura come strumenti della memoria collettiva.
Dico subito che a mio avviso queste tematiche, indubbiamente di grande rilevanza, vengono trattate da Auster in maniera inadeguata e confusa, conferendo al romanzo un alone di superficialità, di attenzione al meccanismo della scrittura, di ossessione per l’effetto, per la bella pagina più che per il suo contenuto, che mi è capitato di riscontrare anche nelle altre opere dello scrittore statunitense che ho letto.
Aggiungendo il fatto che – come vedremo – Auster affronta il tema della società distopica da una prospettiva esterna, con un intento generale che dal mio punto di vista porta il lettore occidentale a ritrarsi in una dimensione consolatoria, ne deriva un personale giudizio di perplessità sia rispetto alla costruzione del romanzo sia rispetto al suo intento politico, a dispetto delle tante critiche entusiastiche che si trovano in rete e non solo.
Il romanzo si compone di una lunga lettera che la protagonista, la giovane Anna Blume, scrive ad un amico (il vecchio fidanzato?) da una anonima città in cui si è recata alcuni anni prima per cercare il fratello giornalista, scomparso subito dopo essere stato inviato dal suo giornale per mandare reportage sulla situazione politica, sociale e culturale del paese di cui la città è la capitale. Nel paese infatti si sono succedute rivolte e colpi di stato, e la situazione economica è precipitata.
Anna nelle prime pagine descrive lo stato di degrado, di anarchia e di violenza in cui si trova la città, quindi ripercorre con la memoria la sua vita dal momento in cui è arrivata via mare in città, dopo avere incontrato il direttore del giornale per cui lavorava il fratello – che cerca di dissuaderla dall’andare là – dicendole tra l’altro che ha mandato un altro reporter, tale Samuel Farr, sulle sue tracce.
La città è una sorta di girone infernale, abbandonata a sé stessa dal governo, nella quale tutte le basi del contratto sociale sono scomparse o sono sovvertite. Non esistono più servizi pubblici, le derrate alimentari sono scarse, fiorisce il mercato nero e gli abitanti soffrono una tremenda fame; la maggior parte di essi non ha lavoro né casa e si aggira per strade piene di cadaveri che vengono immediatamente depredati dei vestiti e raccolti da squadre di spazzini, al fine di essere cremati per produrre energia elettrica. Per guadagnare pochi gloti (la moneta locale) molta gente raccoglie immondizie per le strade usando i carrelli dei supermercati e conferendole ai centri di raccolta che le brucia sempre per produrre energia, visto che le scorte di petrolio e carbone sono finite. Altri raccolgono gli oggetti più disparati, che possono essere venduti ai Restauratori che li riciclano. Le strade sono controllate da bande pronte a derubare il prossimo, e su tutto aleggia un fetore di cadaveri in decomposizione ed escrementi. In questo violento sfacelo non mancano alcuni passi di ironica leggerezza narrativa, come quelli nei quali Anna ci parla dei gruppi che escogitano le modalità più inverosimili per darsi la morte, considerata l’unica prospettiva di liberazione dalla tragica realtà.
Anna è giunta in città alcuni anni prima: non trova il fratello, perché l’indirizzo a cui lo cerca semplicemente non esiste più, essendo stato l’intero quartiere distrutto. Non potendo ritornare a casa – in quanto dal porto non partono più navi e gli aerei non si sa più cosa siano – inizia per sopravvivere a raccogliere oggetti dormendo all’addiaccio. Giunta ormai allo stremo conosce Isabel, una anziana signora che la ospita nella casa in cui vive con il marito Ferdinand, un ex grafico pubblicitario paranoico la cui unica occupazione è ora costruire modellini di nave in bottiglia sempre più piccoli. Quando, a seguito di complicate vicende, è costretta a lasciare la casa di Isabel, si rifugia nella biblioteca centrale della città, dove vivono alcune comunità intellettuali tollerate dal governo. Qui incontra Samuel Farr, che sta scrivendo un libro sulla città ed ha idee su come scappare, e i due si innamorano. Un drammatico episodio interromperà però il loro idillio, e Anna si ritroverà gravemente ferita a Casa Woburn, una clinica che un ricco filantropo ha fondato per aiutare i poveri e gli ammalati. Rimessasi, ritrova la serenità e anche l’amore con Victoria, la titolare, che la fa lavorare per la clinica. Un giorno per caso ritrova Sam, ed anche lui inizia a lavorare lì. Anche questo periodo di tranquillità è però destinato a finire presto, a causa delle crescenti difficoltà finanziarie della Casa. Anna, Sam e Victoria decidono quindi di tentare di uscire dalla città, grazie a documenti falsi procurati da un ambiguo personaggio di nome Boris Stepanovich, utilizzando la vecchia automobile della clinica. Negli ultimi giorni prima della partenza Anna inizia a scrivere la lettera che è il romanzo che stiamo leggendo.
Come si può vedere da questo riassunto, estremamente sommario e lacunoso, Auster mette nelle 170 pagine del romanzo tantissima carne al fuoco: troppa. Del resto la quarta di copertina dell’edizione Einaudi che ho letto (desolatamente priva di qualsivoglia contributo critico alla lettura) rivela la intenzione provocatoria di Auster: ”scrivere il romanzo del ventesimo secolo, le tappe di un viaggio infernale con i suoi moderni dannati”. Non so se Auster avesse veramente tale intenzione, oppure se questa gli è stata messa in bocca dal curatore del volume al fine di colpire il possibile lettore: sta di fatto che se tale era l’ambizione, l’autore ha a mio avviso fallito l’obiettivo, del resto smisurato, e mi sento di dire – dopo avere letto tre delle sue opere maggiori – che ha fallito perché concretamente non può andare oltre i suoi oggettivi limiti espressivi, che contrastano pesantemente con una ambizione letteraria derivante da un ego intellettuale ipertrofico.
In quello che dovrebbe essere il romanzo del XX secolo ci troviamo immersi in una città che è il concentrato dei luoghi comuni letterari e cinematografici su cui si basano molte opere distopiche, si tratti di capolavori o di opere di genere. Vi si possono ritrovare richiami più o meno evidenti (almeno per ciò che ho potuto percepire io) a '1984', a 'Fahrenheit 451', a 'Blade Runner' e al romanzo di Dick da cui è tratto il film, a '1997: Fuga da New York' di John Carpenter. Ora, non mi disturba tanto il gioco delle citazioni, che spesso è parte essenziale della modalità di esprimersi di un autore, quanto il fatto che qui divenga in certo qual modo l’unica cifra della costruzione dell’atmosfera della città, il che ne fa – come detto – un luogo comune. Auster non ci mette nulla di veramente suo, tranne l’ironia con cui tratteggia i gruppi degli aspiranti suicidi (in cui si può forse vedere un amaro sarcasmo nei confronti delle nuove tendenze culturali newyorkesi nell’epoca dell’edonismo reaganiano) ma si limita a saccheggiare un armamentario già visto, a tratti vagamente grand-guignolesco. Come mi pare gli accada spesso, rimane poi alla superficie delle storie, perdendo straordinarie occasioni per approfondire caratteri e situazioni. È il caso di momenti chiave del racconto, quali il rapporto di Anna con Isabel e Ferdinand prima e quello con Sam poi, che vengono letteralmente tirati via. Di converso, introduce elementi – quali l’amore lesbico tra Anna e Victoria – che non hanno alcuna funzione nell’economia della vicenda, inducendo il sospetto di una particolare attenzione verso le esigenze del lettore.
'Nel paese delle ultime cose' vorrebbe essere il romanzo del XX secolo anche e soprattutto perché utilizza l’ambientazione distopica per raccontarci come le parole stiano perdendo di significato, come impercettibilmente ma costantemente la società si dimentichi dell’esistenza delle cose e – poco dopo – anche del significato delle parole che queste cose descrivono. Detto per inciso che di questi temi la letteratura del XX secolo si è già ampiamente occupata, e che quindi la riflessione sul rapporto tra significante e significato, sulla perdita di senso del linguaggio e sul ruolo della scrittura in questo contesto non mi pare fosse una assoluta novità nel 1987, credo che anche in questo caso Auster si limiti a fare i compitini, con risultati largamente al di sotto delle sue ambizioni. Nel più importante passaggio dedicato a queste tematiche, Anna parla con un funzionario chiedendo se non possa andarsene in aereo, e quello gli risponde che gli aerei non esistono, che non sono mai esistite macchine volanti. Seguono un paio di pagine con considerazioni sulla memoria, sulle parole e le cose, che non brillano a mio avviso né per profondità di analisi né per felicità dell’esposizione, particolarmente scolastica, nelle quali la tesi di fondo è che i cambiamenti sociali ed economici provocano la continua sparizione di oggetti fisici, cui si associa poco dopo la sparizione delle parole che li descrivevano. Non tutti però dimenticano le stesse cose nello stesso momento, e questo genera difficoltà di comunicazione. ”Come puoi parlare con qualcuno di aeroplani, per esempio, se questa persona non sa cosa sia un aeroplano?”. Da qui, ci suggerisce Auster con questa opera, la necessità e l’urgenza che Anna scriva sul suo quaderno blu, che Sam scriva il suo libro: anche se non saranno letti da nessuno (in realtà il quaderno di Anna sembra essere letto dal suo vecchio amico) fisseranno comunque per sempre le cose anche dopo la loro sparizione. Questo ed altri passaggi in cui affiora questo tema sono comunque letteralmente sommersi dall’azione del romanzo, dalle pagine dedicate alla descrizione della città e delle vicende di Anna, finendo per ritagliarsi un ruolo marginale a dispetto del titolo del romanzo.
Restano da analizzare i risvolti 'politici' del romanzo. La letteratura distopica indubbiamente ha come finalità essenziale quella di descriverci società apparentemente lontane, nel tempo o nello spazio, dalla nostra, ma che in qualche modo rappresentano gli aspetti estremi od evolutivi della società in cui viviamo. Spesso queste società sono il risultato dell’evoluzione tecnologica disumanizzante, oppure dell’instaurarsi di regimi totalitari, oppure ancora si generano a seguito di disastri planetari. Nella migliore letteratura di questo genere ci immergiamo quindi in mondi che evidenziano le possibili, terribili conseguenze della proliferazione di germi già presenti nella nostra attualità.
Rispetto a questo assunto di base della letteratura distopica 'Nel paese delle ultime cose' rivela una fondamentale distanza, che si traduce a mio avviso in un fattore di estrema debolezza, in un assunto consolatorio venato da una precisa ideologia.
In questo romanzo, infatti, non è il mondo che si è trasformato, si è inverato in distopia, ma è un paese, un pezzo di mondo: Anna viaggia per dieci giorni in mare per raggiungerlo, e dall’altra parte ci sono ancora il suo amico, la sua casa, la sua tranquilla esistenza borghese e spensierata. Non è quindi la società in cui Anna è vissuta che ha generato lo sfacelo e la violenza in cui è immersa, ma l’altra parte del mondo. Essendo stato scritto negli anni ‘80, non è difficile capire a quale altra parte Auster si riferisca: la città e il paese, sia pure mai chiamati per nome, non sono gli Stati Uniti, tanto che si raggiungono dopo un lungo viaggio e hanno una moneta diversa (il cui nome, guarda caso, somiglia molto a quello della moneta di un paese allora comunista). Esistono quindi un mondo buono e uno cattivo, che Auster ci descrive davvero come l’impero del male teorizzato dal vituperato Reagan. Emerge anche in Auster a mio avviso la sindrome del giusto che caratterizza buona parte della cultura statunitense, e che si può riassumere così: al nostro interno abbiamo tante contraddizioni, ma quando ci rapportiamo agli altri siamo sempre nel giusto. In Go(l)d we trust.

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