Lo squalificato
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Estraneo a se stesso
Tre taccuini riassumono il contenuto di una vita privata della propria essenza che vede Yozo, il giovane protagonista, squalificarsi e squalificato dall’ essenza della vita medesima.
Sin dall’ infanzia è posseduto da un senso di abbandono e di inadeguatezza, inviso alla società, impaurito dalla gente, impossibilitato a mostrarsi per quello che è, con un inevaso desiderio di entrare nelle grazie paterne, impotente di fronte alle cadenze dell’esistenza.
Ricerca l’ approvazione in un contesto sociale che rifugge, consapevole che gli uomini non sono né amabili ne’ amorevoli, ma egocentrici e individualisti, e che lui stesso non ha alcuna vocazione per l’ amicizia ne’ senso di appartenenza sociale.
Si nasconde da sguardi indiscreti, attiva una serie di meccanismi e un comportamento giocoso per essere apprezzato e ignorato al medesimo tempo, un depistaggio che tralasci la propria essenza.
C’è chi ha capito di chi si tratta, ma il futuro gli riserverà molteplici relazioni con donne affamate della sua adorabile fragilità, del suo fascino ombroso, donne di cui si prende giuoco e che considera poco attraenti, esposte alla propria costruzione narrativa irrisolta.
La passione per la pittura lo trascinerà in un vicolo cieco, uno scarabocchio piuttosto dozzinale, inabissandolo in un futuro di assoluta incertezza, l’ esercizio politica un fallimento.
Non gli resta che un percorso molesto e modesto votato all’ autoannientamento, tra prostitute, droga, alcool, cercando una redenzione impossibile, puntualmente il passato ritorna e quel non sense che rifugge la banalità del quotidiano e quelle vite semplici che nulla sembrano desiderare se non il piacere individuale.
Sin dall’ infanzia la vita di Yozo si è rivestita di vergogna, inadatta e infelice, la sua unicità non omologata, un giullare che nasconde l’ impossibilità di parlare con gli altri, e di che cosa dovrebbe discorrere, terrorizzato e affetto dalle proprie angosciose presenze?
Affina l’ arte del commediante eccentrico, ma è tutto un inganno, per arrivare a postulare, in un quotidiano di depravazione, l’ idea che una vita in carcere sia più interessante delle notti insonni vissute nel terrore di un reale inaffrontabile.
Lui stesso si descrive come una sorta di scemo incapace di nutrire amicizie, di amare, un apolide senza la capacità di distinguere le pareti domestiche dall’ esterno, senza un luogo dove rifugiarsi.
Trattasi di un egoista o semplicemente di un animo debole all’ eccesso, non sa chi realmente sia, i vizi lo trascinano in una sorte irrecuperabile, quella infelicita’ destinata al tramonto della vita.
Questa, in verità, è la sua versione dei fatti, cruda, pessimista, rassegnata, rari slanci emotivi e inadeguatezza alle autentiche gioie della vita, ma c’è anche la testimonianza di chi lo ha conosciuto e che di lui dice: …” fu colpa di suo padre… lo Yozo che noi conoscemmo era così bonaccione, così divertente e …. anche se beveva, era un buon figliolo, era un angelo”… Quale la verità vera?
Il romanzo di Dazai (1948), autore morto suicida in giovane età, esula da una certa letteratura giapponese fatta di attesa, silenzio, moderazione, grazia, dolcezza, per restituire il profumo di influssi culturali e letterari occidentali, un senso di smarrimento e di malessere identitario post bellico e la sua scrittura, viva, asciutta, realista, dai tratti marcati, ondivaga nella variazione dei toni umorali del protagonista, in cui si specchia l’autore, ci rimanda un testo piuttosto brioso, che richiama un malinconico pessimismo ma anche una certa dose di humour e profondità mai banalizzate, creando una miscela ben congeniata e di sicuro interesse.
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Era un angelo
In questo libro dal carattere fortemente autobiografico, Dazai rende il lettore partecipe di un malessere interiore dal detonante impatto emotivo. Attraverso il suo alter ego Yozo, Osamu racconta, in fantomatiche pagine di diario, lo strazio di un'esistenza vissuta ai margini di una società a cui non ha mai sentito di appartenere, in cui si è mosso da sempre ostentando un cinismo, un sarcasmo, una noncuranza che gli sono serviti da maschera, un mezzo artificioso per nascondere una fragilità, una sensibilità, un senso di disagio per i quali prova vergogna, al punto da arrivare a squalificarsi, a estromettersi volontariamente, ad autoescludersi da quella che, per i più, appare come la normalità, fino ad arrivare a compiere gesti estremi, fino a spingersi verso una direzione di non ritorno. I pensieri, gli episodi, i sentimenti del protagonista, appaiono a chiunque abbia voglia di informarsi sulla vita dell'autore, nient'altro che palesi proiezioni dello smarrimento che ha accompagnato Dazai per tutta la sua breve e inquieta esistenza, culminata a trentanove anni con un infausto suicidio realizzato con una modalità, guarda caso, raccontata con tragica prescienza nel libro in questione, seppur con esiti diversi. Ad accrescere il forte senso di empatia che scaturisce dalle pagine, ci pensa una prosa fine, delicata, intima, autoironica, in una confessione straziante senza mai sfociare nell'autocommiserazione, dura senza mai rinunciare ad una malinconica dolcezza, beffarda ma mai ridicola. Yozo, come Osamu, sa bene di non essere l'unico al mondo a soffrire, tuttavia è lucidamente capace di dimostrare le differenze che lo distinguono dal resto della sua stessa specie. Le sofferenze degli altri sono poca cosa, sono ben facili da sopportare, altrimenti non riuscirebbero a proseguire le loro vite dimostrando interesse per le piccole cose di ogni giorno, impegnandosi in questa insensata lotta per l'esistenza, invece di cadere nello sconforto, impazzire, uccidersi. Lui, invece, davanti alla vita, davanti agli altri esseri umani, è sempre sprofondato nel terrore, del tutto privo di fiducia in se stesso, costantemente impegnato a tenersi dentro le sue angosce solitarie, la malinconia, l'agitazione che lo tormentavano, evitando di farle trapelare all'esterno, mascherandole fingendo ottimismo, ingenuità, innocenza, recitando costantemente la parte dell'eccentrico. Da piccolo, in quel lasso di tempo relativo all'infanzia narrato nel primo taccuino, Yozo affronta l'esistenza con il piglio del pagliaccio, del buffone, convinto che tutto andrà bene finché riuscirà a far ridere gli altri, badando bene di divertirli senza però risultare molesto ai loro occhi, in modo da apparire solo come un piacevole diversivo, restando estraneo alle loro vite, suscitando il minimo interesse. Cresce in una famiglia benestante, con genitori rigidi, fratelli e sorelle ligi al dovere, riuscendo nello studio senza il minimo sforzo, ma sentendosi da subito diverso, inadeguato, pieno di spaventosi tormenti interiori. Nel secondo taccuino, dedicato alla giovinezza, il protagonista racconta di come la sua fuga dal mondo lo trascina in un baratro di alcool, droghe, dissolutezza. Andato via da casa per proseguire gli studi, fa la spola tra parenti, collegi, misere camere in affitto, con scarsi risultati dovuti non alle sue capacità, ma al suo atteggiamento distaccato, ozioso, autolesionista, fino ad arrivare al punto da attentare alla sua stessa vita. Il tragico episodio fa da spartiacque alla sua esistenza, portandoci nel terzo taccuino e nell'età adulta, in cui Yozo cerca di realizzarsi rispolverando il suo talento nel disegno, non già per divenire un pittore famoso come nei suoi sogni d'infanzia, ma per sbarcare il lunario con penose vignette pubblicate su squallidi giornali. I suoi tentativi di condurre una vita normale lo portano perfino al matrimonio e alla promessa solenne di ripulirsi, abbandonare i propri vizi, uscire dal suo stato di abbrutimento. Ma come è facile presupporre, sarà veramente difficile mantenere le aspettative. "Il mondo, in definitiva, restava sempre un luogo d’orrore insondabile. Non era affatto quel luogo d’infantile semplicità dove tutto si poteva risolvere con un’unica decisione, sul posto e sul momento." Ma il ritratto che il protagonista fa di se stesso è veritiero? Veramente il modo in cui si disegna in queste struggenti pagine di diario rispecchia il suo essere? Ciò che Yozo pensa di sé coincide con il modo in cui lo vedono, lo giudicano, lo considerano gli altri? Non può essere invece che, tutto preso dai suoi tormenti, dal suo malessere interiore, non si sia accorto delle qualità, della dolcezza, di tutto ciò che di positivo riesce a trasmettere? “Fu colpa di suo padre,” disse la donna imperturbabilmente. “Lo Yozo che noi conoscemmo era così bonaccione, così divertente, e sarebbe bastato che non si fosse messo a bere per… no, anche se beveva, era un buon figliolo, era un angelo."