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Melancolia della resistenza Melancolia della resistenza

Melancolia della resistenza

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In città è arrivato il circo. Nulla di strano, se non fosse che il circo ospita una balena imbalsamata, la più grande del mondo, e che la città è sperduta nella campagna ungherese, un non luogo dominato da incertezza e declino. Tutti sono in attesa che accada qualcosa e sarà proprio il circo a far esplodere il cambiamento. Tra i tanti personaggi che popolano questo sorprendente romanzo sociale spiccano Eszter, che spera nel caos e nell’anarchia per accrescere il suo potere, e Valuska, postino e sognatore, che trascorre le sue giornate cercando la purezza nel mondo.



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Melancolia della resistenza 2021-04-08 08:22:16 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    08 Aprile, 2021
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L'ECLISSI DELLA RAGIONE

“L’ordine delle abitudini non era più indiscutibile, la confusione avanzava inesorabilmente in tutte le direzioni sconvolgendo la normale quotidianità, il futuro appariva insidioso, il passato lontano e dimenticato, mentre il normale corso delle giornate era talmente imprevedibile che la gente si era arresa […] Raccapezzarsi tra gli eventi insoliti, sempre più frequenti e spaventosi negli ultimi mesi, era ormai impossibile, […] le notizie in sé […] sembravano tanti segni premonitori di un’imminente – come si diceva sempre più spesso – “catastrofe”.”

Ho conosciuto per la prima volta Krasznahorkai come sceneggiatore di fiducia di Bela Tarr, uno dei più grandi registi cinematografici di tutti i tempi e idolo indiscusso di una fedele e affezionata, anche se non numerosissima, schiera di cinephiles. Anche chi, come me, è rimasto affascinato dalle ipnotiche immagini in bianco e nero, dagli interminabili piani sequenza e dalla straniata recitazione di film come “Satantango” o “Le armonie di Werckmeister”, non deve dimenticare che all’origine di queste opere ci sono altrettanti, straordinari, romanzi di questo scrittore magiaro dal nome impronunciabile. “Melancolia della resistenza”, dalla cui seconda parte è stato appunto tratto nel 2000 “Le armonie di Werckmeister”, è il beffardo e lucidissimo apologo di una società invasa dalla paura, dalla sfiducia e dalla perdita di ideali, la quale diventa facile preda di una dilagante barbarie e di una violenza brutale e immotivata. La grande trovata di Krasznahorkai sta nel non appiattire la storia su un registro banalmente realistico, ma nel costruire una atmosfera via via più angosciosa e inquietante, pervasa di sinistri presagi (la torre dell’acquedotto che inizia ad oscillare, le lancette di orologi fermi da tempo immemorabile che tornano a muoversi, alberi secolari che crollano all’improvviso senza causa apparente), a tratti surreale come un’opera di Kafka (a me ha fatto venire in mente anche alcuni film di Bergman, come “Il silenzio” o “La vergogna”), che viene ipostatizzata da figure fortemente simboliche come la gigantesca balena esibita come principale attrazione del circo itinerante che fa tappa nell’anonimo paese in cui è ambientata la vicenda o il misterioso principe (di cui si dice che abbia tre occhi e pesi non più di dieci chili) che aizza alla distruzione e alla rivolta una losca torma di seguaci che lo venerano come un funesto profeta. Nella abulica e impaurita comunità che assiste sgomenta e impotente ai fatti narrati, trincerandosi come la signora Pflaum nella precaria e illusoria sicurezza di un appartamento pieno zeppo di “buone cose di pessimo gusto”, si distinguono soltanto due memorabili personaggi (in realtà sono tre, ma del terzo parlerò più avanti): Valuska e Eszter. Valuska è la “presenza angelica tra le forze distruttrici della decadenza”, un Candido volteriano che, con uno stupore e un’indifferenza alle cose del mondo tipicamente infantili, “girovaga indisturbato nella vita, simile a un minuscolo pianeta che non vuole scoprire le forze gravitazionali che lo comandano, ma si accontenta colmo di gioia di far parte, anche con un minuscolo palpito, di un tutto razionale e inalterabile” e vive “nell’invulnerabilità di un istante eterno, come in una bolla di sapone che non sarebbe mai scoppiata”; un tenero e peripatetico svitato innamorato dell’”immensa libertà del cosmo”, che gli alticci avventori della taverna invitano ogni sera a dar loro una dimostrazione figurata del movimento degli astri e dell’eclissi di sole, un po’ per divertirsi alle sue spalle, un po’ come pretesto per far ritardare di qualche minuto la chiusura del locale. Se Valuska incarna una religiosità panica intrisa della “gioia magnifica di far parte di un tutto, di funzionare insieme al resto”, Eszter è invece lo studioso, l’intellettuale, rinchiuso in una torre d’avorio, la cui lucidità di pensiero, la cui perspicacia, il cui pessimismo sono assolutamente incapaci di incidere sulla realtà. Egli è consapevole della situazione di crisi della società contemporanea, ma non sa andare oltre la vittimistica constatazione del fallimento dell’umanità, non è in grado cioè di proporre soluzioni o rimedi, preoccupato solo che nessuno possa disturbare i suoi studi teorici e astratti e il suo confortevole isolamento. La sua posizione conservatrice e passatista si riflette sui suoi studi musicali: Eszter si oppone strenuamente ai tentativi della musica moderna di ricreare ingannevolmente l’armonia che appartiene alle sfere celesti, nascondendo in questo modo (proprio come fa la fede) la realtà di un mondo che “ha troppo rumore dentro, suoni sordi, gracchianti, martellanti di lotta e di fatica”; egli si rifugia invece nelle teorie del suono puro e dell’”accordatura naturale” degli antichi greci, elaborate in un’epoca mitica e felice in cui l’uomo non conosceva il tormento del dubbio e non pretendeva di sostituirsi prometeicamente agli dei, ma quando alla fine si decide ad accordare “naturalmente” il suo pianoforte e a suonare il suo amato Bach, lo strumento produce solamente uno stridio fastidioso e insopportabile. Se il mondo contemporaneo è grossolano, volgare e abietto, il tentativo dell’uomo di pensiero di opporvi uno sdegnoso e superbo rifiuto e di ritirarsi sull’Aventino di una fantomatica Arcadia sono pateticamente destinati al fallimento, sancendo la sostanziale inutilità e superfluità del suo ruolo, che al limite può essere solo esornativo e ornamentale, o peggio strumentalizzato a proprio vantaggio dal potere. Allora è quasi preferibile rinunciare alla contrapposizione, alla resistenza, anche alla stessa speranza in un futuro miglioramento, rinunciare persino alla ragione e al pensiero indipendente, e sprofondare nella rinuncia, nel silenzio, in una parola nel nichilismo (l’amara ammissione che il mondo è totalmente sprovvisto di una ragione equilibratrice, privo di un ordine se non quello del caos, a suo modo “eternamente perfetto” e quindi invincibile). Un’analoga regressione coinvolge anche Valuska, la cui stolida convinzione di vivere “nel migliore dei mondi possibili” è destinata a venire spazzata via dalla esposizione diretta e sconvolgente a un orrore agghiacciante e insostenibile, che lo porterà – anima troppo pura per accettare la violenza e la malvagità dei suoi simili, “fragile farfalla smarrita che vola in una foresta in fiamme” – alla follia e all’internamento in un manicomio. La morale del romanzo è di una sconfortante tristezza. Di fronte alla inciviltà e alla violenza anarchica e distruttiva, chi come Eszter si era cullato nell’illusione dell’arte e della cultura come antidoto all’oscurantismo, o chi come Valuska viveva nella fanciullesca utopia di un’armonia trascendente, di una idealizzata bellezza superiore, di un supremo ordine regolatore cui abbandonarsi, è costretto crudelmente a farsi da parte e a rifugiarsi nel nichilismo o nella pazzia. L’unica risposta possibile è, purtroppo, quella della signora Eszter (ecco il terzo personaggio-chiave del romanzo), la ex moglie del professore, che accoglie spregiudicatamente i segnali premonitori dell’imminente fine del vecchio mondo come un’opportunità per fare piazza pulita di tutto e ripartire da zero, e che cavalca opportunisticamente la paura dei concittadini e la violenza senza freni dei ribelli per prendere il potere e imporre misure autoritarie con il pretesto dell’eccezionalità delle circostanze, consapevole con cinica lucidità che ad ogni azione corrisponde necessariamente una reazione, ad ogni rivoluzione una restaurazione, e che le forze del caos e della distruzione, implacabili ma cieche, possono diventare, se le si sa imbrigliare, proprie involontarie alleate (come il facinoroso teppista che, pur avendo partecipato bestialmente agli scontri, viene assunto dalla donna, una volta diventata presidente della comunità, come membro delle forze di polizia).
“Melancolia della resistenza” non è solo un romanzo dalla trama avvincente e suggestiva, ricco oltretutto di momenti che inducono a profonde riflessioni, ma è anche un’opera scritta con uno stile estremamente originale e innovativo. Le sue pagine sono caratterizzate da periodi molto lunghi ed elaborati, con innumerevoli proposizioni coordinate e subordinate che si susseguono alla principale e frequenti incisi parentetici, eppure riescono ad essere estremamente scorrevoli, per nulla involute o contorte. Si prenda ad esempio questa frase, che ho estrapolato a caso dalle 350 pagine del libro (qualsiasi altra sarebbe andata però altrettanto bene): “La consapevolezza di aver rotto solo qualche uovo nel paniere, ma di non essere riusciti a distruggere tutto come avevano cominciato a fare ubbidendo a un semplice cenno del loro Principe, sembrava d’improvviso un peso insostenibile, e quando si allontanarono, dopo quella confusa esitazione davanti al portone dell’ospedale, iniziarono a pensare che se era finita semplicemente così, allora la furia crudele non aveva più senso, e forse non ne aveva mai avuto, non riuscivano più a riprendere la cadenza uniforme dei loro passi, la loro unione si era dissolta, non era più una marcia, il micidiale squadrone organizzato si era trasformato in un’orda pietosa, di quel plotone guidato da un irrefrenabile disgusto restavano venti-trenta individui che si trascinavano piegati su se stessi, e non solo sospettavano, ma sapevano con certezza, anche se a loro non importava, ciò che sarebbe successo nell’immediato, perché erano entrati in un campo vuoto, infinitamente vuoto, dal quale non sarebbero più riusciti a liberarsi, o non avrebbero trovato neppure la volontà di farlo.” Si può notare il periodare fluente, ritmico, cadenzato, che sembra indurre a una lettura ad alta voce per assaporarne, come nelle migliori opere di Saramago, la pregnanza e la musicalità. Un’altra caratteristica che mi piace sottolineare è che il passaggio, all’interno del romanzo, dal punto di vista di un personaggio a quello di un altro avviene con un curioso “effetto domino”, ossia tramite la ripresa, all’inizio di ogni paragrafo, delle identiche parole con cui si era chiuso il paragrafo precedente. Non manca nel romanzo di Krasznahorkai una illustrazione di personaggi e ambienti che, nella minuziosa attenzione ai minimi dettagli psicologici e descrittivi, richiama la narrativa classica (la presentazione di Eszter e della sua stanza sembra ad esempio uscita dalla penna di un Goncarov), ma di contro c’è una predilezione per le atmosfere allucinate e surreali e un gusto per l’allegoria che sono affatto moderni. Basti pensare allo strepitoso capitolo finale, che descrive con scientifica pedanteria la decomposizione del cadavere della signora Pflaum, con gli “operai della distruzione”, i quali aggrediscono implacabilmente l’organismo senza più vita, che possono essere visti come una azzeccata metafora delle forze della rivoluzione e del caos che, nel mondo contemporaneo, disgregano dall’interno una società irreparabilmente marcia e agonizzante, e che possono essere tenute sotto controllo dal potere solo per breve tempo, perché all’orizzonte c’è, inderogabile, il crollo fatale, l’estinzione senza appello. L’ispiratissima prosa dello scrittore ungherese, seppure incline a un amaro nichilismo, è un lascito prezioso, un accorato monito volto a mettere in guardia contro il subdolo fascino che la violenza, fomentata dalla demagogia e dal populismo, esercita da sempre sulle masse: il “poderoso fragore di stivali e scarponi trascinati sull’asfalto” della folla anonima e muta, che mette nottetempo a ferro e fuoco la città e che dà sfogo con una ferocia immotivata a un disgusto e a una disperazione cui non riesce a dare un nome, è un’immagine stupenda dell’irresistibile tendenza a quel conformismo fanatico e cieco che, come nella favola del pifferaio di Hamelin, rischia di portare l’umanità, soggiogata dalla seducente e pericolosa retorica dei tanti principi di turno e dall’infido e spietato cinismo delle signore Eszter cui la storia, purtroppo anche a noi vicina, ci ha abituati, sull’orlo del baratro, se non addirittura all’autodistruzione, e che pochi scrittori (come Canetti e Grossman, giusto per fare due nomi) hanno saputo descrivere con la chiaroveggenza di Krasznahorkai, disincantato e acuto testimone di un mondo in cui, fatalmente, “il sonno della ragione genera mostri”.

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