Malina Malina

Malina

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Malina è la storia di un abnorme triangolo amoroso e di un abnorme assassinio. Leggibile sui più diversi piani, immediato e insieme carico di riferimenti nascosti, agilissimo e quasi temerario nel toccare anche l’attualità più intrattabile o la più proibita realtà dei sentimenti, questo romanzo riesce in ciò che molti hanno provato e che rare volte non è fallito: narrare una storia che ha la massima concretezza, facendola però coincidere con un delirio segreto che appartiene a un’altra realtà, con una favola nera che nessun mondo visibile potrebbe ospitare.



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Malina 2024-04-01 09:22:55 enricocaramuscio
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    01 Aprile, 2024
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Amore e morte nella Ungargasse

Una città, Vienna, che si porta ancora dietro le scorie della Seconda Guerra Mondiale; una strada, la Ungargasse, che non si può certo definire bella, ma che con il suo magnetismo rappresenta, da sola, una sorta di paese a se stante; una donna, l'io narrante, di cui non conosciamo il nome, ma soltanto la città di nascita, Klagenfurt, il colore dei capelli, biondi, quello degli occhi, scuri; un triangolo amoroso che sa di tragedia già dalle prime pagine. Malina è l'uomo che vive con la protagonista, la loro relazione "è consistita per anni in incontri imbarazzanti, in grossissimi malintesi e in alcune sciocche fantasticherie – cioè, voglio dire, in malintesi molto più grandi che con altre persone. D’altra parte fin da principio stavo al di sotto di lui, e devo essermi resa conto presto che lui doveva diventarmi fatale, che il posto di Malina era già occupato da Malina prima che lui entrasse nella mia vita. Mi è stato risparmiato soltanto, o io me lo sono risparmiato, di incontrarmi con lui troppo presto." Ivan è l'uomo di cui la donna è innamorata, quello per il quale "tutto ciò che è per me accessibile, il telefono, il ricevitore e il filo, il pane e il burro e le aringhe affumicate, che conservo per lunedì sera, perché piacciono tanto a Ivan, o l’Extrawurst, che piace tanto a me, tutto è della marca Ivan, della casa Ivan. Anche la macchina da scrivere e l’aspirapolvere, che prima facevano un rumore insopportabile, devono essere state comperate e mitigate da questa ditta buona e potente, gli sportelli delle macchine non sbattono più con fragore sotto le mie finestre, e anche la natura deve essere finita tutt’a un tratto sotto la sorveglianza di Ivan, perché al mattino gli uccelli cantano più piano e permettono un secondo sonnellino." Il tempo è il presente, o meglio l'oggi, quell'oggi che "è una parola che solo i suicidi dovrebbero usare, per tutti gli altri non ha assolutamente alcun senso, ‘oggi’ è soltanto la designazione di un giorno qualsiasi per loro, di oggi precisamente, per loro è evidente che debbono lavorare ancora una volta otto ore, oppure sono liberi, faranno commissioni, compreranno qualcosa, leggeranno un giornale del mattino e uno della sera, prenderanno un caffè, avranno dimenticato qualcosa, hanno un appuntamento, devono telefonare a qualcuno, un giorno quindi in cui deve succedere qualcosa oppure, meglio ancora, non succede gran che." Tre protagonisti, come tre sono le parti in cui è diviso il romanzo e, potremmo semplificare, ogni parte sembra dedicata ad uno di loro. La prima, la più leggera ad un primo sguardo, è incentrata sulla storia d'amore con l'ungherese Ivan, una vera ossessione in cui la narratrice sembra annullarsi, incapace di potersi dedicare ad altro. Eppure appare una relazione vuota, inconsistente, priva di dialogo, fatta di telefonate sterili, incontri senza pathos, dialoghi inconsistenti. La seconda consiste in una lunga e vertiginosa serie di incubi consecutivi, una sorta di febbrile delirio in cui precipita la donna, che svelano un passato di violenze domestiche e abusi da parte del padre, intervallati da brevi risvegli, attimi di lucidità (ma sarà così) in cui intervenire in suo soccorso Malina. La terza, la più potente, è la parte in cui Ivan si defila, la passione scema fino a dissolversi, Malina prende in mano la situazione imponendosi sugli altri protagonisti, fino a portare la storia verso un tragico e simbolico epilogo. È qui che la storia si svela e tira fuori il suo significato. Se appare chiaro si dalle prime battute che si ha a che fare con una mente disturbata, l'insania si fa sempre più lampante e pericolosa, rivelando uno sdoppiamento della personalità che rimette tutto in discussione e costringe il lettore a chiedersi se i personaggi siano tutti reali o meno, e se no, quale di loro sia vero e quale frutto della malattia. Per raccontare tutto ciò, Ingeborg Bachmann si avvale di una prosa che spazia dall'essenziale al ricercato, dal concreto all'onirico, avvalendosi di metafore e simbolismi che riguardano principalmente la condizione della donna, schiacciata da un mondo dominato dall'uomo, e dell'Austria, ancora intontita dalle scorie della recente guerra e della dittatura nazista, lasciando intendere la possibilità di leggere su più piani narrativi quest'opera che, partita come una classica storia d'amore, finirà per rivelarsi, invece, una storia di morte. "Malina beve ancora il suo caffè. Si sente qualcuno che chiama dall’altra finestra sul cortile. Sono andata vicino alla parete, entro nella parete, trattengo il respiro. Avrei dovuto scrivere su un foglio: Non è stato Malina. Ma la parete si apre, sono nella parete, e Malina può solo vedere la crepa che abbiamo già visto da un pezzo. Penserà che sono uscita dalla stanza."

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Malina 2018-11-05 07:51:50 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    05 Novembre, 2018
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L'IO A PEZZI

“La storia insegna, ma non ha allievi.”

Due sono le parole chiave di “Malina”: incomunicabilità e schizofrenia. La prima deriva dal fatto che i personaggi del libro comunicano per frasi frante e spezzate, suggerendo, accanto all’afasia e all’inadeguatezza del linguaggio (quasi esso fosse un sistema di segni ogni volta da inventare o da ricostruire ex novo), una analoga condizione esistenziale e spirituale; non solo, ma questa situazione si riverbera – dal momento che il romanzo è raccontato in prima persona da un io femminile disturbato e sconnesso che non sa mettere ordine nella propria vita, figuriamoci nella narrazione (come dimostrano le innumerevoli lettere abortite e finite nel cestino della carta straccia) – anche nei confronti del lettore il quale, di fronte all’ostico e apparentemente incoerente monologare della protagonista, che si pacifica e diventa arioso e leggero solo nella dimensione del mito e della favola, si sente disorientato e spaesato non meno del signor Mühlbauer, l’autore di una sconfortante intervista in cui le domande (peraltro ignote nel dettaglio) e le risposte segnano, in maniera quasi paradossale, il massimo della divaricazione.
Per quanto riguarda la schizofrenia, appare subito chiaro, fin dalle prime pagine, che l’io narrante non è del tutto normale: essa non può infatti stare più di due giorni lontano dalla Ungargasse, la strada dove vive nel centro di Vienna; è perennemente in preda a fobie, crisi di panico e idiosincrasie; si sente inerme di fronte ai ricatti sentimentalistici che la spingono ad assecondare un incauto filantropismo terzomondista, e così via. A monte di tutto ciò si intuisce che c’è un tragico passato di malattia e di violenza, e difatti poco alla volta piccoli grumi di verità emergono, quasi sfuggendo alla ostinata reticenza della volontà (in una lettera indirizzata a Lily e poi cestinata la donna accenna ad esempio a qualcosa accaduto alla propria testa). E’ solo nel lunghissimo incubo-delirio della seconda parte, vero e proprio tour de force di letteratura onirico-surreale, che è possibile rintracciare una plausibile spiegazione dello stato psicologico della protagonista e dei traumi che l’hanno devastata. Qui emerge la figura violenta, prevaricatrice e distruttiva di un padre-padrone che ha abusato della figlia e che l’ha irrimediabilmente messa in una condizione di soggezione, di auto-annullamento, di perdita di fiducia in se stessa e negli uomini, di smarrimento di una sana e normale voglia di vivere. E in una serie di quadri sconnessi e mostruosi (degni di un Bergman, di un Kafka e di un Bosch messi insieme) prende forma un orrore agghiacciante e senza limiti, in cui il genitore, sotto le vesti ora di un sadico aguzzino ora di un famelico coccodrillo ora di un lubrico fornicatore, diventa il simbolo tanto di un’istituzione familiare che ha perso ogni valore e in cui vige la cruda legge della sopraffazione e dell’incesto, quanto di un mondo in cui non esistono esseri umani, ma solo vittime e carnefici.
Da questo terribile passato l’io narrante esce letteralmente a pezzi, con una paranoica incapacità di rapportarsi con il mondo che lo circonda e con una vita sentimentale divisa a metà tra due uomini molto diversi tra loro: Ivan e Malina. Il primo, un uomo dalle cui telefonate e dalle cui visite ella dipende quasi morbosamente e a cui affida il sogno impossibile di una felicità utopistica e perfetta, è una figura ingigantita a dismisura da un incontrollabile bisogno di amore, sicuramente sopravvalutata (Ivan ha infatti una propria vita, due bambini piccoli, e probabilmente non ha investito nel rapporto molto più di quel che farebbe un comune amante), e con il suo defilarsi al termine del romanzo è il principale (benché non del tutto colpevole) responsabile del definitivo incrinarsi dell’equilibrio psicologico della donna. Malina invece è l’elemento apollineo e razionale dell’ambiguo triangolo, rassicura la protagonista con la sua presenza costante e silenziosa, è un angelo custode fedele ed efficiente, anche se in lui mancano qualsiasi calore e passionalità. C’è un solo neo in lui: che non è una persona reale. Sul carattere immaginario di Malina la Bachmann non imbastisce un clamoroso colpo di scena, ma semina piccolissimi indizi, poco appariscenti e ad essere sinceri anche poco esaustivi (il fatto che, a differenza che con Ivan, la donna intrecci con Malina conversazioni lunghe e approfondite, quasi fosse sul lettino di uno psicanalista; che Malina compaia sempre e solo quando Ivan se ne è andato via; che non interferisca mai nella vita quotidiana e nelle azioni pratiche della protagonista), facendo intravedere al lettore nelle pagine conclusive l’inaspettato e agghiacciante scenario di uno sdoppiamento di personalità. Come in “Psyco” e in tanti film e romanzi sul “doppio”, il destino del personaggio che dice io è una definitiva scissione che conduce alla follia: mentre la metà femminile scompare dentro una crepa della parete (la quale rimanda a ben altre crepe psicologiche), quella maschile prende il sopravvento, rispondendo alla tardiva telefonata di Ivan che nessuna donna ha mai abitato nell’appartamento e mettendo così un suggello quasi sepolcrale a un’opera difficile, ostica e disturbante, forse più adatta a uno psichiatra che a un lettore normale.

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