Le cure domestiche
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Recensione della Redazione QLibri
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Se Caino uccise Abele, siamo tutti figli di Caino.
In un’intervista che Marilynne Robinson concesse a nientemeno che il Presidente Obama, la scrittrice sostenne che l’ideale di democrazia si basa sulla fiducia che gli esseri umani ripongono negli altri esseri umani e nella speranza che le persone agiscano per il bene e non per il male.
Fede democratica e fede religiosa permeano tutta l’opera della Robinson. “Le cure domestiche” è il primo romanzo di questa autrice al quale fece seguito, solo dopo venticinque anni, una trilogia, più nota in Italia, “Gilead”, “Casa”, “Lila”.
In questa opera prima, premiata con il PEN/Hemingway Award nel 1982, la Robinson racconta la storia di due sorelle ancora bambine, abbandonate sulla soglia di casa della nonna da una mamma decisa a mettere fine alla sua vita gettandosi nel lago alla guida di un’auto. Di loro si prenderà cura dapprima la nonna, solerte, ma poco incline a superflue effusioni, poi, alla sua morte, le sue anziane cognate, infine la zia Sylvie. È costei la vera protagonista del romanzo, è Sylvie, col suo passato misterioso, la sua vita ribelle e vagabonda, la sua silenziosa e disperata ricerca di una pace interiore più aderente allo stato di natura, a suo agio nella diffusa penombra della casa, ma ancora più nella luce mutevole dei luoghi esterni, illuminati ora dai raggi del sole, ora dal riverbero ondeggiante dell’acqua del lago. Ed è il lago, sepolcro tranquillo e inesorabile di tante anime, ultimo rifugio del padre e di Helen, le due assenze costantemente presenti nel romanzo, ad essere, come tanto spesso nella letteratura americana, il simbolo di una fine che precede una resurrezione, quasi immagine di opera preraffaellita. L’acqua, seppure smossa o agitata da un corpo che vi si immerge, riacquista ben presto la sua immobilità. Il vagabondare di Sylvie, la sua eccentricità in una comunità legata alle convenzioni e alle apparenze, sono la causa dell’allontanamento di Lucille da Ruth. E qui emergono le due anime americane, Lucille, l’America conservatrice e perbenista, Ruth, l’America idealista.
La scelta di Ruth e di Sylvie, così lontana e diversa da quella di Lucille, è fatta di un dolore silenzioso, di ricordi sfumati, di visioni immaginifiche che le portano a sentire presenze invisibili: “Sylvie, lo sapevo, sentiva la presenza delle cose morte.” È una scelta di solitudine che le porta lontano, ma che non impedisce loro di portare con sé il proprio passato. L’America sognata dalla Robinson in questo romanzo è vicina a quella di Emerson e Thoreau, un mondo privo di orpelli, ma profondamente solitario. La famiglia che pure tanto sta a cuore alla scrittrice qui può ricomporsi solo nel vincolo affettivo tra Ruth e Sylvie. L’irrefrenabile desiderio di indipendenza e l’esigenza di vivere a contatto con una natura in cui il male e il bene trovano una armoniosa coesistenza, sono le stesse che troviamo nel Walden di Thoreau: i profumi, i suoni, ogni percezione sensitiva esprimono l’essenza divina, esprimono il desiderio di tornare simile ad Abele, lontano dalla ferocia di Caino.
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Stagioni in riva al lago
Tutte donne le figure significative del romanzo : due bambine, poi ragazze, rimaste orfane; la nonna, due prozie e la più giovane delle zie materne.
Poi c'è il lago, quasi protagonista anch'esso : "si sente sempre la presenza del lago, o quella dei suoi abissi" .
Le due ragazzine amano il lago, anche nel freddo inverno quando la sua vasta lastra di ghiaccio diviene per loro una magnifica pista su cui pattinare fino al giungere dell'oscurità, "come una presenza in un sogno" .
A casa invece le anziane prozie, giunte per prendersi cura delle nipoti, rimangono impaurite dai rigori invernali con neve altissima e giornate buie.
Quando entra in scena l'ancor giovane zia a sostituire le attempate signore le cose cambiano.
Compare "con una calma che sembrava fatta di gentilezza, riserbo e assoluta modestia. Aveva circa trentacinque anni, era alta, e di struttura esile" ; portava "una spilla, un mazzolino di mughetti" .
La maggiore delle due sorelle ricorda : " e noi e la casa fummo tutte per Sylvie" ; ormai pronte per affrontare adolescenza e giovinezza.
Opera prima della grandissima scrittrice americana Marilynne Robinson, che s'imporrà definitivamente con la celebre trilogia di Gilead.
Già qui, però, che esordio!
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letteratura contemporanea
Anime in un'attesa fatta di solitudine.
«Il disastro era svanito nel nulla, come il treno stesso, e se la calma che lo seguì non fu più grande della calma che l’aveva preceduto, l’impressione fu comunque quella. E la normalità si ricompose senza alcuna cicatrice come immagine sull’acqua»
Siamo a Fingerbone, un luogo che sembra sprofondare nella nebbia, che sembra inghiottire tutto quel che incontra, quando Ruthie e Lucille, dai capelli rossi, poco più che bambine, vincono l’attesa con un pacco di biscotti. Sono state lasciate sulla soglia della casa della nonna da un madre decisa a porre fine alla sua vita con una macchina lanciata a tutta velocità in quel dirupo e su quel lago che lo stesso nonno si era portato via anni e anni prima con lo stesso identico silenzio apparente. Cresciute prima dalla nonna, poi, al suo trapasso, dalle cognate, poco più giovani della defunta e in una condizione economica precaria, e infine da Sylvie, la zia, la sorella di quella madre venuta a mancare troppo presto, le sorelle hanno anime molto diverse che verranno forgiate proprio in virtù di quegli insegnamenti ricevuti. Quando Sylvie torna a far parte della loro esistenza è una donna di circa trentacinque anni, fatta di una calma che sembra gentilezza, riserbo assoluto e assoluta modestia. È alta, di struttura esile. I capelli sono castani, mossi, puntati dietro le orecchie con forcine, i lineamenti sono provati. È una figura poco incline alle convenzioni sociali, è dedita al vagabondaggio, è abituata a viaggiare su treni merci e a non avere una fissa dimora tanto che apprende del decesso della nonna praticamente una volta sopraggiunta alla sua casa. Ciò la rende un personaggio inusuale, la porta a crescere le nipotine a contatto con la natura, lasciandole girare per i boschi piuttosto che obbligandole ad andare a scuola o a piegarsi a quelle che sarebbero le linee ferree dettate dalla società. È disordinata, non si cura della casa, colleziona giornali, lattine e gatti fino a che, per naturale conseguenza, la comunità non inizia ad interessarsi ai fatti che si manifestano dietro quelle mura. Le personalità si forgiano, gli anni portano Ruth e Lucille a intraprendere strade diverse. Se all’inizio tenderanno ad assecondare la zia, successivamente Lucille lascerà la casa alla ricerca di una “normalità” e una convenzionalità sconosciuta mentre Ruth abbraccerà quel modello proposto da Sylvie.
Voce narrante dell’opera non è altro che una Ruth già adulta, ma protagonista indiscussa è Sylvie. Sylvie con il suo passato misterioso, Sylvie con la sua presenza silenziosa nei luoghi più bui, Sylvie con la sua costante ricerca di sé. Assenze, immobilità, attese, perdite, lutti, solitudine, dolore. Un dolore sordo. Un dolore che si dipana tra i due volti di un’America al contempo conservatrice e idealista.
Uno scritto in superficie quieto, scandito da un ritmo ben cadenzato e lineare, dalle molteplici tematiche affrontate, che tocca le corde più sensibili dell’anime che resta. Con genuina semplicità.
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Supererò le correnti gravitazionali...
Il concetto di cura è l’anima di questo romanzo che racconta di lutti, di suicidi, di abbandoni e di partenze. Due bambine, Ruth,la voce narrante ormai adulta e Lucille sua sorella, vengono riportate al luogo di origine, la casa materna, dalla loro madre e lì lasciate prima del suo suicidio. Si prendono appunto cura di loro dapprima la nonna, poi le due cognate della stessa e infine la zia Sylvie. È lei che se ne cura ma lo fa secondo dei parametri poco ortodossi suscitando l’attenzione della comunità che si arroga il diritto stesso di cura per preservare probabilmente una parvenza di normalità. Ma cosa c’è di normale a Fingerbone, “posto inverosimile” sospeso tra le acque di un lago traditore e un cielo che soffia afflati misteriosi e potenti capaci di scuotere e scardinare e uccidere quanto l’elemento liquido se si tramuta in piena alluvionale? Qui è stata edificata la casa della nonna, custode del tempo che fu, destinata a resistere agli elementi, ai lutti, ai passaggi delle piccole entità umane che di volta in volta ospita; è una costruzione anomala, pare ergersi su un colle, galleggiare quasi, farsi attraversare dall’aria. È l’ordine nell’apparente disordine fin quando l’economia domestica di Sylvie non sovverte le parti, il caos entra in casa in accumulazione compulsiva, in disfacimento decadente, in catastrofe sociale e l’ordine delle cose va ricercato altrove, fuori, al buio, su un ponte sospeso sopra le acque del lago, nei ruderi di abitazioni sventrate da altre alluvioni o forse semplicemente in se stessi senza orpelli, senza sovrastrutture, senza convenzioni, senza apparenze e perfino senza la stessa abitazione.
Romanzo d’esordio di una delle voci più acclamate della letteratura americana, considerato dal Guardian uno fra i cento migliori romanzi di tutti i tempi, dietro una storia di abbandono e di attesa consegna al lettore il sentimento della disgregazione delle famiglie, la potenza delle scelte individuali, le ferite della vita, il sentimento dell’assenza e dell’attesa che lo accompagna.
Da leggere assolutamente.
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La scelta di Ruth
La storia è ambientata a Fingerbone, “afflitta da un paesaggio fuori misura e da un clima stravagante” e narra di due bimbe, Ruth e Lucille, le cui esistenze sono segnate dal lutto, dall'abbandono, dalla solitudine e dall'attesa, ma anche dallo strenuo tentativo di non sprofondare nella disperazione. Tutto a Fingerbone sembra infatti sprofondare, inabissarsi in un lago scuro che inghiotte ogni cosa: prima il treno su cui viaggia il nonno di Ruth e Lucille e poi l'auto della loro mamma che, dopo averle lasciate con un pacco di biscotti per ingannare l'attesa, si getta anche lei in quel lago per porre fine alla sua tormentata esistenza. Le bambine vengono cresciute dalla nonna, poi dalle cognate di quest’ultima ed infine dalla sorella della madre, la zia Sylvie, personaggio bizzarro e poco incline alle convenzioni sociali. Sylvie, vagabonda abituata a viaggiare sui treni merci, si presenta nella vita delle nipoti con l'intento di prendersene cura, ma in modo del tutto inusuale. Preferisce infatti consentire alle bimbe di trascorrere le giornate nei boschi anziché obbligarle a frequentare le lezioni, lascia che la casa, sporca e disordinata, sia invasa dai gatti, colleziona giornali e lattine ovunque fino a suscitare l'inevitabile sospetto della comunità e l'intervento delle autorità. Le ragazzine, inizialmente in simbiosi e propense ad assecondare la zia, con l’adolescenza prenderanno strade diverse: Lucille, desiderosa di “normalità”, amicizie e rispettabilità sceglierà di andarsene dalla casa in cui è cresciuta pur di sentirsi accettata dalla comunità; Ruth, più incline ad una condotta anticonformista, resterà invece legata alla zia e deciderà di condividere con lei un'idea di casa e di famiglia totalmente fuori dagli schemi, lontano dagli abitanti di Fingerbone.
“Le cure domestiche” è un romanzo molto coinvolgente: la voce narrante è quella di Ruth che racconta la sua storia con un linguaggio ricco di immagini e di colori, talvolta fiabesco, a tratti lirico, con molti elementi di carattere simbolico. Colpisce la presenza dominante e quasi ossessiva dell'acqua: solitamente emblema di vita e di rinascita, l'acqua assume in questo romanzo un ruolo ambiguo, malevolo ed ammaliante. Il lago dal basso e la pioggia dall'alto attraggono, incantano, sommergono, isolano dal modo circostante. L'acqua è forse, quindi, simbolo di un tentativo di ritorno ad una pace e ad un equilibrio impossibili nella vita reale, ma anche l'elemento che rappresenta l'esigenza di spiritualità, un rito di passaggio verso una vita nuova. Chi già conosce la Robinson, autrice calvinista nota per la trilogia Gilead, Casa e Lila, non avrà difficoltà a riconoscere, anche in questa sua opera d'esordio (del 1980), una certa tensione religiosa ed un velato misticismo.
“Quando i nostri sensi conoscono qualcosa più a fondo di quando quella cosa ci manca? Ed ecco un altro presagio: il mondo diverrà un tutto unico. Poiché desiderare una mano sui capelli è quasi come sentirla davvero. E così qualsiasi cosa possiamo perdere, un desiderio disperato ce la restituisce di nuovo. Benché sogniamo senza neppure saperlo, il desiderio intenso, come un angelo, ci rifocilla, ci liscia i capelli, e ci porta fragole selvatiche.” (p. 137)
Ho trovato questo romanzo davvero bello: ha suscitato in me diverse emozioni e molteplici interrogativi. Ho apprezzato molto le tematiche trattate: l'elaborazione del lutto, la ricerca di una vita autentica e libera da convenzioni sociali, l'importanza dei legami affettivi, il senso della famiglia e della comunità. Ammetto di avere avuto non poche perplessità sulla figura della zia Sylvie che, seppur amorevole e, a suo modo, affettuosa, mi è sembrata eccessivamente stravagante e troppo alternativa nel suo stile educativo. Ho riflettuto a lungo sul trauma che una madre inevitabilmente lascia in un figlio con un gesto estremo come il suicidio: potrà mai quel vuoto, quel senso di abbandono e solitudine essere colmato dall'affetto, dalle attenzioni, dalle “cure” di altre persone? La Robinson con questo libro non vuole, credo, darci delle risposte: sta a noi decidere se condividere la scelta di Lucille o quella di Ruth consapevoli del fatto che “una volta che qualcuno è solo, è impossibile credere che possa mai esser stato altrimenti. La solitudine è una scoperta assoluta” (p. 142).
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L'abitudine all'attesa
Bellissimo questo romanzo, triste, malinconico ma bellissimo. Andrebbe riletto per come è denso di parole e di immagini. Una madre si suicida buttandosi con l'automobile nel lago, lo stesso lago in cui era morto suo padre in un disastro ferroviario anni prima, e lascia due bambine Ruth e Lucille alle cure della nonna. Alla morte della nonna le bambine passano sotto l'ala di zia Sylvie che fino a quel momento aveva fatto una vita di vagabonda. .
Da quell'attesa delle bambine (del ritorno della madre) piena di fiducia e di speranza, nasce una vita che riproduce quel momento in modo quasi perfetto riempiendo ogni istante di attesa, facendo sentire in ogni circostanza il personaggio e il lettore sulla banchina della stazione o sulla sponda di quel lago che è un posto dell'anima non solo fisico. In ogni momento ogni personaggio e soprattutto Ruth sembra in attesa di e separato da.
Bellissimo il modo in cui vengono descritti i rapporti tra le persone. L'attesa nei rapporti umani diventa distacco, separazione, incapacità di essere uguali agli altri. Da questo stato di diversità, stato doloroso, le due sorelle prendono strade diverse. Lucille decide di diventare normale e si applica a questo con feroce determinazione. Ruthy si sente all'opposto proiettata ancora più indietro nella nebbia dell'attesa, della diversità, della randagità anche perchè questa sua diversità viene a un certo punto colta dagli abitanti della cittadina e posta sotto osservazione. Come sempre succede alle persone strane quando si fa caso a loro, la loro diversità si impenna e si fa insostenibile.
I rapporti umani sono anche essi strani: profondi, intensi, ma fatti di abbracci che non trattengono, di dita che non stringono quasi fossero alghe e non mani, qualcosa che sfiora ma non chiude. Perciò, l'affetto è sempre mescolato alla nostalgia, al senso di perdita, al senso di provvisorietà e di attesa riproponendo ogni volta quell'attesa unita al timore che sempre in ogni momento potrà esserci il nuovo distacco. La stessa presenza contiene in sè i semi del distacco. Questo stato oltre che doloroso ha qualcosa di bello, per cui la vita randagia, la casa disordinata e sconnessa, la passeggiata sul lago sulla barca malmessa e sulle traversine sotto il vento impetuoso hanno qualcosa di affascinante che attira e induce all'allontanamento dalla normalità. La normalità ha i contorni della realtà e i suoi spigoli mentre la randagità ha tutte le sfumature e le bellezze e anche la tristezza del sogno. E' uno stato che crea una sorta di dipendenza e di assuefazione. Tutto è provvisorio. La zia potrebbe prendere il treno, gli abitanti potrebbero pretendere l'affido delle ragazze a famiglie normali. Bella anche la trasformazione delle cose. L'incapacità a vivere e a tenere relazioni normali si specchia nella casa disordinata dove si accumulano oggetti inutili mentre i vetri, le finestre, le ante dei mobili si rompono e restano con quell'aspetto di rovina che nessuno e niente riesce a contrastare come tradissero con il loro aspetto la natura delle persone dichiarando a gran voce la loro stranezza e incapacità e impresentabilità.
Belle le descrizioni della natura. Il ponte sul lago su cui passa il treno, un treno sull'acqua che ricorda le immagini indimenticabili del film di Miyazaki La città incantata, è un ponte tra il mondo dei viti e il mondo dei morti, tra realtà e sogni, un ponte che avvicina Ruthy alla madre e al nonno in modo pericoloso. La malinconia è come il canto della sirena e spira tra le pagine e chiama Ruthy e Sylvie dentro il lago. In un certo senso la vita di vagabondaggio che attira le due donne è per loro l'equivalente di essere accampate sulle sponde del lago, guardando il lago in attesa. Bellissimo il finale sempre sotto il segno dell'attesa e della speranza, della vicinanza unita al distacco e alla nostalgia e al senso di perdita come se gli esseri umani fossero ormai incapaci di stringersi una mano e fossero diventati tutti ombre o nuvole.
"Quel giorno mia madre era felice, noi non sapevamo il perchè, e se il giorno dopo era triste noi non sapevamo il perchè. E se il giorno dopo era scomparsa,noi non sapevamo il perchè. Era come se raddrizzasse continuamente la rotta contro una corrente che non cessava mai di spingerla. Oscillava senza sosta, come una cosa nell'acqua, ed era una danza aggraziata e lenta, una danza triste e impetuosa.
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Disarmonica armonia e vagabondaggio domestico...
" Le cure domestiche ", primo romanzo della Robinson ( 1980 ), segna il suo ingresso a pieno titolo nella grandezza letteraria. Seguirà un lungo periodo di silenzio, ma il lascito della narrazione introduce tematiche care all' autrice ed approfondite nella succesiva trilogia ( " Gilead," " Casa ", " Lila").
Emergono nitidamente temi connessi alla famiglia, quel senso di sofferenza e solitudine che ricerca una risposta nella fede ( e non sempre la trova ) ed in un naturalismo che riporta ad una dimensione primaria dell' esistenza.
Fingerbone, cittadina del Midwest, è l' archetipo della vita, il segno della propria appartenenza. Non è mai stata una bella cittadina, ha un clima stravagante e spesso è sommersa da fiumi d' acqua. Vive il tragico ricordo di un disastro ferroviario ( in cui perse la vita il nonno di Ruth e Lucille). È " ... una città invasa dai diseredati, caratterizzata dalla solitudine, dal delitto e dallo zelo religioso del tipo più raro... "
Qui tutto inizia e finisce, si nasce e si muore, anche di morte violenta, si parte e si ritorna ( per i protagonisti ) alla ricerca di una identità smarrita o sconosciuta, di radici lontane immerse nelle nere profondità del lago che la circonda.
I suoi fondali nascondono segreti, corpi, oggetti, ricordi , vite strappate, ..." un passato che si è andato accumulando, che svanisce ma non svanisce, che perisce e rimane"... e "... guardando verso il lago si poteva pensare che il Diluvio Universale non fosse mai finito ..."
Le sue acque accendono l' immaginario ed il lago diviene creatura pulsante solo nei significati e nei ricordi, mentre la realtà ci mostra contorni secolari ed immutati.
Qui, un giorno, giungeranno due bambine, Ruth e Lucille, abbandonate dalla madre Helen, suicida nelle fredde acque del lago. Orfane, saranno accudite dalla nonna materna, guida generosa ed assoluta, con un amore totale ed equo, in attesa della zia Sylvie, sorella di Helen, invocata per " prendersi cura " delle nipoti dopo anni di precarietà e vagabondaggio.
Sylvie è una creatura stravagante, indipendente, solitaria, ama godersi le serate al buio, i suoi pensieri sono sempre altrove, ..."sente la vita delle cose morte..." , non ha coscienza del tempo ed ".... ogni storia che racconta ha a che fare con un treno o con una stazione degli autobus...." Si nutre di lunghi silenzi, esce la notte, vagando senza meta, parte e ritorna, sembra essere sempre interessata ad altro, non si avvede della realtà circostante.
Ruth e Lucille vivono un quotidiano che ignorano, hanno ..." passato la loro vita ad osservare ed ascoltare come chi è perso nel buio, sembrando disorientate e smarrite ...", e finiscono per scoprirsi diverse, con interessi e visioni contrastanti.
L' una si nutrirà di un mondo fatto di sogni specchiandosi in Sylvie, che si sostituira' a sua madre offuscandone il ricordo. L' altra odia la precarietà, si integrerà con il contorno e gli abitanti di Fingerbone e con quello che essi vedono, l' apparenza e la formalità.
Sarà questa apparenza ad evidenziare l' inadeguatezza di Sylvie, la sua incapacità ed impossibilità di occuparsi delle due bimbe e delle cure domestiche. Ma, per lei e Ruth una casa non esiste, prevale un desiderio di condivisione, di fughe notturne, percorrendo quel ponte che attaversa il lago, unite per sempre.
Ruth sa di essere diversa dall' altra gente da quando la madre l' ha abbandonata o forse nel momento in cui ha seguito Sylvie sul ponte, in fondo sono due vagabonde, che è uno stato dell' animo, "...una strada che non si può più abbandonare una volta imboccata.... ".
Con il tempo ci si abitua alla propria fragilità domestica, con una madre che alternava tristezza, rabbia, allegria, che ti ha abbandonato con indifferenza.
E se finalmente si riesce a creare un nucleo famigliare questo non andrebbe disgregato, distrutto, ogni solido legame umano crea uno stato di compiacenza, a cui agognano le persone solitarie, ed " ...avere una sorella ed una amica è come sedersi in una casa illuminata, soprattutto quando si è abituati al buio..."
Questa è la vera appartenenza di Ruth e Sylvie, la creazione e condivisione di un " proprio " focolare domestico, sorto dalle ceneri della memoria, sradicato dal contorno, in uno stato di nomadismo perenne, immerse nella natura aspra e selvaggia, che racchiude le forze del bene e del male, vera dimensione del proprio essere, una dimora evasa dal comune senso di luogo, spazio e tempo.
Il nostro sguardo sul quotidiano può essere velato, ..." tutto ciò che si presenta agli occhi non è che un' apparizione, un velo gettato sulle vere attività del mondo..." Siamo legati a ciò che siamo e siamo stati, quello è il nostro sogno.
Il tempo attutisce i traumi, ma le sensazioni rimangono, ed il dolore, la perdita e l' assenza di qualcuno ci racconta la sua storia, ci parla di lui in un modo che altrimenti non avremmo conosciuto (in riferimento ad Helen ).
Ogni partenza prevede un ritorno, quale verità è plausibile se non un' ipotesi da noi rappresentata, o solo un' idea, poco importa.
Merilynne Robinson ci ha consegnato un piccolo capolavoro, di grazia, stile, armonia e forza espressiva.
Nel frattempo, in un mondo di solitudine e dolore persistente, Ruth e Sylvie continuano a vagabondare, non viaggiano, semplicemente si spostano, confondendo sogni e pensieri, immaginando storie e vite altrui ( di Lucille ) possibili ma improbabili, accarezzando il naturale corso degli eventi dove persino il sapore dell' acqua ed il respiro dei ruscelli e dei laghi conservano tratti di umano sentire.
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