Narrativa straniera Romanzi Lo splendore del Portogallo
 

Lo splendore del Portogallo Lo splendore del Portogallo

Lo splendore del Portogallo

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Siamo a metà degli anni novanta e i tre figli ormai adulti di una famiglia di coloni portoghesi in Angola sono stati evacuati a Lisbona. La madre è rimasta lì nel tentativo di salvare la vecchia piantagione, mentre infuria la guerra civile, che coinvolge molteplici fazioni e potenze straniere incluse Cuba, l’Unione Sovietica e il Sudafrica. È la guerra per l’indipendenza che si disintegra in violenza caotica, terrore e macelleria casuale. I tre figli sono il prodotto del sistema delle piantagioni dove gli africani servivano ancora come schiavi. Il più anziano, mulatto, è frutto di una relazione del padre con una prostituta africana e viene discriminato persino dalla sua stessa famiglia. La figlia è in pratica una prostituta d’alto bordo. E l’ultimo figlio, mentalmente disabile e rinchiuso in una clinica, infligge violenza sugli animali appena ne ha occasione. Attraverso i monologhi alternati dei quattro personaggi, questo romanzo traccia il tetro bilancio del processo storico di avvilimento di una categoria di esseri umani. I quattro narratori svelano le loro vite passate, lacerati tra la nostalgia per l’Africa della loro infanzia e la vergogna di ammettere che quel sogno era solo un orribile incubo.



Recensione della Redazione QLibri

 
Lo splendore del Portogallo 2019-05-16 16:49:00 Molly Bloom
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    16 Mag, 2019
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Valzer dei contrasti

"Ad ogni progresso essa (la vita) lega un regresso e ad ogni forza una debolezza; non dà a nessuno un diritto che non sia tolto ad un altro, non risolve un imbroglio senza creare un nuovo disordine e sembra addirittura produrre il sublime solo per ammucchiare alla prima occasione sul volgare gli onori che al sublime spetterebbero.”( Musil, L'uomo senza qualità).

Vorrei iniziare a parlare di questo libro partendo da questo citato di Musil che trovo particolarmente calzante. Che cos'è il giusto se non il torto dell'altro? o il bene se non il male dell'altro? Questo libro mette appunto uno di fronte all'altra il testa e croce di una moneta, moneta intesa qui come la colonizzazione. Da un lato c'è il Portogallo e i bianchi ricchi che sfruttano un territorio estraneo dall'altro c'è Angola e i suo popolo, cioè i sfruttati senza un passato e senza un futuro. Il libro narra il declino del colonialismo portoghese in Angola fino alla sua scomparsa attraverso le voci alternate di tre generazioni di coloni portoghesi: nonni- genitori- figli, percorrendo quindi non solo i fatti storici ma anche quelli personali, al punto tale da essere considerato anche una sorta di saga familiare, ma secondo me questo è l'ultimo piano di lettura sul quale concentrarsi. Troveremo uno splendore del Portogallo in Angola sbiadito, ricordato, posto sempre in contrasto con lo squallore e la miseria attuale che sembra avergli preso posto, e troveremo dei personaggi smarriti tra le rovine, su una terra che non è la loro e non li accetta riversando ormai su di essi proprio questi onori ormai ceduti dal sublime al volgare, come appunto si esprime Musil. E non hanno nemmeno una terra di origine, il Portogallo europeo, dove "ci guardavano come essere primitivi e violenti che accettavano l'esilio in Angola per scontare oscure condanne lontano dalla famiglia, da un qualche paese allo sprofondo da cui provenivamo, abitando in mezzo ai negri e alquanto simili a loro" è altrettanto ostile nel loro confronti.

Suddiviso in tre parti, esse vengono narrate attraverso la voce dei tre fratelli, uno alla volta a testimoniare la sua realtà, voci che vanno ad alternarsi con quella della madre presente lungo l'intero libro e che fa da eco anche ai nonni, la madre rappresentando una sorta di ponte tra il presente e il passato e che aiuta a fonderli e a capire l'intero quadro che il lettore ha il compito di comporre per trarre poi le proprie conclusioni.

Prima ho detto che concentrarsi solo sulla saga familiare è un peccato, eh si perché i fatti esposti sono narrati in esplosioni di flussi di coscienza, alternati nel tempo e nello spazio, ognuno di essi dando il suo contributo al quadro finale, completando una lacuna oppure bilanciando un contrasto, dando il proprio punto di vista che spesso è opposto a quello degli altri. E' una tecnica narrativa non amatissima dai più perché serve concentrazione e impegno da parte del lettore, che ha quindi una parte attiva nel mettere insieme i pensieri ma qui non serve allarmarsi perché Antonio Lobo a quanto pare ci vuole bene e ci viene incontro: quando durante la frase cambia la persona o il contesto, cambia anche la forma del testo o attraverso corsivo iniziando un altro paragrafo o attraverso parentesi, è sempre visivamente presente il cambio marcia, come mi piace chiamarlo. (I lettori di Ulisse di James Joyce troverà questa prosa di Antonio Lobo quasi uno scherzetto se paragonata al flusso di coscienza di Stephan Dedalus, per citare uno tra i più contorti del libro). Ovviamente l'attenzione serve sempre, anche solo per poter portare avanti i piani di lettura perché in ogni capitolo, la narrazione è "ballerina" saltando dal presente al passato, amalgamati armoniosamente con qualche leitmotiv che si ripete e si trasforma. E' davvero impressionante la penna di Antonio Lobo dove ogni parola non è a caso e ogni frase o metafora oppure espressione che lì per lì possa sembrare strana, state certi che ritornerà con più carica espressiva tra le pagine, nulla viene lasciato al caso e tutto si fonde alla perfezione in un ordine precisissimo nonostante il caos apparente. Una parola in particolare si ripete spesso: lo specchio, elemento carico di simbolismo nella letteratura e che va a rafforzare ancor di più questa danza dei contrasti e illusioni che è presente nel libro: nello specchio ogni cosa viene riflessa per il suo inverso, rappresenta l'altro lato della moneta di cui parlavo metaforicamente all'inizio.

L'autore ha visto con i propri occhi gli orrori denunciati in questo libro pertanto a mio avviso sono da prendere come reali testimonianze, vi riporto un brano molto forte e brutale e che riassume anche ciò che ho detto in merito alla sua tecnica narrativa. Non è un brano corto perché Antonio Lobo è un "diesel" della scrittura nel senso che il meglio di sé lo da su lunghe "tratte", parte lentamente per poi portarci sempre e sempre più lontano in un crescendo di espressività, tensione e rabbia:

"Avrei dovuto avere il sospetto che per me l'Angola era finita quando ammazzarono quelli che abitavano due fazendas a nord della nostra, l'uomo riverso a testa in giù sui gradini, cioè inchiodato ai gradini con un bastone da tenda infilzato nella pancia, la donna nuda bocconi nella cucina sottosopra, ben più nuda che se fosse stata viva, senza mani, senza lingua, senza seno, senza cappelli, tagliuzzata con i trinciapolli e un collo di bottiglia che le spuntava fra le gambe, la testa del figlio più grande che ci fissava da un ramo, il corpo che la sega elettrica aveva ridotto a fette sparpagliato nell'aiuola, quello più giovane nel retro
(dove il pomeriggio prendevamo il tè insieme a loro, mangiando biscottini e rinfrescandoci con ventagli di rafia)
con le budella mescolate a quelle del cane, ditate di sangue sulle pareti, i mobili ribaltati, le cornici a pezzi, le tende delle finestre spalancate che spazzavano via il silenzio e l'odore delle viscere (...)
io che avrei dovuto avere il sospetto che l'Angola per me era finita e avrei dovuto andarmene il giorno in cui il ragazzino bailundo di otto o nove anni con un sacco di fagioli rubato sottobraccio, accostato al granaio sotto il fucile del caporale, mentre mio padre, con la fondina sganciata, attenuava l'odore dei cadaveri affondando il viso nel fazzoletto e diceva al caporale
-No
il giorno in cui il ragazzino bailundo ammazzò decine e decine di bianchi (...) non masnade di selvaggi ubriachi, non gruppi organizzati dai comunisti russi o ungheresi o rumeni o iugoslavi o bulgari, mica una lega, un movimento, un partito che volesse comandare in Angola, decidere dell'Angola, sostituirsi alle compagnie, negli uffici pubblici, negli studi, impossessarsi di case e fattorie, ammucchiarci sui moli abbracciati a schifezze senza valore, cacciarci, non l'odio o la vendetta
(perché santo Dio, vendetta perché?)
o l'impotenza o la rivolta contro di noi ma solo un ragazzino bailundo di otto o nove anni con un sacco di fagioli sottobraccio, un semplice ragazzino con la chioma scolorita nascosto nella foresta come un tasso, un cucciolo di donnola, un riccio, un semplice ragazzino sotto il fucile del caporale, mio padre con il fazzoletto sul viso
-No
lì a garantirci che l'Angola per me era finita, non soltanto la Baixa do Cassanje, il nostro cotone, il nostro riso, il nostro granturco, l'Angola,l'Angola intera (...) il ragazzino bailundo lì a rovesciarci i divanetti, le angoliere, le poltrone, l'orologio, la terrina giapponese nella credenza a vetri che solo mia madre, con premure da orefice, si permetteva di pulire, il ragazzino bailundo con la chioma scolorita e la pancia dilatata dalla fame, un sacco di fagioli rubato sottobraccio, che si avvicinava a mia madre con un collo di bottiglia, le strappava il vestito, la spogliava, la rendeva più nuda che se fosse stata viva, nuda in maniera svergognata, oscena, con il caporale che tirava la culatta del fucile e io lì a bloccarlo
-No
non mio padre con il fazzoletto sul viso desideroso di sedersi, di fuggire, (...) il ragazzino che mi ha ammazzato, mi ha rincorso per ammazzarmi e ha mescolato le mie budella con le budella del cane, il ragazzino bailundo accostato al granaio a ciò che restava del granaio con il sacco di fagioli rubato sottobraccio lì a fissarmi come se accettasse
no, non come se accettasse, accettando
senza una parola un cenno un tentativo di fuga che io estraessi la pistola dalla fondina di mio padre, sganciassi la sicura
tic
puntassi
tic
ritraessi l'indice
tic
il ragazzino di otto o nove anni che continuò a fissarmi mentre scivolava lentamente contro il granaio come scivola una goccia di cera o di resina, come scivola una lacrima fino ad ammucchiarsi per terra."

...eh, che vi avevo detto? Tosto, molto tosto e questo è solo un piccolo frammento che comunque tolto dall'insieme perde molte sfaccettature, come ad esempio la parola onomatopeica "tic", oltre ad avere il significato eloquente e forte qui nel finale del capitolo, all'inizio è presentato come il rumore dell'apertura e della chiusura a perline della borsetta della madre della voce narrante, rumore confortante che la figlioletta amava particolarmente, in netto contrasto con la valenza finale.

E' un libro che ha dentro tutto: storia, una bella prosa poetica e originale, spunti riflessivi, una forma originale e intelligente che non serve solo a rendere diverso un testo ma lo accelera e rallenta, lo fortifica e rende fragile, una forma insomma che segue la sostanza e ne detta i ritmi, come ogni canzone che ha una melodia che valorizza il testo stessa cosa succede con la forma di un romanzo. Ci sono sentimenti, intrighi, c'è una nonna tradita e frivola che assieme al marito educa male la figlia che a sua volta si dimostra essere un fallimento sia come mamma ma anche come moglie, tra l'altro moglie di un alcolizzato, dei figli di cui uno illegittimo, uno epilettico e l'altra di facili costumi, con problemi caratteriali sicuramente determinati da genitori assenti che vivono nei loro drammi spesso in apatia e si nutrono di ricordi, troveremmo infine una colonia portoghese che cerca di arricchirsi sfruttando un paese debole e di nessuno, colonia che a sua volta viene sfruttata e schifata dal Portogallo europeo. Non ho trovato nessun colpevole oggettivo, identificabile ma solo vittime di un effetto domino che una colpa universale e sconosciuta ha avviato, magari un Dio vecchio come si esprime l'autore nel libro:

"il nostro male
spiegava mio padre
è che siamo nati da un Dio vecchio come altri nascono da genitori vecchi, che siamo nati quando Dio era ormai troppo anziano, egoista e stanco per preoccuparsi di noi, un Dio che ascoltava i propri organi con dolente attenzione, l'autunno dello stomaco, i lamenti del fegato, la cipolla o il crisantemo di lacrime concentriche del cuore, un Dio del tutto dimentico di se stesso e di noi che ci considerava dalla sua poltrona di ammalato con stupore sgomento
spiegava mio padre".

La lettura mi ha lasciato un senso di sconforto e tristezza e pena per i personaggi ma anche una pena generale in quanto situazioni simili esistono realmente nella vita, da "comuni" incomprensioni tra padri e figli fino ai crimini di guerra e si vorrebbe tornare il tempo indietro, ritrovare una felicità persa o aggiustare le mancanze o le colpe ma non si può, e allora come fare?

Pubblicato per la prima volta nel 1997, è un prezioso libro di un autore che è considerato dalla maggioranza il più importante scrittore portoghese in vita, più volte candidato al premio Nobel, amico di José Saramago ma non particolarmente influenzato dalla sua prosa. Questo è il mio primo libro che leggo di Antonio Lobo e da subito ho notato la similitudine con William Faulkner e in particolare con "L'urlo e il furore", utilizzando volutamente o non lo stesso stile e la stessa coralità di voci, però in maniera più semplificata, Faulkner essendo (forse) più impegnativo. In una intervista del 2014, Antonio Lobo afferma che «Il libro non è qualcosa che deve essere letto, è un oggetto che ascolta. Siamo noi lettori che parliamo con lui. Il libro è qualcosa che mettiamo contro un orecchio per udire il rumore del mondo». 

Il titolo, "Lo splendore del Portogallo" è un verso dell'inno nazionale del Portogallo, infatti prima dell'incipit ne viene riportata la prima parte che lo include; che Antonio Lobo abbia voluto che questo libro sia altrettanto un inno?!... dedicato magari alle vittime e quindi al prezzo pagato per un pezzettino di storia e di gloria portoghese? Certo è il fatto che ho letto un grande libro e scoperto un nuovo e valoroso autore che meriterebbe più attenzione in Italia.

Ultima precisazione con la quale desidero concludere è che trovo meravigliosa la scelta della copertina di questa edizione! Molto bravi gli editori. Non abbiamo il Portogallo colorito di Pessoa o di Tabucchi ma un Portogallo bianco e nero, sembra una foto ricordo di tanto tempo fa o una cartolina vecchia e impolverata, dove un rinoceronte (che nel libro compare come ninnolo-ricordo in un appartamento a Lisbona) e posto faccia a faccia a un tram (anch'esso descritto brevemente nel libro), altro bellissimo contrasto a sottolineare che qualcosa o qualcuno è fuori posto.

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William Faulkner
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