Le persiane verdi
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Alla ricerca della pace
Il libro ritrae la figura immaginaria di Emile Maugin, un immaginario attore teatrale celebre in tutto il mondo che dopo una vita dedicata al lavoro, scopre di essere affetto da una malformazione cardiaca. Maugin è un uomo che si è costruito da solo e che vive il suo successo senza sosta e con tutti gli eccessi che ne conseguono. Quando si accorge di non avere più tempo, inconsciamente la sua mente va a ciò che ha sempre desiderato, ma mai avuto: la pace dell’anima, simboleggiata da una casa con le persiane verdi.
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Il grande Emile Mauguin
La casa editrice Adelphi si è assunta il compito di ripubblicare l’intero considerevole repertorio di Georges Simenon, un lavoro enorme che ha portato agli occhi dei lettori per lo più opere di elevata qualità, anche se alcune si devono giudicare onestamente mediocri; è stato dopo la delusione di due sue raccolte di racconti che mi sono imbattuto in questo romanzo, che non è giallo e nemmeno noir, è semplicemente la storia di un uomo, passato dalla miseria alla ricchezza, che fugge non sa nemmeno lui da cosa, ma che cerca disperatamente di dare un senso alla sua vita. Emile Mauguin è un celebre attore teatrale e cinematografico, idolatrato e temuto, un uomo che, venuto dal nulla e dalla fame, può ora disporre di tutto ciò che desidera, tranne che della serenità. E’ uno che prende, e se dà lo fa facendo cadere la sua elemosina come un dono del cielo, e perciò, proprio per questo, non ha in pratica amici, insomma è un uomo solo. Dopo diversi rapporti con non poche donne ha sposato una molto più giovane di lui, con una bambina che ha avuto da un altro uomo, e benché la moglie gli possa apparire fedele lui non ha perso l’abitudine di avere rapporti con altre, ivi compresa la cameriera; un altro vizio a cui si abbandona con eccesso, in una vita di tutta di eccessi, è il vino, quello rosso, non necessariamente di qualità. La visita di un medico specialista, un famoso luminare, gli porta la ferale notizia che, nonostante lui abbia quasi sessant’anni, ha il cuore di uno di settantacinque e quindi se vuole avere la speranza di andare avanti deve necessariamente limitare o eliminare gli eccessi. E’ più facile da dire che fare per uno che, grande attore, ha finito con il mescolare le sue caratteristiche di uomo con quelle dei personaggi interpretati, in cui sono inconfondibili i tratti autoritari che lo contraddistinguono. Riesce a contenere l’abuso del vino, ma è evidente che non basta, che occorre darsi una calmata, gratificarsi di un po’ di riposo ed è così che, memore del desiderio della sua prima moglie di una casetta, lontana dalla ribalta e con le persiane verdi, prende in affitto una villa ad Antibes, con vista sul mare, ma con le persiane azzurre. Si accorge che è tempo per fare un bilancio della propria vita, quello che prima saltuariamente gli riusciva in sogno immaginando di essere l’imputato di un processo i cui giudici erano tutte le persone che aveva conosciuto. In realtà questo è il frutto di una sua costante paura della morte e del desiderio, quasi inconsapevole, della pace dell’anima, simboleggiata da una casetta con le persiane verdi. Non si può tornare indietro, però, e si arriva così prima o poi al momento in cui ciò da cui si fuggiva, andandovi inconsciamente incontro, diventa vicinissimo e allora non ci si può sottrarre alla sconfitta, ci si lascia andare e tutto ha una fine e un fine, perché, come scriveva Ungaretti (Sono una creatura -Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916), “la morte si sconta vivendo”.
Il romanzo è semplicemente bello, ma le ultime pagine sono altamente struggenti, finiscono con il commuovere e nell’ingenerare nel lettore un profondo senso di pietà per questo uomo massiccio, spigoloso, scorbutico, ma infinitamente solo.
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Io sono Maugin, il grande Emile Maugin! Emile!
Quando sentiamo parlare di George Simenon immediatamente il nome che ci sovviene alla mente è quello del commissario Jules Amédée François Maigret. E come potrebbe essere diversamente viste le innumerevoli trasposizioni su pellicola e visto e considerato che ad oggi si contano un totale di settantacinque romanzi – scritti tra il 1930 e il 1972 – con questo personaggio quale protagonista? Eppure, in verità, la produzione di Simenon è così vasta da toccare talmente tante tematiche e da veder creati talmente tanti eroi (che si muovono nello spazio, nel tempo, nei ruoli), che nonostante la sua morte occorsa nel 1989, a tutt’oggi, continuano ad essere riproposti vecchi e nuovi scritti il cui successo è assicurato.
Fra le tante idee e fra i tanti uomini nati dalla sua immaginazione, vi è lui: Émile Maugin, il signor Maugin o semplicemente Émile, il grande attore dalla corporatura massiccia, la faccia larga, i lineamenti da imperatore romano, i grandi occhi, quella smorfia particolare che al tempo stesso fa pensare a un mastino ringhioso e a un bambino infelice, i modi goffi e maldestri, il temperamento autoritario e con al posto del ventricolo sinistro «una specie di pera molle e avvizzita»! Biguet, il medico a cui si rivolge e con cui l’opera si apre, è chiaro ed inequivocabile nella sua sentenza di condanna: «Maugin, lei mi ha detto poco fa che ha cinquantanove anni. Ma il cuore che avevo davanti era quello di un settantacinquenne». L’unico modo che questo eclettico protagonista ha per continuare a vivere è quello di essere prudente, limitando gli eccessi, evitando una vita frenetica, avendo riguardi. Ma come può, lui, il grande Maugin, limitare gli eccessi, evitare una vita frenetica, avere riguardi quando la sua vita è stata interamente improntata a darsi agli eccessi, condurre una vita frenetica e non avere riguardi? Come può, lui il più richiesto, il più famoso interprete di teatro e cinema, rinunciare al cognac, a quei due canonici bicchieri di vino rosso (mai bianco, mai!), alle donne e al sesso libero coniugale e non, al suo recitare e alla sua fama? Non può, non può!
Tuttavia, Maugin inizia ad essere stanco. Stanco «da morire. Stanco di essere uomo. Stanco di reggersi in piedi. Stanco di vedere e sentire individui come Cadot, e di doversene per giunta fare carico», tanto che il ricordo dimenticato di quelle “persiane verdi” riaffiora incessantemente nella sua psiche. Il senso di colpa lo attanaglia. Ha inizio il processo. Un processo che ha luogo interamente nella sua mente e dove lui, l’imputato, è chiamato a difendersi da un’accusa implacabile, un giudice irremovibile, testimoni irreprensibili dei suoi misfatti e persone offese costituitesi parti civili. Che fare, che fare! “Io non ho colpe”, si sente affermare nella sua testa. Poi, ancora, alla memoria della sua esistenza che con la metafora del processo rivive, si aggiunge la paura, il terrore di morire da solo. In macchina, per strada, in un caffè, in barca, in una villa irraggiungibile, ma di fatto in totale solitudine. Senza la sua ventiduenne giovanissima seconda (o terza) moglie Alice, senza la piccola Baba, senza Jouve, senza alcuno che possa ricordarlo, sedersi al suo capezzale, accompagnarlo nel trapasso.
Ed è tramite queste udienze che con sempre maggiore frequenza hanno luogo nel suo io che Maugin si auto-analizza per ritrovare l’origine della sua colpa, comprendere dove ha sbagliato e perché. Che abbia desiderato troppo? Che abbia scelto una meta sbagliata? Che si sia accanito a voler essere “Maugin, sempre più Maugin, un Maugin via via più importante”? Se avesse spiegato perché si era così comportato, gli avrebbero creduto? Lo avrebbero capito? Il suo errore era stato scappare? Era quella la sua mancanza? Suo compito sarebbe stato quello di restare invece che di fuggire da tutto e tutti, se stesso compreso? Oppure, più semplicemente, cercava un qualcosa che non esiste come un attore mediocre che teme di sbagliare la battuta?
Con “Le persiane verdi” George Simenon dà vita ad un romanzo forte, intenso, ricco di contenuti, dove l’oggetto principale è quello dell’analisi del proprio percorso di vita alla ricerca dei propri errori e dei propri lasciti ai posteri, un viaggio che ha luogo mediante la voce di questo sessantenne di cui già conosciamo le sorti mala cui personalità e la cui stratificazione non lasciano indifferenti, anzi. Maugin è un personaggio grosso, possente, mastodontico, non tanto per la asserita corporatura fisica quanto per le caratteristiche peculiari di cui lo scrittore lo ha armato. Émile si ama, si odia, si compatisce, si disapprova, si consola, perché con il suo essere riempie tutto quel in cui si trova e tutto quel che tocca.
Non stupisce, quindi, che si sia pensato che detto eroe sia stato ispirato a Raimu, Micheal Simon, W.C. Fields o Charlie Chaplin, i più grandi attori dell’epoca del novelliere, ma badate bene, non è così. Perché «Maugin non è né il tale né il talaltro. È Maugin, punto e basta, ha pregi e difetti che appartengono solo a lui e di cui io sono l’unico responsabile». E Simenon, come il lettore, non può non tenere e amare a questa figura perfettamente scolpita, riuscita e dirompente.
«Ci sono giornate così, in cui tutto è immobile, tutto sembra eterno, oppure inesistente. Sì, in fondo sarebbe molto meglio: inesistente!»
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Il destino non ascolta il deisderio
Mi ero ripromesso di non scrivere altri commenti su Simenon, non perché l’autore non ne meriti, quanto per non ripetermi. Il fascino della sua scrittura è in quella che qualche critico in vena di espressioni forti ha chiamato “pleonastica maieutica dell’ineluttabile” e cioè, per dirla più semplicemente, nel rigore geometrico della trama, nell’inevitabile epilogo cui tutti i suoi personaggi giungono, nel ritmo allo stesso tempo pacato e implacabile con cui le sue storie si consumano. A inquadrarlo bene, ogni romanzo di Simenon porta alle conseguenze estreme le sue premesse perché non c’è libertà dell’autore una volta che le coordinate del testo sono state stabilite. Quando l’autore limita la propria libertà, i personaggi sono liberi di evolvere con coerenza e nessuno, tantomeno Simenon, può cambiarne il destino. Come a dire che il desiderio dell’autore non può nulla contro il futuro della realtà.
Il magnifico protagonista di questo romanzo, di cui Simenon a ragione è orgoglioso, scopre fin da subito, nel buio oppressivo di una radiografia, il torace nudo e freddo contro la macchina, che il suo cuore è avvizzito come una pera marcia. L’atrofia ventricolare fa da controcanto alla robusta figura dell’attore famoso e, pirandellianamente, mette in moto il romanzo. In fondo le persiane verdi sono la storia di una diagnosi, del momento cruciale in cui un male indefinito, una palpitazione vaga, viene battezzata dal clinico con un nome che porta con sé un destino, prognostico e personale. La diagnosi diventa qui l’occasione per ripensare la propria vita, per ripercorrere le tracce della propria carriera, gli affetti perduti e ritrovati, le scelte sbagliate, gli inganni dell’adolescenza, la fame, la gloria, la miseria, l’epica delle piccole cose meschine, il potere vuoto delle posizioni sociali. E così la storia diviene l’occasione per un romanzo di ri-formazione tutto interiore, a ritroso, popolato da fantasmi e sogni che scandiscono gli ultimi granelli della clessidra.
Mai come in questo romanzo Simenon cancella la trama e dissolve l’azione in un’intricata matassa di pensieri, monologhi interiori, impressioni e riflessioni del suo magniloquente fragile protagonista. L’autore sembra davvero muoversi senza ordine nei piani temporali più disparati, l’infanzia, il presente, l’adolescenza, il primo matrimonio, il terzo, il secondo e qualcuno potrebbe non ritrovarsi in tutto questo saliscendi. Eppure alla fine, le tessere del mosaico ritrovano un proprio ordine, ricostruiscono un loro disegno e tratteggiano un capitolo finale tra i più belli dell’autore belga. Non è facile scrivere un romanzo senza azioni e ancora più difficile è farlo senza annoiare. Il merito di Simenon è proprio quello di saper scrivere dell’uomo senza sofisticate astrazioni, ma con un’attenzione commovente per i piccoli gesti, le debolezze e i suoi retropensieri. E con questo libro sembra avvertirci che non c’è libertà senza pace dell’anima e che il destino non sempre ascolta i nostri desideri.
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Rimpiango Maigret
Importante ammissione: ho fatto fatica a concludere la lettura.
Non ho letto tanto di Simenon, qualche avventura del commissario Maigret, ma niente di più. Ho sempre apprezzato il suo stile, i suoi personaggi, così che quando mi è stato proposto questo romanzo non ci ho pensato troppo ad accettare.
Eppure, iniziata la lettura, terminare il primo capitolo si è rivelato complicato.
Estremamente lungo, non riuscivo a concentrarmi sulla storia.
Ed è stato cosi per tutto il romanzo in realtà.
Già nel primo capitolo incontriamo il protagonista, il grande attore francese Maugin che, arrivato a sessant’anni osannato dal pubblico e dalla critica, ripercorre la sua vita, dalla misera infanzia fino al raggiungimento della fama, presentando anche tre figure femminili che hanno segnato la sua vita.
E’ un attore con un ego sproporzionato, un forte amore per il vino e un problema al cuore da poco scoperto: si muove così in maniera goffa, senza sapere bene come comportarsi, nella piovosa Parigi fra colleghi, spettatori, assistenti e donne.
Più di questo purtroppo non riesco a dire, mi stupisce come Simenon ne fosse così orgoglioso (“Forse questo è il libro che i critici mi chiedono da tanto tempo e che ho sempre sperato di scrivere”). Possiamo considerarlo un romanzo psicologico, l’intento è sicuramente quello, ma manca di una trama, un filo conduttore. Il protagonista non mi ha lasciato nulla, cosa che invece mi aspetto da un romanzo, in particolare se incentrato sul personaggio principale, sui suoi pensieri e le sue emozioni.
Anche lo stile di Simenon mi è sembrato meno brillante, piatto, a volte ripetitivo, addirittura noioso.
Non so se effettivamente lo consiglierei, in particolare chi non ha mai letto nulla di Simenon dovrebbe evitarlo, giusto per non farsi una pessima idea di questo incredibile autore. Non posso dire che sia brutto, sicuramente esistono romanzi peggiori, ma nella carriera di Simenon forse questo non è il più riuscito.
Peccato.
Quindi, non posso dire altro che buona lettura (per chi volesse) :)
“Finalmente Biguet alzò la testa e guardò l’attore, che stava in piedi davanti a lui, monumentale, con la fisionomia che tutti conoscevano, la faccia larga, i lineamenti da imperatore romano, i grandi occhi, che per la stanchezza sembravano posare sulle cose uno sguardo immobile, e infine quella sua smorfia così particolare, che faceva pensare al tempo stesso a un mastino ringhioso e a un bambino felice”
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