Luce d'agosto Luce d'agosto

Luce d'agosto

Letteratura straniera

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Lena Grove, muove a piedi, dall'Alabama al Mississippi alla ricerca del padre del suo bambino. Alla prima occhiata tutti capiscono che sia incinta, alla seconda che non sia sposata, ma lei è fiduciosa e le persone sono disposte ad aiutarla. Joe Christmas ha la pelle bianca, ma forse c'è del sangue "nero" nelle sue vene, o così gli fanno credere, scatenando, nella sua natura mite, l'idea di una violenza atavica in agguato. Joanna Burden viene dal nord. Vive da sola e la sua missione è aiutare le persone di colore. Byron Bunch è un brav'uomo che accetta il suo destino, gli corre anzi incontro, pur riconoscendone la follia, nonostante i saggi consigli del suo consigliere spirituale, l'ex pastore Gail Hightower. Infine Gail Hightower tirerà le fila della storia, suo malgrado.



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Luce d'agosto 2022-03-10 14:52:52 LuigiF
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LuigiF Opinione inserita da LuigiF    10 Marzo, 2022
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Luce accecante su un mondo cupo

Luce d'Agosto è una opera faticosa sotto diversi aspetti. Lo stile di scrittura innanzitutto. Il processo narrativo è costruito con frasi lunghe e complesse, ricche d'incisi e digressioni ed a tratti involute tanto da farti dubitare della fedeltà della traduzione. I continui salti spaziotemporali, il frequente ricorso al "flusso di coscienza" come tecnica per tratteggiare situazioni psicologiche nella loro purezza, la narrazione in stile "Rashomon" in cui la realtà dei fatti, esplorata da molteplici punti di vista, è necessariamente soggettiva, caratterizzano uno scrittore innovativo e moderno, ma non contribuiscono certo a rendere la lettura agevole. Non a caso Faulkner viene considerato il naturale antagonista di Hemingway la cui prosa scarnificata e minimalistica è un po' l'antitesi di quella Faulkneriana cerebrale ed elaborata.

Ma è forse l'aspetto contenutistico a rendere l'opera maggiormente ostica. La realtà descritta da Faulkner è quella dura e spietata della America del Sud negli anni venti del novecento. Una società che non ha mai digerito appieno la sconfitta nella guerra civile e nella quale alle pratiche schiaviste è subentrata una cupa discriminazione razziale.
Si tratta di un romanzo corale in cui i personaggi convergono nell'assolata e immaginaria città di Jefferson in un caldo mese di Agosto. La giovane Lena, in stato di gravidanza avanzato, rincorre con cocciuta determinazione e positiva fiducia lo scapestrato che l'ha sedotta e abbandonata (Lucas). Di lei si innamora di un amore tanto inatteso quanto ingenuo il già maturo Byron, tra i personaggi più riusciti del romanzo. La sua vita anonima e monotona, interamente dedita al lavoro, trascorre nell'indifferenza altrui e si anima soltanto nelle segrete sortite del sabato sera durante le quali, a cavallo di un mulo, esce dal paese per dirigere il coro di una chiesa di campagna per le celebrazioni domenicali. Di ben altra tempra è invece Hightower, un prete rinnegato e anticonformista che vive isolato ed emarginato. Unico confidente di Byron, Hightower si adopera nell'assistere la sventurata Lena incarnando in qualche modo un senso di moralità alta in questa provincia desolata.

Ma il vero protagonista è Joe/Christmas, il dannato, lo spregevole reietto, il cui sangue meticcio costituisce peccato originale mai espiato, indelebile macchia che lo condurrà ineluttabilmente a delinquere e uccidere. La sua fuga tra le campagne assolate del profondo Sud inseguito dai cani dello sceriffo in una drammatica e crudele partita di caccia, resta tra le immagini più potenti del romanzo. Infine la vittima, Joanna: una indecifrabile figura di donna bianca con un doloroso passato alle spalle, anch'essa emarginata e solitaria a causa della sua tolleranza e filantropia verso i neri.
Questi e altri personaggi minori (val la pena citare ancora gli allucinati nonni materni di Christmas simboli anch'essi di una umanità crudele e abbruttita) incrociano le loro vite sullo sfondo di una violenta e torbida America, in cui l'aspetto razziale è opprimente e privo di speranze.

Ammetto di essere uscito un po' provato dalla lettura di questo mio primo romanzo di Faulkner e penso che non ne affronterò altri a breve. "Luce d'Agosto" è opera fortemente connotata dal punto di vista storico e geografico, legata a doppio filo con quelle terre che lo scrittore non abbandonerà mai per tutto il corso della sua vita. Nella sua mancanza di universalità sta forse la maggior limitazione. Si ha l'impressione che i suoi personaggi restino in qualche modo estranei al sentire dell'uomo contemporaneo e che, sparito quel mondo, il messaggio di Faulkner non possa più esser compreso appieno.
Ciò nulla toglie alla indiscussa qualità di una prosa innovativa che invita a un maggior sforzo di attenzione. Tale sforzo verrà comunque premiato lasciando anche il lettore più esigente completamente appagato.
In questo Faulkner è senz'altro uno dei grandi maestri del '900 Americano.

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Luce d'agosto 2021-03-17 07:32:30 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    17 Marzo, 2021
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LA MALEDIZIONE DEL SANGUE

“Alle volte ho pensato come il diavolo l’avesse avuta vinta su Iddio.”

Jorge Luis Borges, uno che di letteratura se ne intendeva, diceva di conoscere due tipi di scrittori, quelli la cui principale preoccupazione sono i procedimenti verbali, la tecnica formale, in una parola lo stile, e quelli invece interessati prioritariamente alla storia e al carattere dei personaggi, e che solo pochissimi tra i grandi romanzieri del passato erano in grado di esaltare nelle loro opere entrambi gli aspetti contemporaneamente: tra questi riteneva che il più eminente e il più bravo fosse senza dubbio William Faulkner. Non posso che condividere appieno l’autorevole giudizio del grande autore argentino, ma mi piace altresì evidenziare, da appassionato lettore delle opere di Faulkner, un’ulteriore caratteristica che lo contraddistingue e lo rende un esempio forse più unico che raro nel panorama della letteratura moderna, il fatto cioè che il suo stile non si riproponga mai identico da un romanzo all’altro. Egli passa infatti dallo spericolato stream of consciousness de “L’urlo e il furore” (reso ancor più impervio dal fatto che nella prima parte ad esprimerlo sia un ritardato mentale) alla prosa barocca e spiraleggiante di “Assalonne, Assalonne!” (tutta frasi lunghissime, incisi su incisi, subordinate dentro subordinate, e parentesi che si aprono e sembrano non dover chiudersi mai), senza rinnegare, in “Santuario” e in “Luce d’agosto”, la maniera più classica e tradizionale, quella con il narratore onnisciente in terza persona. Faulkner è come quegli allenatori di calcio in grado di variare la disposizione tattica della propria squadra in base all’avversario che affrontano (passando dal 4-3-3 al 3-5-2 o magari al 4-3-1-2). Fuor di metafora, lo scrittore del Mississippi è capace di adottare in ogni suo libro lo stile di scrittura che meglio si adatta alle vicende raccontate; e, sebbene la mia personale preferenza vada pur sempre al Faulkner più inventivo e sperimentale, debbo riconoscere che quella di “Luce d’agosto”, fatta di atavismo e di ossessione, di fatalismo e di follia, di fanatismo e di violenza, è una storia narrata in modo meraviglioso e indimenticabile.
Numerosi sono i personaggi di “Luce d’agosto”, tutti in qualche modo randagi, forestieri, stranieri mai del tutto assimilati a quella comunità diffidente, ostile e bigotta che è la città di Jefferson (nella contea di Yoknapatawpha in cui Faulkner ha ambientato la maggior parte dei suoi romanzi): c’è Lena Grove, una ragazza in avanzato stato di gravidanza giunta a piedi dall’Alabama per cercare Lucas Burch, il padre del bambino che porta in grembo, il quale aveva mesi prima lasciato il paese natale alla ricerca di una sistemazione stabile per la coppia, ma che da allora non ha più dato notizie di sé; c’è Byron Bunch, uno “di quel genere di uomini che mai si riesce a vedere alla prima occhiata”, timido e commovente buon samaritano che prende a cuore la situazione della partoriente, sostituendosi per amore e per compassione, pur senza riporre nella donna e nel nascituro eccessive aspettative personali, alla figura vigliacca e fedifraga del di lei compagno; c’è il reverendo Hightower, un prete spretato e umiliato dalla comunità dopo lo scandalo della moglie adultera e suicida; c’è Joanna Burden, l’ultima erede di una famiglia di abolizionisti del New England, che vive sola in una grossa villa alla periferia della città, emarginata e malvista dalla gente del posto in quanto considerata “amica dei negri”. La figura cardine del romanzo, l’autentico motore della storia che ne determina gli esiti nefasti e fatali, è però Joe Christmas, personaggio irrequieto e ombroso, taciturno e sfuggente, dall’imperscrutabile “faccia nebbiosa”, il quale non è soltanto, come gli altri, estraneo alla comunità che lo ha accolto tre anni prima, ma lo è perfino nei confronti di se stesso. Egli è un personaggio profondamente, autenticamente tragico, perché, essendo stato abbandonato alla nascita e in seguito adottato da una rigida famiglia calvinista, soffre la sua condizione di ignoranza delle proprie origini. Pur essendo di carnagione chiara, egli cova da sempre il sospetto di avere dentro di sé una parte di sangue nero (in una terra e in un periodo storico – gli inizi del secolo scorso – in cui, ricordiamolo, essere di colore era un’onta irreparabile: basti pensare – per rimanere a Faulkner – ad “Assalonne, Assalonne!”, nel quale Henry Sutpen uccide il fidanzato-fratellastro della sorella, non tanto per impedirgli di commettere un incesto, quanto per la sua non evidente ma “colpevole” negritudine), ma quel che è peggio non ha la possibilità di stabilirlo con certezza. Questa indeterminatezza lo porta a non riuscire a considerarsi né bianco né nero, e a finire per odiare se stesso proprio come un bianco odierebbe, per atavico condizionamento, un suo simile dalla pelle più scura. La solitaria e selvatica scontrosità che lo contraddistingue si accende all’improvviso in fiammate di furiosa violenza, in cui Christmas sembra voler punire negli altri quel peccato originale che subodora in se stesso (e così, adolescente, picchia la prostituta nera nel corso del suo primo convegno carnale, oppure sfida provocatoriamente gli altri, confessando di essere un negro, a fare altrettanto con lui). Christmas è un personaggio dolorosamente scisso, incapace di mettere radici, febbrilmente autodistruttivo. Meglio sarebbe stato per lui avere la certezza di essere di colore, in questo modo almeno riuscirebbe ad essere qualcuno; invece così, in questa fatidica indefinitezza, egli non è nessuno, né bianco tra i bianchi, né nero tra i neri, un individuo sconsolatamente privo di identità, che colora con chiaroscuri violentemente drammatici il romanzo e che Faulkner esplora, scavando ostinatamente nei suoi più minuti e inconfessabili meandri psicanalitici, in una maniera straordinariamente contemporanea. C’è una grandiosità dostojevskijana in questa figura che si consegna fatalisticamente, con un omicidio assurdo e una ancor più assurda fuga, al profondo disprezzo e alla reazione parossisticamente violenta della collettività. C’è anche, più sotterraneamente ma in maniera a mio avviso non meno evidente, una dimensione per così dire cristologica. Le iniziali di Christmas (J. C.) rimandano infatti al nome di Gesù, così come l’età (30 anni) in cui giunge, dopo una anonima esistenza all’interno della famiglia adottiva, a Jefferson, la città in cui vive i fatidici tre anni che si concludono con il “calvario” del linciaggio; il “discepolo” Brown (alias Lucas Burch), che egli accoglie nel suo casotto facendone il socio in affari, lo tradisce inoltre proprio come Giuda, al fine di intascare la taglia di 1.000 dollari messa sul suo capo, mentre addirittura il nonno naturale di Christmas, Doc Hines, un fanatico religioso che nelle sue paranoiche allucinazioni parla a Dio del nipote, si sente da Lui rispondere: “Per ora l’ho segnato col mio marchio, poi lo farò conoscere”. Insomma, “Luce d’agosto” sembra una versione stravolta e sovvertita del Vangelo, dove all’immolazione dell’agnello sacrificale non segue alcuna redenzione, se non quella di una nascita beneaugurale (in un casotto di negri che è un po’ come la stalla dell’evangelica natività) e di una insolita “sacra famiglia” che, nelle pagine conclusive, si incammina verso il futuro senza mezzi e senza meta, ma fiduciosa nell’aiuto di una qualche provvidenza,
Con questo libro Faulkner non firma, probabilmente, il suo opus magnum, ma “Luce d’agosto” rimane lo stesso uno dei suoi romanzi più torbidamente e ambiguamente affascinanti: temi come il sangue, l’ereditarietà familiare, la corruzione morale, la hybris, la violenza, i pregiudizi sociali e razziali sono qui affrontati in maniera lucida e coraggiosamente anticonvenzionale, all’interno di un intreccio enigmatico, contorto e tumultuoso che si disvela lentamente, senza fretta, e poco alla volta, inesorabilmente, avvolge come un sudario i suoi personaggi, tutti quanti mossi da sentimenti, da colpe o da passioni archetipici ed assoluti, come se ci trovassimo di fronte non già a una storia ambientata un secolo fa nel profondo Sud degli Stati Uniti, ma a una tragedia greca o a un dramma elisabettiano.

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Luce d'agosto 2017-05-13 22:33:25 bluenote76
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bluenote76 Opinione inserita da bluenote76    14 Mag, 2017
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Sotto il Sole del Mississippi

Hai mai notato come la luce in agosto sia diversa da ogni altro periodo dell’anno?». Si racconta che sia grazie a questa casuale affermazione, fatta dalla moglie dell’autore durante una calda serata estiva, che William Faulkner decise di cambiare il titolo del suo settimo romanzo dall’originario Dark House (Casa Buia in italiano) a Luce d’agosto. In seguito critici e giornalisti formularono diverse supposizioni sul significato recondito del titolo e di come questo si potesse collegare agli eventi narrati nel volume. Tuttavia quando Faulkner verrà interrogato a riguardo, risponderà semplicemente che Light in August si riferisce alla particolare qualità della luce che illumina la sua terra (lo stato del Mississippi) nel mese di agosto «fulgida, nitida, come se venisse non dall’oggi ma dall’età classica». Titolo particolare per un libro, pubblicato in Italia da Adelphi a cura di Mario Materassi, con così poca luce e tante ombre. Faulkner scatta un’istantanea degli anni Trenta nel cosiddetto “Profondo Sud” degli Stati Uniti: gli stati sudisti, la parte del Paese più dipendente dalle piantagioni e dalla tratta degli schiavi, usciti pesantemente segnati dalla Guerra Civile. Il romanzo è ambientato per la maggior parte a Jefferson, immaginaria città dell’ancora più immaginaria contea di Yoknapatawpha, trasposizione letteraria della contea di Oxford, Mississippi, terra natale dell’autore. La povertà, si sa, è terreno fertile per la violenza. La segregazione razziale, il proibizionismo e la fede portata ai limiti del bigottismo completano il quadro di una realtà arida e in apparenza statica che traspare dai volti di pietra e dalle parole asciutte dei personaggi che si susseguono nel racconto. Tuttavia si tratta di un’immobilità solo apparente che cova la violenza come il fuoco sotto le ceneri, a cui basta un soffio di vento per divampare. La miccia di questo fuoco è un uomo taciturno, dal viso impassibile e un po’ malevolo che risponde al curioso nome di Joe Christmas. L’uomo, abbandonato in un orfanotrofio in tenera età, non sa nulla dei suoi genitori e approda a Jefferson in cerca di lavoro. La sua carnagione è troppo chiara per essere un uomo di colore ma Joe è tormentato dalla segreta convinzione di essere un meticcio, pur non avendo alcuna prova certa. L’America di allora non era certo il “melting pot” di oggi: la segregazione razziale aveva preso il posto della schiavitù, le unioni miste erano proibite ed essere mulatti significava essere in bilico tra due mondi, senza appartenere a nessuno dei due. Joe Christmas è forse uno dei personaggi più affascinanti creati dall’immaginario di Faulkner e principalmente perché è poco prevedibile. Nell’arco della sua vita, da capro espiatorio diventa carnefice e lo scrittore si astiene dal giudicare se alla fine sia una vittima o un colpevole.

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Luce d'agosto 2015-07-08 12:11:06 Anna_Reads
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    08 Luglio, 2015
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Un Bartleby dark e un po' Straniero

(Spoiler lieve).

Letto di slancio subito dopo aver finito "L'urlo e il Furore", devo dire che questo Faulkner mi ha convinto molto meno.
Ecco l'ho detto.
Via il dente, via il dolore.
Dopo le 200 pagine dell'Urlo non ero pronta ad abbandonare Faulkner e così mi sono impadronita di questo corposo tomo e, rassicurata anche da Vittorini ai dizionari, ho cominciato la lettura fiduciosa. (Va da sé che poi abbia letto che la traduzione di Vittorini sia addirittura accusabile di "scempio". Non mi addentro nel merito della questione perché non ne ho le competenze. Osservo solo che rispetto all'Urlo qui si vede sia uno scrittore che sta traducendo).
L'inizio è piuttosto particolare con questo strano e bizzarro personaggio di Lena Grove, giovinotta con avanzata gravidanza che muove – a piedi – dall'Alabama (siamo in Mississippi) alla ricerca del padre del suo bambino che è andato a cercare fortuna per poi mandarla a chiamare appena sistemato. Ma la "chiamata" ritarda e la nostra Lena decide di mettersi in moto in autonomia.
Ovviamente noi lettori e tutti i personaggi che incontra sappiamo perfettamente che il nostro si sia dato alla macchia, ma Lena no.
La nostra è circonfusa da una sorta di alone mistico o magico di serenità. Scivola sopra le brutture e gli sguardi cattivi della società (è sola, incinta e alla seconda occhiata tutti si accorgono che non sia sposata) e trova sempre qualcuno di buon cuore e generoso che le dia una mano. E sarà così fino alla fine.
(Insopportabile).
Poi, con un complesso gioco di anticipazioni, flashback esplicativi, la vicenda si dipana.
E a lungo ci dimentichiamo di Lena Grove, a vantaggio del protagonista della storia, che è Joe Christmas.
Piccolo orfano, dalla pelle bianca, ma – forse – dal sangue nero. Ripercorriamo la sua vita fin dalla più tenera infanzia in orfanotrofio, la fuga, l'agghiacciante adozione, la nuova fuga, fino al momento in cui lo ritroviamo adulto.
Joe Christmas ricorda, per certi aspetti, il Bartleby di Melville, un personaggio piccolo e oscuro, pacato e solitario, desideroso di nient'altro che della sua pace e delle sue abitudini, ma con una nota feroce ed irresoluta al fondo, che lo porta a commettere qualche brutale delitto.
La nota "irresoluta" di Christmas è il suo mancato senso di appartenenza, che lo costringe a nascondersi, ma anche a rivelarsi (è sempre lui che racconta la "vergogna" della sua origine) e che gli impedisce di accettare la generosità altrui, le poche volte che la incontra (la madre adottiva).
Il sangue nero – che gli hanno insegnato a temere e disprezzare – lo rende indegno di essere accettato. E quando apparentemente ciò accade, in realtà è solo in funzione proprio di questo sangue (l' "amore" esaltato e quasi feroce e fanatico di Joanna).

Quello che ho amato particolarmente, nella narrazione portata avanti da questo personaggio, è l'ineludibilità di quanto accade e gli accade. Christmas racconta le sue azioni e gli eventi come se fossero pre-destinate e come se lui non fosse altro che un occasionale spettatore. Non sappiamo mai che cosa prova, eppure apprendiamo quello che gli accade e ciò che fa dalla sua narrazione.
A volte dalle sue spesse parole.
Ho trovato estremamente "bella" questa parte e solo questa vale l'intera lettura del libro.

Ho invece faticato molto su altri passaggi.
Su tutti quelli relativi a Gail Hightower. Personaggio che entra in scena in quanto confidente dell'uomo che darà ricovero ed assistenza a Lena Grove; con il consueto sistema di anticipazioni e salti indietro apprendiamo di questo personaggio a partire dal nonno paterno ed è proprio lui, in un certo senso a "chiudere" la vicenda di Christmas.
Questa parte che avrebbe potuto essere grandiosa (solo pensando alle figure dei nonni del protagonista, ed in particolare, della nonna e del suo racconto), secondo me, non è sorretta dallo stesso stato di grazia che caratterizza la narrazione di (e su) Christmas. Pur mantenendo la coesione e l'interesse del lettore mi pare decisamente meno felice.
Poco appassionante (almeno secondo me) anche la storia di Joanna Burden.

Forse, sono mancati proprio – almeno secondo me – i personaggi femminili, in questa storia (del resto anche nell'Urlo era stato un po' così) con la mirabile eccezione della nonna di Christmas.
O forse, dopo l'Urlo avrei semplicemente dovuto lasciar passare un po' di tempo prima di tornare su questo autore.
Anyway, una piccola delusione da considerarsi tale solo dopo la grande esaltazione dell'Urlo e il Furore.
Adesso faccio la brava e lascio passare un po' di tempo.
Con Faulkner ci si rivede con Assalonne Assalonne e Mentre Morivo.
Ad Maiora, Will.

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Lo Straniero (Camus).
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