Mi chiamo Lucy Barton
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Recensione della Redazione QLibri
Questa è la storia di Lucy Barton
“Per favore, mamma. Raccontami qualcosa. Una storia qualunque”. A dire queste parole non è una bambina che chiede una favola della buonanotte ma una donna adulta, già moglie e madre. Nella solitudine e nel buio di una stanza d’ospedale, illuminata solo dai brillanti grattacieli di New York alla finestra, Lucy Barton riceve una visita inattesa, quella della madre con cui non parla da anni. Ma come si parla alla propria madre quando il silenzio ha ricoperto anni di sofferenza e miseria, quando la tua vita è piena di non detti, quando la persona che hai davanti è inscindibilmente legata alla fonte del tuo dolore e delle tue paure, ma non puoi fare a meno di amarla?
Le parole sembrano prendere il binario delle chiacchiere leggere, unica risposta possibile a un bisogno di contatto che va oltre gli sbagli del passato e rende addirittura possibile ridere insieme “Che brutta fine ha fatto Kathy Nicely. Ti ricordi la sfortunata cugina Harriet? Sta arrivando l’infermiera Maldidenti”. Gli aneddoti delle vite altrui diventano il filo che va a cucire i ricordi di Lucy e ricomporre la sua storia, la sua carriera di scrittrice, i suoi stessi errori. Perché in fondo tutti possiamo amare solo in modo imperfetto.
Leggendo questo romanzo si ha la sensazione che la sua dimensione sia l’assenza, il vuoto, le parole non dette. La trama si compone di poche cose, sfiora la vita di tanti personaggi, lascia emergere sfumature di emozioni e persino la stessa Lucy non si lascia conoscere se non per mezzo di fugaci ricordi e frammenti di esistenza. Non c’è bisogno di scandagliare il passato, basta un episodio, una frase, una sfumatura. La straordinaria capacità narrativa dell’autrice si dimostra proprio nel far percepire il tutto come una storia unitaria. Quella di Lucy, quella dell’intera umanità, di cui Elizabeth Strout sa raccontare la psiche, con grande sensibilità.
Il parlare degli altri perché il fondo del barile che siamo è proprio il bisogno di trovare qualcuno da snobbare, sulla cui inferiorità costruire un po’ di sicurezza. Il desiderio di interrogarsi su tutti perché quando vediamo gli altri incedere sicuri per la strada, come se non conoscessero per niente la paura, non possiamo fare a mano di chiederci che cos’abbiano dentro. Il sentire la famiglia come le radici profonde, di gioie e dolori, che ci tengono avvinghiati al cuore, anche quando, per difenderci, le nascondiamo sotto uno spesso strato di finta indifferenza.
Le parole sono poche ma dense, cadono come gocce limpide, da assaporare una per una. Sfiorano emozioni ed esistenze, sanno essere taglienti tanto da ferire ma anche avvolgenti tanto da confortare. Parlano di niente ma alla fine sembrano dire tutto. Arrivata all’ultima pagina, mi sento investita da così tante sensazioni e tanti interrogativi che vorrei sinceramente avere a disposizione competenze maggiori e strumenti più potenti perché sento che questo romanzo avrebbe forse molto di più da dire di quanto una semplice lettrice come me possa percepire.
«Ciascuno di voi ha una sola storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state mai a preoccuparvi, per la storia. Tanto ne avete una sola». E questa è la storia di Lucy Barton.
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Opinioni inserite: 9
Superficialità
Ho comprato questo libro perché mi piaceva la copertina; ebbene sì, superficialità pura. Mi ricorda molto Salinger perché è un diario in cui l'autrice racconta la sua vita, i suoi affetti e i suoi conflitti; ma la storia ti rimane dentro perché è dolorosa, profonda, traduce silenzi in parole, ma è più quello che viene taciuto che quello che viene raccontato. Lo stile è nitido, svelto, i personaggi tratteggiati con poche e vivide espressioni che ne mostrano il carattere, la consapevolezza della propria inadeguatezza in un mondo consumista, in cui la miseria è considerata un'imperdonabile colpa.
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La grandezza dell’ imperfezione affettiva
… “ Ma questa è la mia storia. Ed è pure quella di tante altre. Questa però è la mia. Questa in particolare. E io mi chiamo Lucy Barton “…
In un letto d’ ospedale, laddove ansia e sofferenza scoperchiano la propria essenza, una figlia riceve la visita della madre che non vede da anni e che la veglierà per cinque giorni ed altrettante notti.
Tutto è accaduto parecchio tempo fa, oggi Lucy è una scrittrice e rievoca questa storia, spogliandola di vaghe ipotesi e lasciandola così come è, una madre che ama la propria figlia in modo imperfetto e si presenta al suo cospetto senza sapere esattamente il perché raccontando dei matrimoni falliti di tutti gli altri, una semplice storia d’ amore, la sua storia.
C’ è la miseria di un’ infanzia vissuta in un garage, mangiando melassa spalmata sul pane, con un freddo onnipresente e la compagnia dei libri per sentirsi meno sola.
C’ è una famiglia anomala che non ha accettato ne’ partecipato al suo matrimonio e che non vede da tempo, fratelli complicati, un padre odiato, ma pur sempre la sua famiglia, una impalcatura di cui non ha conosciuto la presenza finché non ha cessato di esistere.
Un nucleo decisamente malato ma con le radici di ciascuno avvinghiate al cuore di tutti gli altri.
E poi l’ improvviso arrivo della madre, Lucy costretta in un letto, e quella donna che comincia a parlare in modo disinibito, come dopo tanti anni non ricordava e Lucy è così contenta di parlare con lei come non ha mai fatto.
La storia continua, in quei momenti lei sonnecchia ed ascolta i discorsi della madre pensando di non desiderare niente altro. Della sua infanzia conosce molto poco, ma in quelle sere in ospedale sua madre è quella di sempre, anche se parrebbe diversa, con una voce quieta ed una faccia più tenera del solito. Lucy vorrebbe parlarle della sua vita, di se’, ma non sa che cosa lei ricordi.
Oggi tutto e’ cambiato per chi è venuto dal nulla affrancandosi dalle miserie del passato ma con un senso di solitudine ben radicato e che non se ne andrà mai più.
Riaffacciatisi quei momenti, le fuoriesce un semplice ringraziamento per la presenza della madre ed il piacere di dirle ….” Sono contenta che sei qui e ti voglio bene “….
La storia di Lucy ne abbraccia tante altre, la dedizione e la pazienza di un medico scrupoloso, un buon uomo ed un padre di famiglia, un amico dell’ anima che sparirà, una scrittrice conosciuta anni prima che la spinge e la consiglia a seguire la propria aspirazione letteraria, una vita travagliata, un matrimonio finito, due figlie cresciute, un secondo matrimonio.
E poi, anni dopo, un’ altra visita in ospedale, questa volta a ruoli invertiti, lei al capezzale della madre morente.
In questa storia, dopo cinque giorni e cinque notti, la madre se ne è andata, improvvisamente, e Lucy ne sentirà terribilmente la mancanza.
…” In fondo abbiamo tutti un’ unica storia da raccontare…” ed … “ io conosco bene il dolore che noi figli ci stringiamo al petto, so che dura per sempre. E che ci procura nostalgie così immani da levarci perfino il pianto. Ce lo teniamo stretto, invece, e lo difendiamo da ogni assalto del cuore…”
Un breve romanzo su un amore imperfetto ed incostante nutritosi di un legame diretto che non pone domande, ascolta le risposte, accetta le spiegazioni, soffre e gioisce dell’ unicità del momento. Una semplicità descrittiva e narrativa che piace, un intreccio che riporta alla bellezza di gesti e pensieri primari, senza forma, ma conservati e radicati dentro di se’.
…” come se l’ anima potesse far silenzio in quei momenti. La vita mi lascia sempre senza fiato “…
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Madre e figlia
Eccoci di fronte ad un romanzo intimo ed intimista: la penna della Strout scorre sapiente nel tratteggiare il ritratto di una donna, una madre, che a sua volta è stata una figlia. Questa persona sta attraversando un momento difficile: un'operazione, che sembrava una sciocchezza, le ha lasciato invece addosso una fastidiosa infezione che anche i medici faticano a spiegare. Lei adesso è costretta in ospedale già da alcuni giorni e le mancano terribilmente le sue due figlie piccole.
Il marito della donna odia gli ospedali e va raramente a trovarla. La protagonista sta vivendo un momento di particolare fragilità: la solitudine, la preoccupazione per la salute e per le sue bambine. E' in questa situazione che vede arrivare sua madre, che non vedeva da anni, a prendersi cura di lei, lì, in ospedale. La mamma rimarrà con Lucy per cinque giorni.
Siamo in presenza di un romanzo particolarmente delicato dove le emozioni e l'interiorità dell'io narrante occupano gran parte della narrazione. Non leggiamo per sapere cosa succederà, come finirà, ma per ricordare insieme alla protagonista alcuni episodi della sua vita e fermarci insieme a lei sulle sensazioni, turbamenti, impressioni e riflessioni che l'hanno animata.
Lucy Burton ci racconta la sua storia, l'unica che sia veramente in grado di scrivere, a partire dall'esperienza vissuta in ospedale, il sollievo e la vera gioia di avere finalmente accanto sua madre, con la quale ha un rapporto difficile. Facendo dei salti temporali in avanti e indietro, nella sua vita precedente e successiva al ricovero, la protagonista ci racconta la sua infanzia difficile, la tormentata relazione con i genitori e i fratelli, la fuga da quelle persone e da quella vita, tanto cercata e alla fine raggiunta, ma che poi ha provocato inevitabilmente dei sensi di colpa.
La lettura di quest'opera mi ha lasciato un senso di malinconia e lieve tristezza ma anche di profonda tenerezza verso questa donna e la sua storia quasi sussurrata, come affidata al vento oppure ad un tramonto sulla campagna. Una storia che viene richiamata attraverso frammenti, in modo sempre molto sobrio ma anche poetico, e che ci parla del complicato e insieme profondissimo legame tra madri e figlie.
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Una storia d'amore
Un romanzo particolarmente bello e progressivamente coinvolgente. Una storia d'amore, praticamente. Piuttosto comune quanto unica e irripetibile, semplice e complessa come tutte le storie autentiche.
uno scandaglio delle emozioni e dei sentimenti che non si era consapevoli di provare, di avere ben nascosti dentro di sé. Un'analisi impietosa per scoprire la pietas.
Il tutto raccontato con grande dolcezza, con profondo rispetto per il lettore. Anche di questo dobbiamo essere grati a Elizabeth Strout, qui eccellente scrittrice.
New York, anni '80.
Io narrante, una giovane donna di qualche ambizione letteraria, già con una propria famiglia. Una lunga degenza in ospedale, vegliata per cinque notti dalla madre che non vede da parecchi anni, apparentemente senza un legame significativo; "una madre che ama sua figlia. In modo imperfetto. Perché amiamo tutti in modo imperfetto" .
Un percorso quasi analitico fatto di dettagli, la cui semplicità li rende ancor più coinvolgenti e sconvolgenti: "è sempre il dettaglio a essere rivelatore" .
"E quella sera, nella stanza dell'ospedale, mia madre era la madre che avevo sempre avuto, per quanto diversa potesse sembrare con quella voce quieta, inderogabile, e la faccia più tenera del solito" .
In fondo ..."abbiamo tutti un'unica storia da raccontare" .
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Una sola vita, una sola storia...
Un romanzo pieno di non detti, di parole sospese, congelate dal tempo, che una madre e una figlia cercano di riprendersi, di donarsi reciprocamente.
Cercano, appunto.
Tra loro anni di silenzio, un passato fatto di privazioni, di miseria, di vergogna.
Tra loro un garage troppo freddo, pane con la melassa e un furgone dove piangere di paura e disperazione.
Tra loro la mancanza di un affetto tangibile, quello fatto di contatto, di attenzioni, di cure, di parole.
Tra loro il racconto di storie, storie qualsiasi, storie altrui, storie senza importanza in grado di riavvicinarle un po' senza però farle toccare, senza rischiare di far dire loro cose troppo intime.
Parlano di altri per non parlare di se stesse...o forse il contrario, parlano di altri per poter trasmettere quelle parti di sé che non riescono a trovare la strada che va dal cuore alla bocca.
Tra loro 5 giorni, solo 5 giorni, per trovare il coraggio di volersi bene...e di dirselo.
Imparare a dirselo, non soltanto quando si hanno gli occhi chiusi.
Questo romanzo è pieno di sfumature: di rapporti mancati, spezzati, di matrimoni falliti, di figli arrabbiati, di dolori che non si possono dimenticare...ma con i quali, alla fine, si può far pace.
Sfumature che la Strout riesce a creare con poche semplici frasi, essenziali, apparentemente lievi, ma che smuovono rocce.
"Quello della solitudine era il primo sapore che avevo assaggiato nella vita e non se ne andava più, nascosto nelle pieghe della bocca, a ricordarmi."
Questa è la storia di una donna, madre, moglie, figlia...soprattutto figlia, ma è anche la storia della nascita di una scrittrice.
"Ciascuno ha soltanto una storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state mai a preoccuparvi. Tanto ne avete una sola".
E se è vero che un romanzo si può riscrivere tante volte, è vero anche che la nostra vita non si può ripetere, è quella...e quella diventerà il nostro romanzo.
L'unico possibile.
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La densità del silenzio
Un libro necessario come tutti i libri dovrebbero essere. Un romanzo di parole sospese, non dette, con uno stile levigatissimo, perfetto per il tipo di storia che la Strout racconta.
Il passato riaffiora lentamente, a tratti, impacciato come i dialoghi tra le due protagoniste, una madre e una figlia che si rivedono dopo molto tempo. Ci siamo anche noi lettori in quella stanza d’ospedale, ci siamo anche noi nella storia. E viviamo i ricordi dell’infanzia infelice della protagonista, prima sfumati poi sempre più consistenti, reali. Fino a formare i pezzi di un puzzle (non tutto, qualcosa resta indistinto, così com'è giusto che sia) che ci dice che anche l’amore più facile, più naturale - quello tra una madre e una figlia - può far soffrire, ed è fragile, impacciato, dice e non dice. Non c’è niente da fare, solo prenderne atto.
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Il dolore dei figli dura per sempre
“Conosco troppo bene il dolore che noi figli ci stringiamo al petto, so che dura per sempre. E ci procura nostalgie così immani da levarci perfino il pianto”.
Possono una madre e una figlia ricucire il loro rapporto dopo anni di incomprensioni e silenzi?
La storia inizia a New York, in una stanza di ospedale. Una madre inaspettatamente si presenta al capezzale della figlia, Lucy, costretta ad una lungodegenza per una complicanza post-operatoria. “Ciao Bestiolina” le dice la donna, come se il tempo non fosse mai trascorso, come se la figlia fosse ancora piccola; ma Lucy è ormai adulta, si è sposata ed ha avuto due bambine. Non si vedono da anni, ma subito tra le due si ricrea una certa intimità fatta di ricordi, pettegolezzi, discorsi banali. La madre veglia la figlia per cinque giorni e il piano temporale si sposta nel passato; Lucy fa riemergere dai ricordi i traumi dell'infanzia: la povertà materiale ,“vivevamo in un garage”, ma soprattutto la povertà affettiva dei suoi genitori. Dalla sua memoria riaffiorano un padre violento e una madre incapace di “pronunciare quelle parole: ti voglio bene”. Lucy crescendo si riscatta grazie allo studio, si ferma ogni giorno a scuola oltre le ore di lezione, si appassiona alla letteratura e persegue il suo sogno: scrivere il romanzo della sua vita. Ma la vita, purtroppo, non è una storia alla quale possiamo cambiare il finale, “se vivi per vent'anni con una persona, il romanzo è quello”. Il piano temporale si sposta di nuovo: Lucy è una donna matura, si è separata dal marito e ha raggiunto l'obiettivo di diventare scrittrice seppur con profondi sensi di colpa per aver trascurato le figlie. Il cerchio si chiude, la storia si ripete. “Mamma”: parola talvolta sussurrata, talvolta urlata, legame che per sempre segna la nostra esistenza e quella dei nostri figli.
Può dunque il rapporto tra una madre una figlia ricucirsi dopo anni di silenzi ed incomprensioni? La Strout lascia a noi la riposta, ma ci fa intendere che ciò che ci ha segnato non si può cancellare: il dolore dei figli dura per sempre.
Mi chiamo Lucy Barton è un romanzo breve, la lettura scorre rapida, la scrittura è asciutta, essenziale, ma mai banale; ogni frase offre lo spunto a numerose riflessioni.
I capitoli sono costruiti come istantanee in un'alternanza tra passato e presente e le vicende della protagonista sono narrate in prima persona. L'atmosfera è raccolta, intima, leggendo questo libro ho avuto la sensazione di essere lì, in quella stanza di ospedale, tra l'andirivieni di medici ed infermiere, ad ascoltare una donna che decide di aprire il suo cuore per raccontarci le ferite della sua anima.
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Il grido di mamma
Una giovane donna in un letto d’ospedale riceve l’inaspettata visita della madre, che non vedeva da tempo. Si apre così questo romanzo che scalda il cuore. Perché siamo di fronte ad un incontro tra madre e figlia, che esprime, pur nel silenzio, tutto il calore di un amore. Questo è stato un amore imperfetto, ma si è sempre imperfetti quando si ama tanto e non c’è amore più grande dell’amore viscerale tra madre e figlia che ci accompagna dal primo giorno della nostra vita e che non finisce mai, neanche quando c’è il distacco. In questo libro è assordante il rumore del non detto e mille sfumature ti fanno sentire dentro il tepore di un liquido caldo, che ti penetra all’interno. La visita in ospedale è l’occasione per un racconto intervallato da diversi flash-back che riprendono gli anni della miseria, eternamente coperti del silenzio, ma che hanno segnato le loro vite, forse più quella della madre che non ha potuto dare, che non quella della figlia che non ha potuto ricevere. E’ un libro denso di emozioni e di vita, vera. E anche nella parte finale, dove c’è quel grido di mamma, sembra quasi di sentirlo questo grido che esce dalle pagine e che ci arriva dritto dentro.
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intimo romanzo
E' un romanzo introspettivo e molto malinconico. A me ha messo tristezza, evidenziando le carenze affettive del rapporto tra Lucy e la sua famiglia. Non mi è piaciuto particolarmente, anche se mi ha trasmesso un senso di realtà dei sentimenti molto forte. Io per la verità cerco nei romanzi qualcosa in più, non mi basta il racconto, mi serve il riscatto, la speranza, perchè un libro mi lasci davvero qualcosa e mi insegni qualcosa del vivere. O forse era troppo per me e non l'ho capito, è anche possibile. Mi è invece piaciuto molto lo stile scorrevole e semplice della scrittura.