Lamento di Portnoy
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LO SCANDALO DEL VERO
Uno spettacolare pugno alla bocca dello stomaco. A sferrarlo è uno scrittore cui soltanto la realtà dell'uomo, con le sue fragilità, fobie e meschinità interessa davvero. Niente infingimenti, niente edulcorazioni. Solo schietta e violenta realtà. E se deve essere scandalo, che scandalo sia.
"Il lamento di Portnoy" in questo è semplicemente devastante. Attraverso l'espediente di una prolungata seduta psicanalitica, il protagonista Alex Portnoy racconta, con la veemenza dell'urlo di Munch, le sue ossessioni erotiche, le oscure depravazioni e le raccapriccianti pratiche onanistiche. Non c'è spazio per giri di parole o sottintesi accomodanti: la realtà è oscena e soltanto un gergo da bordello può renderne l'idea in modo compiuto.
Alex è malato e sa di esserlo. Un erotomane senza dignità, capace di calpestare spietatamente le occasionali vittime del suo desiderio. Non cerca giustificazioni. Al più rincorre una possibile via di uscita.
Qualche attenuante a ben guardare ci sarebbe. Cresciuto in una famiglia ebrea, Alex è bombardato fin da bambino con continui richiami alla responsabilità e alla stretta osservanza di doveri morali che il suo status di giudeo comporta. Gli ossessivi formalismi cristallizzatesi in millenni di storia ebraica sono come enormi macigni che gli pesano sulle spalle.
Lui si ribella, certo. Appena può sfugge al soffocante abbraccio di una famiglia e società oppressiva e claustrofobica. Si proclama non credente. Rivolge inconsciamente il suo sfrenato desiderio sessuale verso donne non ebree (shikse) alla disperata ricerca di essere accettato da una società "altra".
Eppure la fuga non riesce mai completamente. Inevitabile tributo a quella educazione che lo voleva vincente ed integro, la sua carriera professionale porta Alex a ricoprire prestigiose cariche pubbliche ammantate altresì da un nobile impegno sociale. Agli occhi della società benpensante, egli realizza quell'ideale di uomo di specchiata moralità e primo della classe cui era evidentemente predestinato.
Quale stridente contrasto con quella seconda inconfessabile e sconcia natura! L'universo ebraico, con la sua millenaria tradizione e il suo simbolismo opprimente, alimenta in lui un costante conflitto interiore tra l'uomo che avrebbe dovuto essere e lo sporcaccione che invece è diventato.
Roth si muove su un crinale stretto e difficile. Chi legge è scioccato dal linguaggio sguaiato e scurrile nonché dalla crudezza delle immagini proposte. Il rischio di scadere nella volgarità fine a se stessa disgustando l'incauto lettore è elevato.
Che ciò non avvenga è in parte dovuto al registro grottesco cui l'autore ricorre per smorzare la violenza espressiva ogni qual volta si rischi di superare i limiti della decenza. In altra parte sono la raffinata ironia ed il graffiante sarcasmo (anch'essi tratti imprescindibili della cultura ebraica) ad alleggerire i toni ed evitare che tanta abiezione umana disgusti ed allontani. E così nel tratteggiare la famiglia middle-class ebraica newyorkese Roth sembra quasi riecheggiare il Woody Allen di Radio Days.
Soprattutto però, ciò che rende questo romanzo un capolavoro invece che un libro trash, è l'adesione senza compromessi alla realtà e quindi la percezione di verità che chi legge ne trae. Una verità non mediata che svela una umanità messa ostentatamente a nudo. In questo Roth è un assoluto maestro.
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Lamento d'un represso
I miei giudizi sulle opere di Philip Roth sono sempre piuttosto complicati da articolare. Dopo "Nemesi" e “Pastorale americana" eccomi al mio terzo approccio con l'autore, eppure non sono ancora riuscito a farmi un'idea precisa riguardo al mio gradimento nei suoi confronti.
Rispetto agli altri due romanzi che ho letto, “Lamento di Portnoy" è certamente il più irriverente e senza filtri, considerato che è narrato in prima persona da un uomo che, sul lettino del suo psicanalista, sciorina come un fiume in piena quella vita che l'ha portato a essere un trentacinquenne erotomane e decisamente a disagio nel suo status d'ebreo americano, oltre che profondamente in conflitto con l'ambiente familiare in cui è cresciuto. Alexander Portnoy è infatti condizionato in ogni suo processo mentale dalla figura ingombrante di sua madre, che l'ha tormentato con la sua presenza ossessiva e coi suoi comportamenti iper-protettivi. Dall' altro lato suo padre è un uomo, almeno agli occhi del figlio, mediocre e costretto a portare avanti una vita senza prospettive né ambizioni, schiacciato dalla figura dominante di sua moglie che applica in casa una tirannia del tutto psicologica, che tiene sotto scacco l'intera famiglia (a parte, forse, la sorella di Alexander, vero corpo estraneo della vicenda).
Queste sono solo alcune delle cose che vengono fuori dai pensieri di Alex, che hanno come fulcro le sue fantasie sessuali su un numero indefinito di Shikse (ovvero donne non ebree): tutto, nella sua vita, è una ribellione a quei dogmi, religiosi e non, dai quali è dominato fin dalla tenera età. Sebbene la condizione mentale del protagonista sia ben resa dal suo stesso modo di esprimersi e alcuni dei temi (soprattutto il condizionamento mentale causato dalla crescita in un determinato contesto familiare) siano sviscerati in certi tratti molto bene e in maniera interessante, “Lamento di Portnoy" non mi ha folgorato. Sarà perché i temi non sono quelli che più mi toccano? Non saprei, in certi punti non li sentivo poi così lontani. Sarà perché Roth tende a sfociare un po' troppo nella volgarità, di lessico e nel racconto di dettagli un po' sudici? Forse, ma sebbene in questo libro siano presenti più che in ogni altra opera che io abbia letto, non sono cose che mi giungono nuove. E allora cosa? È davvero difficile da dire, ma credo da forse il problema stia nel fatto da Roth non riesce a emozionarmi: può partorire paragrafi che magari colpiscono nella forma, ma non t'abbagliano l'anima né ti spingono a scavare a fondo dentro te stesso.
Ecco. forse ci siamo: Roth è troppo pragmatico.
Sebbene si scenda a fondo nell'animo e nelle pulsioni del nostro Alexander Portnoy, sembra difficile empatizzare con lui, ma non perché i suoi pensieri siano del tutto assurdi (a volte lo sono) o perché io sia un santo beatificato, ma perché l'autore riesce magistralmente a caratterizzare un individuo e il suo animo, ma non riesce a essere universale. Mentre scrivo questo mi rendo conto che forse sto sparando delle boiate facilmente smontabili da una persona che conosca meglio l'autore, o con una capacità di critica letteraria superiore alla mia, e mi piacerebbe confrontarmi con una persona del genere perché su quanto dico non sarei disposto a giurare. Eppure quest'idea serpeggiava nella mia mente a ogni pagina, e credo che in essa stia la motivazione per cui non ho amato “Lamento di Portnoy" e di Roth dico, ancora una volta: Rimandato.
“La signora Nimkin piangendo nella nostra cucina: «Perché? Perché? Perché ci ha fatto questo?» Sentito? Non cosa, eventualmente, noi abbiamo fatto a lui, mai più: perché ha fatto questo a noi? A noi! Noi che avremmo dato la vita per renderlo felice, e un famoso concertista per giunta! Davvero riescono a essere così ciechi? Può la gente essere tanto abissalmente idiota e vivere? Ci crederebbe? Possibile che siano equipaggiati con tutta l’attrezzatura, un cervello, una spina dorsale, e i quattro buchi per occhi e orecchie - equipaggiamento, signora Nimkin, sbalorditivo quasi quanto la Tv a colori - eppure vivano la vita senza cogliere il minimo indizio dell’esistenza di sentimenti e desideri in altri che non siano loro?”
Lasciate libero il mio pippino
Portnoy-oy-oy-oy-oy… ma finalmente ti conosco! Anzi, finalmente leggo la tua delirante e divertentissima e drammatica confessione.
Philp Roth è un autore che ho iniziato a leggere da poco, questa è la mia terza lettura ed è stata sicuramente quella decisiva che mi ha fatto apprezzare appieno il suo talento. Già “La macchia umana” mi aveva segnata in qualche modo e con il Lamento, P. Roth ha avuto la meglio su di me. Un libro a dir poco brillante, con uno stile frizzante e dei contenuti scabrosi è riuscito a tenermi viva l’attenzione per l’intera durata della lettura. So che è un libro scritto agli inizi della sua carriera e sicuramente più vivace e giovane rispetto al maturo “La macchia umana” ma non per questo più acerbo! La differenza sta, a mio avviso, nello stile. Ho apprezzato moltissimo la freschezza del linguaggio, l’ironia e l’autoironia che regna in ogni pagina, la velocità nell'esprimersi e nel narrare gli avvenimenti come se fosse una valanga ma anche i contenuti seppur altamente erotici da sfiorare quasi i scritti di Henry Miller. Però l'insieme non mi è mai risultato fastidioso o volgare o scandaloso etc, e ciò per via dell'utilizzo dell'ironia che trasforma tutte le scene in una delirante commedia pregna però di tante piccole verità.
Per un lettore più attento, però, c'è anche molta tristezza e dramma in queste pagine lamentose, perché come lo si indica già dal titolo, è un continuo lamento di Alex Portnoy, una esplosione vulcanica di tutti i suoi "rovelli", sin dall'infanzia e che determinano senza ombra di dubbio l'uomo di domani, e se Alex possiede oggi questa vita sfrenata all'insegna della concupiscenza e l'impossibilità di amare una donna e farsi una famiglia, non è tanto perché è un maniaco sessuale ma la ragione sta nel come è stato educato in famiglia. Infatti, gli esilaranti racconti erotici vanno a braccetto con i tormentati aneddoti della sua infanzia in cui i due "imbottigliatori di colpe", e soprattutto "Mammina", cercano di dare il loro meglio nell'allevare il figlio ebreo perfetto! Il troppo amore, la troppa attenzione, il prendersi cura di troppo, la troppa invadenza, nuoce altrettanto quanto la sua assenza e da qui l'aspetto drammatico del libro in cui spesso la risata viene intrecciata con il senso di claustrofobia.
Prima dicevo che non lo trovo un libro più acerbo rispetto agli altri ma solo più fresco come stile. Mi spiego: in questo libro le tematiche importanti ci sono ed esse vengono approfondite in modo soddisfacente solo che in modalità diversa: se in romanzi più tardivi lo fa attraverso passaggi diretti introspettivi che accompagnano la trama, qui invece sono gli eventi a gridare forte e chiaro il loro messaggio e riuscirci non credo che sia così scontato per uno scrittore. L'impronta dell'infanzia sull'adulto, i pregiudizi, l'uomo perfetto fuori ma con le sue macchie interiori, la reciproca scontrosità ebreo- non ebreo, la difficoltà di un rapporto sentimentale tra due persone che provengono da strati sociali e culturali molto diversi tra loro, il prendere coscienza della propria vita e di quello che si desidera, l'odio ma anche l'amore delle proprio radici, la necessità di allontanamento ma anche di ritrovo di queste radici che continuano sempre a richiamare in un sordo eco.
Roth ha dimostrato la sua bravura anche nella struttura: seppur delirante come prima impressione, e con discorsi acrobatici che ora prendono una strada e ora deviano per poi far ritorno, la forma dell'opera risulta molto solida, matematica e riesce con grande armonia a riprendere le redini del filone centrale dopo aver divagato un po' a destra e sinistra e immettersi sul binario centrale. Ora sono incuriosita più che mai di Roth e non voglio assolutamente farmi mancare "Il teatro di Sabbath" - che dovrebbe essere un "Lamento di Portnoy" maturo - e "Pastorale americana".
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Un lungo brillante monologo di un'anima tormentata
Pubblicato nel 1969 è il quarto libro di un grande Philip Roth, un colosso della letteratura americana (e pensare che neppure uno strameritato Nobel gli hanno dato !) e si caratterizza per la struttura inusuale del testo: è un lungo monologo del narratore Alex Portnoy (alter ego evidente dell’autore) al suo psicanalista, che ascolta (o si suppone che ascolti attentamente) senza mai intervenire se non nel finale, in due o tre scarne righe tutte da interpretare. Il monologo non è di un paziente qualsiasi, ma di un interlocutore che, fra l’altro, dopo un brillante corso di studi è arrivato a ricoprire la carica di Commissario per lo sviluppo delle risorse umane al Comune di New York. Nella lunga, concitata, a volte ironica confessione, la narrazione, o meglio la messa a nudo senza censure di un’anima, procede su diversi piani temporali, saltando da ricordi giovanili e familiari a momenti contemporanei in cui eros, amicizie, divagazioni di ogni genere rivelano i tormenti e le contraddizioni del paziente, rappresentante di un popolo, l’ebraico, che in America ha conquistato spazi importanti vagheggiando e rifiutando al tempo stesso una totale integrazione. Un’infanzia ed una giovinezza difficili, pur confortate da studi brillanti, ma complicate e condizionate al tempo stesso da una madre insopportabile, logorroica, ossessiva e possessiva, sempre volta a correggere, guidare, rimproverare un figlio già potenzialmente ribelle, e da un padre anonimo, molle, frustrato dal lavoro poco gratificante di assicuratore: la ribellione cova sotto la cenere, le pulsioni aumentano, i tormenti esistenziali sfociano in atteggiamenti di rivolta, mai eclatanti ma sempre frenati dalla tormentata consapevolezza di far parte della razza ebraica, con doveri e rituali legati a modelli formali e dogmatici, in conflitto con la vita quotidiana in una società, quella americana, più libera e disinibita. A questo conflitto se ne aggiunge presto un altro, quello ben più devastante tra un senso etico innato maturato negli studi e nella peculiarità del lavoro svolto e gli impulsi sessuali ossessivi e continui, sfocianti spesso in vere e proprie perversioni, ben descritte in due interi capitoli del libro, il secondo (sull’autoerotismo) ed il quarto (sui rapporti con l’altro sesso). Conflitto, quest’ultimo, che porterà Portnoy a coltivare sensi di colpa e a non riuscire a raggiungere un equilibrio interiore, pur sempre fortemente auspicato. Il romanzo è forse uno dei migliori di Philip Roth, dissacrante e sincero, ironico e confuso, altalenante tra ricordi di un passato vincolato a dogmi mai superati e vicende assurde e imprevedibili di un presente sempre mutevole. Lo sghignazzo finale( un urlo? una risata liberatoria?) dice tutto. Ed è incomprensibile che ad uno dei più grandi scrittori americani a cavallo tra i due secoli non sia mai stato assegnato il Nobel per la letteratura, soprattutto dando un’occhiata agli ultimi Nobel, le cui opere restano e resteranno sconosciute ai più.
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SUL LETTINO DELLO PSICANALISTA
“Lamento di Portnoy [da Alexander Portnoy (1933- )], disturbo in cui potenti impulsi etici e altruistici sono in perenne contrasto con una violenta tensione sessuale, spesso di natura perversa. Osserva lo Spielvogel: «Atti di esibizionismo, voyeurismo, feticismo, autoerotismo e coito orale sono assai frequenti; come conseguenza della “moralità” del paziente, tuttavia, né le fantasie né le azioni si traducono in autentica gratificazione sessuale, ma piuttosto in un soverchiante senso di colpa unito a timore di espiazione, soprattutto nella fantasmatica della castrazione» (O. Spielvogel, Il pene perplesso, in «Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse», vol. XXIV, p. 909). Lo Spielvogel ritiene che gran parte dei sintomi vadano ricercati nei legami formatisi nel rapporto madre-figlio.”
Per chi conosce le pellicole di Woody Allen o le barzellette di Moni Ovadia non dovrebbe essere una sorpresa: l’ambiente ebraico è sempre stato caratterizzato da una tendenza ironicamente autodenigratoria tale da controbilanciare il rigido fondamentalismo della religione. Così, il romanzo di Roth, per quanto estremo, iperbolico e provocatorio, si inscrive perfettamente in questo filone, teso a mettere a nudo le ipocondrie e le idiosincrasie di un modus vivendi che, mentre inconsciamente ambisce alla “normalità” degli altri (i goys, le shikses, cioè i cristiani tanto vituperati dai genitori dell’autobiografico protagonista ma da quest’ultimo bramati come oggetti del desiderio per la loro vita disinibita e permissiva), si porta appresso come una palla al piede tutti i cavilli, i laccioli, le panie di una religione che da millenni costringe un intero popolo alla orgogliosa ricerca della perfezione etica, ma anche all’isolamento, all’esclusione, alla sofferenza. Si crea in tal modo un’antinomia tra l’aspirazione ad essere integrato nell’american way of life da una parte e il condizionamento della cultura d’origine dall’altra. Di qui la ribellione di Alex (“io sono ateo” proclama allo sbigottito genitore), ma anche l’inevitabile e annichilente senso di colpa. Il vero leitmotiv del libro consiste infatti nell’oscillare del protagonista tra le infrazioni alle regole e alla morale e il conseguente, paralizzante rimorso. A determinare questo atteggiamento contribuisce, c’era ovviamente da aspettarselo, l’ambiente familiare: la madre castratrice e il padre frustrato, che, in gustose scenette domestiche dall’irresistibile vis comica, fanno crescere il figlio in un’infanzia colma di terrore, in un’adolescenza piena di sensi di colpa e in una maturità avvelenata dall’insoddisfazione per non essere in grado di accondiscendere alle aspettative ossessivamente riposte in lui (perché, a quanto pare, nell’universo yiddish, un figlio non riesce mai ad affrancarsi completamente, a dispetto delle proclamazioni di autonomia e di indipendenza, dalle catene parentali). Alexander adulto si porta dietro tutte le frustrazioni, le paure e le manie appiccicateglisi addosso nel corso del suo lungo e tragicomico apprendistato alla vita, in cui le pulsioni e i desideri (soprattutto quelli erotici) sono fatalmente destinati a entrare in conflitto con la coscienza (come in quella buffa scena, creata dalla sua immaginazione in seguito alla paura di aver contratto la sifilide da una ragazza italo-americana, in cui il suo pene cade per terra di fronte ai logorroici e sentenziosi genitori), provocando un corto circuito dell’io che fatalmente non può che condurlo sul lettino di uno psicanalista.
Il romanzo è infatti un monologo-confessione che il protagonista fa al suo terapista e nel quale ripercorre tutta la sua vita, dai primi anni trascorsi in quella “scuola di polemologia” (come lui stesso la definisce) che è la sua famiglia fino alle pirotecniche avventure sessuali da single, nei quali dà sfogo, quasi per ribellione, a un istinto fondamentalmente egoistico, onanistico, incapace di dar vita ad autentiche e responsabili relazioni sentimentali (come accade nel rapporto con la Scimmia, che sembra una versione degradata e satirica della proustiana storia d’amore di Swann con Odette). In queste pagine, che per Alex vorrebbero essere liberatorie ma che in realtà mettono impietosamente in evidenza la sua immaturità e la sua infelicità, Roth non segue la cronologia degli avvenimenti bensì un andamento che privilegia le libere associazioni dei ricordi, saltando da un aneddoto all’altro, passando dalla prima infanzia al presente per poi tornare nuovamente indietro all’adolescenza, riannodando infine i fili spaiati della memoria, con una struttura narrativa che solo apparentemente è caotica, ma che in realtà risulta molto ben strutturata, e soprattutto ottimamente servita da un linguaggio il quale, per quanto a volte al limite della pornografia, lascia stupefatti per varietà di termini, fantasia e potente forza farsesca e caricaturale.
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LAMENTO DI PORTNOY
Philip Roth è lo scrittore statunitense che apprezzo di più.
I suoi libri sono semplicemente geniali.
In LAMENTO DI PORTNOY ho ascoltato e riascoltato il monologo tragicomico del personaggio ideato da PHILIP ROTH. Ho ascoltato perché ho scelto l'edizione audiolibro, edita da EMONS.
Il romanzo è stato letto da Luca Marinelli, attore, già noto nel panorama cinematografico italiano, e pluripremiato, nel 2016, per aver interpretato lo Zingaro in "Lo chiamavano Jeeg Robot".
Il protagonista di LAMENTO DI PORTNOY è il trentatreenne Alex Portnoy, commissario aggiunto della Commissione per lo sviluppo delle risorse umane del Comune di New York. Nel lavoro è abile, intransigente, stimato, ma Alex è un personaggio molto più complesso. Lui ricorre all'analisi dallo psicanalista per comprendere se stesso e sfogare le proprie frustrazioni. Il suo dilemma è capire come mai si senta travolto dai desideri che ripugnano la sua coscienza e da una coscienza che ripugna i suoi desideri. Il suo eterno enigma interiore si espande ad ogni aspetto della sua esistenza, domina i suoi pensieri, tanto da vedersi costretto ad andare in terapia, come un moderno Zeno Cosini. Però, è statunitense.
Ironico e dissacrante, il monologo, lamentoso e tragicomico, di Alex Portnoy comunica al lettore tanto di quel conflitto eterno e comune un po' ad ogni essere umano. Il conflitto è tra i desideri e la coscienza, su cosa è giusto e cosa non lo è, sul perché rincorrere i propri desideri, tenendosi però pronti a fare i conti con la coscienza. Divertente, in maniera intelligente, LAMENTO DI PORTNOY fa anche riflettere, analizza la vita, l'esistenza, ne scompone le singole parti per renderla più accattivante, per ricordarci che si vive una volta sola ed è obbligatorio essere felici e liberi.
LAMENTO DI PORTNOY è il miglior romanzo di Philip Roth.
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Lo psicanalista Roth.
Immaginatevi un lettino rosso di pelle, una luce al neon e uno psicanalista. E poi il protagonista di questo romanzo, Alexander Portnoy. Questo è in sostanza quello che Roth ci racconta in questo romanzo/autobiografia (che è quello che poi lo ha fatto conoscere al grande pubblico), un lungo monologo di 219 pagine, in cui il protagonista ci racconta tutta la sua vita: nascita, infanzia, adolescenza, ma soprattutto rapporti interpersonali. Ed è proprio questo che poi diventa pian piano il fulcro del racconto, il rapporto di Portnoy con le donne, e più direttamente con il sesso (e con l'autoerotismo). Logicamente come in ogni seduta psicanalitica che si rispetti il protagonista tornerà alle origini di questi rapporti complicati e, proseguendo con il racconto, arriverà al suo rapporto con la famiglia e in particolare con la madre. In tutte queste 219 pagine lo psicanalista non interviene mai (se non all'ultimo), lasciando quindi la palla completamente al protagonista che con uno sfogo totale, o meglio come dice il titolo con un lamento, si svuota di tutto il peso che sembrava tenere dentro da anni.
È un romanzo particolare perché non ha una conclusione e non ha neanche colpi di scena o personaggi che irrompono nel racconto, è un vero e proprio monologo, a volte infatti rischia di annoiare per la staticità (non credo infatti sia un caso se è solo di 219 pagine) in compenso però con il proseguo della lettura e con il venire a conoscenza di ulteriori particolari sulla vita di Portnoy alcune riflessioni risultano molto interessanti, quasi come se ci trovassimo di fronte ad una vera seduta psicanalitica (gli amanti della materia lo apprezzeranno sicuramente).
Un romanzo scritto come al solito in maniera scorrevole, usando un linguaggio confidenziale, non lesina le parolacce o gli espliciti riferimenti sessuali (all'uscita ci furono diverse critiche proprio per questo motivo), e logicamente è tutto in prima persona. In conclusione un romanzo leggero che si legge in una settimana, però non vi aspettate il Roth di Pastorale Americana, restereste delusi.
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Ven der putz shteht, ligt der sechel in drerd.
Mi scuso sin da subito per l'abbondanza di peni e passere presenti in questo commento... non sono certo all'altezza di Philip Roth che potrà permettersi tali licenze letterarie, ma trovare sinonimi per tali membri, magari pure diversi per non appesantire troppo la lettura, è alquanto snervante.. quindi abbiate pazienza, per cortesia.
Il lamento di Alexander Portnoy potrebbe essere anche il mio e chissà di quanti altri uomini affetti da quella che si potrebbe definire sindrome del 'pene perplesso', dove la perplessità non nasce da indecisioni o dubbi in merito al fatto che la passera sia la compagna giusta, un sintomo cioè di omosessualità latente, bensì la perplessità è legata all'incapacità di trovare la passera giusta, non certo quella perfetta che probabilmente non esiste, ma una con la quale possa risultare piacevole vivere il resto dei giorni senza rimpianti e senza invidiare le passere altrui; e se quel pene proviene da un certo ambiente familiare, se è stato educato secondo rigidi e ferrei principi morali, la perplessità è accresciuta ben presto dai sensi di colpa, determinati dall'inevitabile contrasto tra pressanti impulsi etici ed altruistici con un egoistico soddisfacimento delle proprie pulsioni sessuali, ovviamente inevitabile in questo vagabondaggio tra le passere; ed ai sensi di colpa segue ben presto il timore, la convinzione frutto di un ragionamento inoppugnabile che tale ricerca della passera ideale non avrà mai fine:
"Immagini: supponiamo che mi decida a sposare A, con le sue soavi tette eccetera, cosa succederà quando fa la sua comparsa B, le cui tette sono ancora più soavi, o comunque una novità? Oppure C, che muove il culo come non m'era mai capitato prima; o D, o E, o F. Mi sto sforzando di essere onesto con Lei, Dottore, perchè con il sesso l'immaginazione umana vola sino a Z, e anche oltre!
Tette e fighe e gambe e labbra e bocche e lingue e buchi del culo! Come posso rinunciare alla novità, visto che una ragazza, per quanto deliziosa e provocante sia stata un tempo, mi diventerà inevitabilmente familiare quanto un pezzo di pane? Per amore? Quale amore? Quello che tiene legate tutte le coppie che conosciamo (quelle che si sono date la pena di lasciarsi legare)?
Non è piuttosto debolezza? Non è piuttosto convenienza, apatia, senso di colpa? Non è piuttosto paura, estenuazione, inerzia, pura e semplice mancanza di coraggio, molto, molto più dell' "amore" di cui sognano sempre i consulenti matrimoniali, i parolieri e gli psicoterapisti? Per favore, non prendiamoci per il culo con l' "amore" e la sua durevolezza. "
E, attenzione, sapete di chi è la colpa di tutto ciò? Delle mamme, le nostre care, dolci mamme, che Dio le benedica. E non importa che si tratti di mamme italiane o americane, ebree o cattoliche, bianche o nere, se una mamma è ossessiva e troppo presente nella vita di suo figlio, troppo intransigente, i risultati sono questi: una marea di peni perplessi sparsi nel mondo:
"Nondimeno, nella mia vita c'è un anno o giù di lì che non passa mese in cui non combini qualcosa di talmente imperdonabile, da sentirmi dire che devo far fagotto ed andarmene. Ma cosa sarà mai successo? Mamma, sono io, il bambino che passa serate intere prima prima dell'inizio delle scuole a tracciare in elegante grafia Old English il nome delle materie sui quaderni colorati, che incolla pazientemente i rinforzi intorno ai buchi dei fogli di un trimestre, a righe e senza.
Mi porto appresso un pettine ed un fazzoletto pulito; non mi lascio mai scendere le calze sulle scarpe, ci sto attento; finisco i miei compiti con settimane di anticipo: parliamoci chiaro, mà, io sono il ragazzino più intelligente ed ordinato nella storia della mia scuola! Le insegnanti (come sai, come ti hanno detto) per merito mio tornano a casa liete dai loro mariti. E allora cosa avrei fatto? Se c'è qualcuno che sa rispondere a questa domanda per favore si alzi! Sono così terribile che lei non mi vuole in casa un minuto di più. Una volta, quando definii mia sorella una caccoletta, mi venne immediatamente lavata la bocca con un pezzo di sapone da bucato; questo lo capisco. Ma essere cacciato! Cosa avrò mai fatto?
Non ti voglio più bene, non ad un bambino che si comporta come te; resterò qui sola con Papà e Hannah, dice mia madre (vera maestra nel mettere le cose in modo da ferirti); non avremo più bisogno di te."
Sono traumi come questi che ci rovinano:
"Saltello frenetico come un topo sulla punta dei piedi, tentando di liberarmi le caviglie dalle mutande prima che qualcuno vi lanci un'occhiata perchè, con dispiacere, con frustazione, con moritificazione, scopro regolarmente sul cavallo una pallida, informe velatura di merda. Oh Dottore, mi spazzo e poi mi spazzo e poi mi spazzo, passo lo stesso tempo a spazzarmelo che a cagare, forse di più. Adopero la carta igienica come se crescesse sugli alberi - così dice il mio invidioso padre -, mi spazzo il piccolo orifizio finchè diventa rosso come un lampone; eppure per quanto desideri compiacere mia madre depositando nella cesta della biancheria delle mutandine che potrebbero aver fasciato il buco del culo di un angelo, recapito invece i fetidi slippini di un ragazzo."
Anche perchè, prima che arrivino i sensi di colpa, prima che il pene diventi perplesso, c'è una fase intermedia di assoluta irrequietezza, di spavalderia, di ferocia che nasce proprio dal desiderio represso di libertà, di dire 'basta mamma, lasciami in pace' e che il futuro pene perplesso non può far altro che sfogare su se stesso:
"Poi arrivò l'adolescenza. Trascorrevo metà della mia vita da sveglio chiuso a chiave nel bagno, spremendomi il pisello nella tazza del gabinetto o nei panni sporchi del portabiancheria, o s-ciacc, contro lo specchio dell'armadietto dei medicinali, di fronte al quale stavo ritto con le brache calate per vedere com'era quando schizzava fuori.
Attraverso un mondo di fazzoletti sgualciti e kleenex appallottolati e pigiama macchiati, agitavo il mio pene turgido ed infiammato, nell'eterno terrore che la mia schifosità venisse scoperta e qualcuno mi piombasse addosso proprio nell'istante frenetico in cui deponevo il mio carico. Nonostante ciò, ero del tutto incapace di tenermi le zampe lontane dal batacchio, una volta che cominciava a salirmi su per la pancia."
Ora, è evidente che siamo lontani anni luce dall'autore maturo e lucidamente rassegnato di EveryMan o dal premio Pulitzer di Pastorale Americana; sebbene ci siano già indizi evidenti, tracce semeiotiche di quella che sarà l'ineguagliabile forza espressiva e mirabile capacità psicoanalitica di questo autore, mi sembra inopportuno abbondare negli elogi per un 'racconto' senza tante pretese, una sorta di spudorata confessione delle manie sessuali di uno schlong ebreo (da esperto segaiolo - un intero capitolo dedicato all'argomento - a trapanatore frustrato e mai appagato di shikse americane) che sfocia in un irriverente e dissacrante (nella sua geniale comicità) sfogo giovanile contro un certo tipo di educazione, di insegnamenti ortodossi basati su regole morali/religiose tanto rigide quanto illogiche, siano esse di stampo ebreo o cattolico.
Un libro, quindi, da leggere senza riflettere troppo, c'è solo da condividere ed eventualmente partecipare al lamento di Portnoy.. anche perchè, come dice il famoso proverbio, "quando l'uccello tira, il cervello va a finire sotto terra!"
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Portnoy-oy-oy-oy-oy!
Dalle pagine di questo libro emerge assoluta sincerità e una sensazione palpabile di vita interiore tormentosamente vissuta, mentre sul lettino di un analista l'io narrante, Alexander Portnoy, srotola un monologo di pensieri, ricordi e impressioni conflittuali.
Ben poco sembra inventato e i personaggi spiccano subito con estremo realismo nei loro tratti peculiari.
La madre, innanzitutto, dispensatrice di cibo kosher e sensi di colpa con il suo affetto opprimente, la sua bontà posticcia e inacidita, i discutibili metodi educativi.
Era lei, per esempio, che vagamente minacciosa impugnava un coltello quando il figlio si rifiutava di mangiare, ma sempre a lei è legato il ricordo struggente e poetico di un cielo autunnale:
“Vedi? Vedi come è viola? E' proprio un cielo d'autunno”.
E poi il padre, zelante e frustrato agente di assicurazioni perennemente alle prese con problemi di stitichezza:
“Oh, questo padre mio! Questo gentile, ansioso, stitico padre mio che non riusciva mai a capire niente!”.
Ma era con lui che ogni anno, a novembre, andava a comprare vero sidro di mele per il Giorno del Ringraziamento, rituale necessario che li legava per tacita intesa.
“Perché ho disertato la mia famiglia?”.
Alex non sembra guadagnarci molto dal fatto di avere un'intelligenza al di sopra della media, e porta come una zavorra le sue origini ebraiche.
A quanto pare il perenne senso di inadeguatezza che lo tormenta proviene tutto da lì, e sbattere in faccia agli amati-odiati genitori il suo ateismo condito di idee socialiste è il primo gesto di ribellione adolescenziale - se si escludono le sue assidue pratiche onanistiche:
“Sono il Raskolnikov delle pippe”, afferma, visto che come il personaggio dostoevskiano i suoi “delitti” li consuma pericolosamente, a rischio di essere beccato.
Disabile sentimentale sempre a caccia di avventure sessuali, da adulto vagheggia un ideale di focolare domestico con moglie e figli, ma nel suo animo intollerante e invidioso, oppresso dalla vergogna e dalla colpa, l'amore non può attecchire.
I conti decisamente non tornano nella sua esistenza di avvocato trentatreenne irrisolto e deluso: “Non è mai abbastanza per me. Mai! Bisogna che io abbia. Ma avere che cosa?”.
Tenendo fede al titolo, il romanzo indugia un po' troppo sul piagnisteo in progressione tra rabbia, rimpianti e rimorsi, e soprattutto nella seconda parte diventa un tantino prolisso e ripetitivo.
Ma lo stile resta pur sempre diretto ed efficace, carico di sarcasmo.
Preda di ossessioni castranti e del ricordo di ferite grandi e piccole mai rimarginate, Portnoy è in definitiva un bambino cristallizzato che non riesce a diventare un uomo:
“Con una vita come la mia, Dottore, mi vuole dire a cosa servono i sogni?”.
Indicazioni utili
Il miglior Roth sta altrove
Alexander Portnoy non è poi questo gran simpatico. All’inizio sì, con il racconto di un’infanzia e una giovinezza oppressi da una madre asfissiante di cui è succube come succube è il marito, gran lavoratore ma uomo insoddisfatto che somatizza lo stress in un’epocale stitichezza. Insomma, la classica famiglia ebrea piccolo-borghese che abbiamo conosciuto tante volte, ma raccontata con lingua sciolta e brillante. Il ragazzo non può far altro che ribellarsi, affiancando il fascino per le idee socialiste a quello per l’autoerotismo: l’impegno e il suo pisello saranno gli interessi della sua vita, con il primo che però resta sullo sfondo mentre il secondo è perennemente in primo piano. E allora il lettore può cominciare a scocciarsi: perché non bastano la scrittura scintillante, la bravura nell’interpolare gli argomenti saltando nel tempo e nello spazio senza far avvertire le cesure, la descrizione allo stesso tempo sferzante e affettuosa del microcosmo da cui proviene il protagonista per arrivare a pagina duecento senza sbuffare e pensare ‘di nuovo?’. La domanda, non ci sarebbe bisogno di sottolinearlo, riguarda spesso il sesso: forse quando il libro uscì, nella seconda metà degli anni Sessanta, la quantità e la varietà dei rapporti poteva anche avere un senso, ma oggi che abbiamo letto e visto di tutto – inclusi film sull’ossessione sessuale come il bel ‘Shame’ di Steve McQueen – finiscono per appesantire il libro facendo pensare che la vicenda avrebbe avuto un migliore equilibrio nella dimensione del racconto lungo. In ogni caso – e a prescindere dalla carriera – a Portnoy interessa solo quello e, sia colpa del rapporto con la madre oppure no, risulta anaffettivo nei confronti delll’altro sesso finendo per maltrattare le donne con cui si accompagna e svicolando ogni volta che si può profilare qualcosa oltre al rapporto fisico: a farne le spese in maggior misura, quella per la quale utilizza solo il nomignolo di Scimmia (vicenda che è costata all’autore qualche accusa di maschilismo forse non del tutto infondata). E sul lettino dello psicanalista che ne farà un caso clinico, il protagonista ci finisce solo quando gli capita di far cilecca nella terra degli avi: l’improvvisata trasferta israeliana mette Portnoy di fronte alle sue inadeguatezze, non solo fisiche, ingarbugliandolo ancor di più nei problemi che derivano dalla sua educazione ebreo-americana. Il contrasto tra ciò che le convenzioni sociali impongono e ciò che si desidera davvero essere è infatti un altro dei temi del libro, ma Portnoy non sempre pare riuscire a vedere le proprie responsabilità personali, utilizzando sovente quelle sociali come scusa per i propri problemi. Ne esce così il ritratto di un uomo che è mediocre malgrado le buone qualità in un libro che regala meno di quanto prometta nelle prime pagine: in molti passaggi ci si diverte e si ride anche di gusto, diverse sono le pagine molto belle, ma il risultato complessivo non è all’altezza facendo pensare che, malgrado la fama del titolo, il miglior Roth stia altrove.