Le storie di Giacobbe. Giuseppe e i suoi fratelli
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DIETRO LE QUINTE DEL TEMPO
“Da molto tempo siamo in cammino e la stazione ove fugacemente sostammo è ormai dietro di noi, l’abbiamo dimenticata; […] Dura da troppo tempo il viaggio? Nessuna meraviglia, perché questa volta si tratta di una discesa agli inferi! Si tratta di discendere, insieme a noi che impallidiamo, giù nel profondo, lontano dalla luce, nella voragine del pozzo del passato che nessuno ha mai scandagliato.”
Nel prologo de “Le storie di Giacobbe” Thomas Mann affronta, con un piglio esplicitamente filosofico, un tema che nei suoi romanzi gli è sempre stato molto a cuore, quello del tempo. Il passato, afferma lo scrittore di Lubecca, è imperscrutabile come la buia voragine di un pozzo profondissimo. In un libro, come la Bibbia, che si propone di raccontare la storia dell’intera umanità, personaggi come Adamo, Noè o Abramo, ed episodi come il diluvio universale, la costruzione della torre di Babele o la distruzione di Sodoma e Gomorra, hanno una evidente matrice leggendaria, mitologica, archetipica, che si perde nella notte dei tempi, tanto è vero che, come con una gran dovizia di riferimenti bibliografici lo stesso Mann rivela, in tutte le culture antiche gli stessi personaggi e gli stessi episodi ricorrono con impercettibili e poco significative differenze. Cosa fare allora se si vuole raccontare le origini della nostra civiltà? Mann decide, consapevole che è impossibile scandagliare le più remote profondità del tempo antico, di partire da un punto arbitrario della storia, e sceglie Giuseppe, figura forse non meno mitica dei suoi antenati, come scaturigine, come sorgente della sua ricerca storica e individuale. E delle poche pagine a lui dedicate nella Bibbia fa l’oggetto di una imponente, monumentale tetralogia, di cui “Le storie di Giacobbe” costituiscono soltanto il primo libro. Il ciclo di Giacobbe dell’Antico Testamento, che occupa approssimativamente i capitoli dal 25 al 35 della Genesi, è caratterizzato da un curioso tono da romanzo d’appendice: vi si rinvengono infatti episodi apparentemente poco “biblici”, come una primogenitura barattata con un piatto di lenticchie, una benedizione estorta con un inganno simile a quello ideato nell’Odissea da Ulisse ai danni di Polifemo, o ancora una sfida tra le due mogli (e le rispettive schiave) di Giacobbe per dare all’uomo più eredi possibili e acquisire così ai suoi occhi un maggiore prestigio. Forse è proprio questa storia così aneddotica e movimentata ad avere stimolato la fantasia di Mann, che ha voluto vedere in Giacobbe e Giuseppe, uomini dalle passioni e dagli istinti così simili ai nostri, dei pretesti ideali per narrare una vicenda antica e leggendaria con un piglio realistico e moderno. Ciò che fa Mann è relativizzare il mito, umanizzandolo, togliendogli ogni polverosa e stantia aura di sacralità e aggiungendoci anzi un tono a tratti umoristico, del tutto insolito nelle opere manniane. L’intendimento dello scrittore tedesco è di fornire non una versione autentica (la sua non è, in mancanza di documenti e testimonianze scritte, una ricostruzione storica) bensì una versione verosimile, psicologicamente plausibile, anche se egli non esita ad affermare senza mezzi termini che “ora spiegheremo come i fatti realmente si svolsero”. A Mann interessa lo studio degli animi di Giacobbe e di Giuseppe, e in base a questo assunto arricchisce, e in alcuni casi addirittura rovescia, i fatti sinteticamente narrati dalla Bibbia. Questi infatti non possono che essere esposti in maniera asettica e concisa, in quanto prevale nel Libro Sacro un intento pedagogico e simbolico. Mann invece fa letteratura, non esegesi religiosa, ed episodi su cui la Bibbia sorvola o a malapena fa un rapidissimo accenno per dovere di cronologia, diventano in Mann il fulcro stesso della narrazione. Ad esempio, in Genesi 29 si legge: “Così Giacobbe servì sette anni per Rachele: gli sembravano pochi giorni tanto era il suo amore per lei”, mentre Mann si guarda bene dal liquidare frettolosamente il periodo di attesa forzato di Giacobbe presso Labano, ma al contrario riflette a fondo sulle modalità e sul senso del trascorrere del tempo, le cui grandi unità passano alla fine come le piccole, a partire da ogni singolo giorno della nostra vita, che percorre anch’esso le sue stagioni costituite dal mattino, dal mezzogiorno, dal pomeriggio e dalla sera, fino ad arrivare a un periodo temporale così lungo. Gli anni di servizio di Giacobbe presso il futuro suocero vengono affrontati da Mann senza impazienza, diluendo il racconto in capitoli quasi privi di avvenimenti, eppure minuziosamente pieni di suggestioni di carattere etnografico, culturale o religioso, generando in tal modo uno stato, prendendo in prestito le parole di Schopenhauer, di “noia che incanta”. Allo stesso modo i personaggi dell’Antico Testamento acquistano miracolosamente vita, profondità psicologica, ricchezza di sentimenti ed emozioni, sfumature di carattere sorprendenti ed inattese, fino al punto che, senza che venga stravolto il senso biblico, le figure dei patriarchi vengono per così dire smitizzate, prosaicizzate, recependo realismo e tridimensionalità e assumendo quasi le sembianze di nostri contemporanei in carne e ossa. Così Giuseppe appare come un giovane amabile e soave, ma anche un po’ “scioccherello”, con un eccesso di sentimentalismo e una deleteria inclinazione alla delazione che lo rendono a tratti insopportabile e che ci fanno comprendere come i suoi fratellastri lo detestino visceralmente; e Giacobbe è sì una figura dignitosa e solenne, espressivamente potente e drammatica, con una vita interiore complessa e profonda, ma, pur essendo indubitabilmente retto ed onesto, è anche un uomo che oggi chiameremmo “fondamentalista” o “talebano”, con in più una tendenza ad autoassolversi da debolezze, vigliaccherie, e perfino da truffe, inganni e comportamenti al limite del moralmente riprovevole, purché perpetrati per adempiere a una presunta volontà del Signore. Grazie al realismo della narrazione, Giacobbe e Giuseppe diventano così (come ben evidenzia Fabrizio Cambi nella prefazione all’edizione Mondadori da me letta) il “soggetto” e non più l’”oggetto” del mito.
Alla luce di quanto detto sopra, alcuni episodi acquistano una luce completamente diversa da quella tramandata dalla tradizione. Si pensi alla benedizione di Giacobbe da parte di Isacco, estorta – come ben sappiamo – con un palese inganno. Per Mann la cecità del vecchio patriarca è quasi simbolica, è la cecità di chi non vuol vedere le cose che gli danno tormento, è un mettere la testa sotto la sabbia per far sì che accadano senza la propria responsabilità le cose che devono accadere. Egli diventa cieco perché deve venire ingannato insieme con Esaù, il quale a sua volta è conscio che tutto ciò che avviene è l’avverarsi di un destino, e così egli si adira sì per la beffa perpetrata a suo danno, ma in cuor suo sa che Giacobbe, il fratello minore, era il logico destinatario della benedizione paterna, secondo un prototipo affondato nel passato che ritorna incarnato nel presente. La storia di Israele, per Mann, è un avvicendarsi di archetipi (il sacrificio del figlio primogenito, la cacciata nel deserto del figlio “maledetto” in favore del figlio “vero”, ecc.) che devono giocoforza realizzarsi per rispettare una tradizione mitica affondata nel passato, dietro le quinte del tempo. E non vale neppure chiedersi se le cose tramandate siano veramente successe, perché l’io dei personaggi di Mann “uscendo da sé si perdeva all’indietro nella dimensione primordiale e prototipica, come in un mare”. Così, quando Isacco parla di un bambino sul punto di essere immolato è irrilevante domandarsi se quel bambino era effettivamente lui, “perché un altro bambino destinato al sacrificio non avrebbe potuto essere più estraneo alla sua vecchiaia, più esterno al suo io, del bambino che egli stesso era stato una volta”. L’io dei personaggi manniani è estremamente fluido, la loro identità personale è aperta e non circoscritta, di modo che la storia degli antichi patriarchi diventa l’esperienza individuale stessa dei loro discendenti: non è un caso che l’Eliezer schiavo di Giacobbe si attribuisca i fatti che erano stati appannaggio dell’Eliezer servo di Abramo; e che Giacobbe possa raccontare la storia del tentato sacrificio del proprio figlio Giuseppe come una ripetizione di quello di Isacco da parte di Abramo, in uno schema mitico che rafforza la tradizione da trasmettere ai posteri, la quale rappresenta a ben vedere il collante religioso, ideologico e culturale che da millenni tiene insieme il popolo di Israele. Allo stesso tempo questo schema permette di superare le incongruenze e le inverosimiglianze della narrazione biblica, di modo che Mann può permettersi di assumere come “reali” certi episodi senza dover preoccuparsi di accettare fino in fondo la loro effettiva e concreta realtà, in quanto, inverandosi nel presente, il mito si trasforma ineluttabilmente in storia.
“Le storie di Giacobbe” è un testo che descrive molto bene la nascita e lo sviluppo di una religione così esclusiva come l’ebraismo, cresciuto all’interno di una intricata moltitudine di culti mesopotamici, egizi e di altri territori limitrofi, una religione che all’inizio, in uno stadio primitivo, risente dell’influenza di altre divinità “concorrenti” e che piano piano abbandona i suoi tratti primitivi (ad esempio quelli più vendicativi e guerreschi, per non parlare di sentimenti come la gelosia, che porta Dio a punire l’eccessiva venerazione di Rachele da parte di Giacobbe con la sterilità della donna), per arricchirsi progressivamente di spiritualità e di santificazione. Ma non si deve credere che il libro di Mann sia solo il saggio erudito di uno studioso di religioni antiche, nonostante si intuisca nelle sue pagine un enorme e scrupoloso lavoro di documentazione. “Le storie di Giacobbe” è infatti soprattutto un romanzo in cui il lettore ha la possibilità di abbandonarsi con voluttà alle tante vicende che, come un eroe epico o picaresco, Giacobbe si trova ad affrontare nel corso della sua lunga esistenza. Concitati inseguimenti nel deserto e sanguinose carneficine, nascite esaltanti e tragiche morti, sogni inebrianti e loschi raggiri si susseguono senza tregua come in un feuilleton ottocentesco. Manniano fino al midollo per l’apollinea perfezione dello stile ma anche quanto di più diverso da ogni altra opera dell’autore tedesco, raffinato ed elegante fin quasi a sfiorare la maniera e al contempo popolare come un romanzo d’appendice, sapientemente enciclopedico e insieme gustosamente romanzesco, storicamente documentato e ciononostante fiabescamente fantastico, “Le storie di Giacobbe” è uno strano, affascinante ibrido letterario, un unicum nella storia della narrativa del Novecento, capace per tutte le sue 350 pagine di non far mai rimpiangere le vette toccate da Mann un decennio prima con “La montagna incantata”.
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Il maggiolino matto matto
Se c'è un autore che si trasforma e cambia in ogni suo libro, allora lui è Thomas Mann, almeno tra quelli da me letti. Marcel Proust dice che uno scrittore scrive sempre gli stessi libri e pensandoci ha ragione. Nella mia esperienza di lettrice riesco a riconoscere un autore (già letto in precedenza ovviamente) prima ancora di sapere il testo che ho in mano e se non lo riconosco, non appena ne vengo a conoscenza della sua identità riconoscerò subito le similitudini con gli altri suoi scritti: stile o temi che siano, i libri sono stigmatizzati quasi sempre. Tranne Thomas Mann. Non ho letto tutta la sua opera e spero di poterlo fare nel tempo, ma basandomi sui quattro romanzi letti, tutte e quattro sono diversi! Grandissimo pregio per uno scrittore, che in questo ultimo mi ha sorpresa non poco perché chi se lo aspettava un Mann cosi?! Io no e anche molti di quelli che hanno tentato e poi abbandonato la lettura di questo volume.
Dico volume perché "Le storie di Giacobbe" è il primo volume della tetralogia "Giuseppe e suoi fratelli", ultima opera compiuta dall'autore e definita da lui stesso il suo lavoro migliore. In una parola riassuntiva dico solo che racconta in chiave romanzesca le vicende di Giacobbe e di suo figlio Giuseppe narrate nel vecchio testamento, e già qui tutti a pensare "che due mongolfiere multicolori" io stessa per prima! Però ti dici "Caspita, però è firmato Thomas Mann, colui che ha scritto La montagna incantata, e se lui dice di aver scritto un grande libro, addirittura superiore alla Montagna, qualcosa di buono ci sarà" e allora inizi con fiducia la lettura.... Ogni inizio è difficile e questo ancor di più, perché dopo un incipit che incuriosisce seguono pagine e pagine pesantissime di un prologo che non finisce mai e ti svena, pieno zeppo di riferimenti della Bibbia, delle nazioni di allora e dei loro déi, insomma arrivi a leggere ormai il primo terzo (che non poco) del volume e la storia non cambia. E ti chiedi a questo punto, "Ora che faccio? mollo o non mollo?" e tra i dubbi amletici ecco che finalmente la storia sembra cominciare, il motore s'avvia, un po' singhiozzante ma la macchina parte per poi fermarsi dopo qualche centinaio di metri e noi di nuovo lì a spingere e cercare lottare con il tomo. Però ancora non sappiamo che la macchina che abbiamo è un Herbie il maggiolino matto e tutt'ad un tratto parte in picchiata a nostra sorpresa, dall'idea ormai di libro noioso, carico di erudizione come se Mann ormai alla fine della sua carriera volesse pavoneggiarsi del suo inutile sapere e decisamente sopravvalutato. E invece, ta ta ta tammm sorpresa! Scopro un Mann frizzante, leggero, di un umorismo spettacolare che mai mi sarei aspettata, anche se Settembrini e Peeperkorn erano abbastanza birichini, che riscrive in chiave ironica e divertente un frammento della Genesi. E quindi passi da una noia mortale che sei lì lì a mollare ad una divertente, piacevolissima e intelligente lettura che ti tiene incollato al libro, un Herbie che speri non si fermi mai. Lo so, un commento scritto di pancia ma che riflette o quanto meno spero, la giocosità e la piacevolezza del libro.