La vita davanti a sé
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UN TESTO EMOZIONANTE
«Signor Hamil, si può vivere senza amore?»
Non ha risposto [...] «Si» ha detto, e ha abbassato la testa come se si vergognasse.
Momo è un orfano musulmano di dieci anni che vive assieme a un'anziana signora ebrea di nome Madame Rosa, che ha avuto una vita molto difficile, è stata prigioniera di Auschwitz e poi si è data al mercimonio a Parigi.
Sarà Momo il narratore di questa storia, la madre lo ha abbandonato, ha trascorso la sua infanzia in questa pensione clandestina dove vive con altri figli di prostitute, racconta del suo rapporto materno con Madame Rose e della malattia della donna che vorrebbe morire naturalmente senza cure.
Il quartiere così come la pensione sono in pessime condizioni, alcuni genitori vengono a trovare i loro figli ma per Momo non viene nessuno.
La storia che ci racconta Momo è pervasa da un senso di ingiustizia e di tristezza verso tutte le persone che sono emarginate, per la religione, per la provenienza geografica, perché sono malate, povere o anziane e vengono trascurate, isolate e derise dalla società. Questi bambini e Madame Rosa che se ne prende cura, si uniscono e si curano a vicenda e questo è sicuramente un bel messaggio di speranza.
Questo romanzo anche se è corto, è molto intenso, credo che l'autore voglia comunicarci che l'unica cosa che conta è l'amore, in ogni forma. Quando la vita è difficile, quando si è senza famiglia, quando anche solo respirare diventa complicato, l'unica cosa che ci tiene vivi è amare e se siamo fortunati essere amati.
Questo testo ci fa anche capire che i sentimenti non hanno confini religiosi o geografici, quello che conta sono le persone, cosa abbiamo dentro non da dove veniamo, che lavoro facciamo o in cosa crediamo.
Un testo amaro e dolce come la vita.
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libro indimenticabile
Siamo a Belleville, Parigi, il quartiere periferico che ho conosciuto tramite i libri della serie di Monsieur Malaussene di Daniel Pennac.
Chi racconta è Momo, un ragazzino di 11 o forse 14 anni, che vive, assieme ad altri bimbi, con una vecchia ex puttana, Madame Rosa; racconta la sua vita con tutta la sua ingenuità e semplicità ma anche con un fondo di antica saggezza propria di chi nella vita ha conosciuto difficoltà e problemi.
Narra di un quartiere abitato da tante etnie e culture, in cui si mescola con grande solidarietà una umanità diseredata e marginale fatta da ebrei e arabi, bianchi e neri, bimbi e vecchi.
Narra una infanzia incerta senza sapere niente della sua storia, della sua famiglia, delle sue radici. Unica certezza è l'affetto tra Momo e Madame Rosa e la vicinanza di tanti persone amiche.
Parla di tematiche di grande rilevanza come l'emarginazione, l'eutanasia, la solitudine, il sapersi arrangiare in un mondo difficile, con un linguaggio particolare, per certi versi infantile ma già intriso di parole e temi difficili.
Un libro che tocca le corde del cuore e suscita grandi emozioni.
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Triste triste triste
Confesso che mi sento un po' a disagio a scrivere la recensione di questo romanzo. Prima di iniziarlo avevo letto solo valutazioni positive: lettori entusiasti e critica unanime sul fatto che fosse un capolavoro. Non avrei mai immaginato che potesse non piacermi... E invece.
Innanzi tutto non sono riuscita a percepire la voce narrante, quella del ragazzino Momò, come autentica. Le sgrammaticature e i termini lessicali volutamente sbagliati non bastano, secondo me, a rendere il fluire dei pensieri di un ragazzo. Il flusso di coscienza del protagonista sembra piuttosto appartenere ad un adulto o anche ad un anziano, che per sembrare bambino storpia le parole. E già questo mi è bastato per non entrare in sintonia con il romanzo.
Di conseguenza, anche il contenuto non l'ho avvertito come estremamente emozionante e coinvolgente, come è invece accaduto agli altri lettori. E' vero, è una storia triste. É una storia tristissima: una storia di abbandono, di solitudine, di vita degradata e rinnegata ai margini della società. É la storia di un amore: quello fra l'orfano Momò e la donna che lo ha cresciuto, tenendolo in casa inizialmente in cambio di soldi, Madame Rosa.
Il messaggio del romanzo è evidente e molto bello: può nascere affetto anche nelle situazioni più difficili. A volte le persone che si trovano ai gradini più bassi della scala sociale hanno un'umanità ed una sensibilità straordinarie. L'amore filiale non si prova a comando verso i genitori biologici ma verso le persone che si sono prese cura di noi. Tutti concetti espressi in questo romanzo che sinceramente apprezzo e condivido appieno. Di solito amo questo tipo di storie, che mirano alla nostra empatia e fanno leva sulla nostra sensibilità. Stavolta purtroppo qualcosa non ha funzionato: probabilmente non riuscendo a cogliere come autentica la voce narrante non è scattato il meccanismo empatico che ci fa entrare nel romanzo e soffrire e gioire insieme ai personaggi.
Alla fine così ho trovato “La vita davanti a sé” fastidiosamente deprimente, infarcito di luoghi comuni e forzatamente buonista. Ovviamente è solo la mia personale opinione.
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Qualcuno a cui voler bene
Il romanzo scritto in prima persona dal piccolo Momò, 10 anni (poi passati a 14 nel corso del romanzo per vicissitudini anagrafiche) è una originale versione dei miserabili di Hugo. I personaggi sono in effetti dei miserabili: "figli di puttana" di varia nazionalità affidati alle cure di una ex prostituta ebrea scampata ai campi di concentramento, e spesso dimenticati dalle madri alle sue cure discutibili, inoltre transessuali, uomini soli, o neri di qualche tribù africana, che vivono in comunità in un piccolo appartamento del condominio. Il romanzo è molto originale, rocambolesco, fantasioso, con espressioni linguistiche piacevolmene espressive. E' un romanzo tenero e commovente perchè ai personaggi non manca mai il cuore, a volte il cervello. Leggendo questo romanzo sembra di entrare in un film di Almodovar altrettanto vario e pieno di vita e di colore anche se più candido. I personaggi sono tutti teneri come il transessuale Lola ex pugile nigeriano dal cuore d'oro e vivono insieme, ebrei, neri, arabi e francesi soli, senza barriere e pregiudizi razziali e culturali. Nonostante l'ambientazione tra prostitute e drogati e trans tutto resta "pulito", cioè i personaggi non sono mai abbruttiti dall'ambiente e questo dà al romanzo un tocco irrealistico di favola che però non guasta. Gary vuole far capire al lettore che per chiunque, in qualunque forma fisica pro o contro le leggi di natura (belli o brutti, etero gay o trans), la vita non ha senso se non si ha qualcuno da amare. Nel romanzo c'è un po' di tutto e la scrittura ispira molta simpatia. Il finale poi è decisamente commovente. Gary è stata proprio una bella scoperta. E dire che ha pubblicato il romanzo con uno pseudonimo quando la critica e il suo stesso editore lo davano per finito (come scrittore). E' un uomo dalle molte facce come Pessoa e che non nasconde le sue paure: invecchiamento, malattia solitudine. Fondamentalmente, Gary è una persona tenera e divertente e di mente aperta, senza preconcetti culturali e barriere. E' attirato dal diverso, ma ha le sue ossessioni che lo ingabbiano in alcuni momenti.
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Più forte di un legame di sangue
Che cosa abbia spinto Romain Gary a scrivere La vita davanti a sé (e non solo questa, ma altri tre romanzi) con lo pseudonimo di Emile Ajar non è ben chiaro, tanto più che di questa attribuzione effettiva siamo venuti a conoscenza solo dopo il suicidio dello scrittore. Infatti, in forza della pubblicazione postuma di Vita e morte di Emile Ajar, si venne a sapere che quell’Emile Ajar vincitore cinque anni prima del prestigioso Premio Goncourt con La vita davanti a sé altri non era se non Romain Gary. A onor del vero, se pur la psiche di Gary fosse particolarmente complessa, non è improbabile che la scelta di un altro nome da dare come paternità della sua produzione fosse anche dovuta al fatto che, in parte a ragione, si riteneva perseguitato dalla critica letteraria, che dopo l’attribuzione del Premio Goncourt 1956 con Le radici del cielo lo incolpava di non essere stato capace di ripetersi con libri di eguale valore. Per ironia della sorte anche La vita davanti a sé ottenne, come ho già scritto, il prestigioso premio Goncourt e la cosa più strabiliante è che riviste di critica letteraria che avevano bersagliato Gary si dimostrarono entusiaste per Ajar. A parziale giustificazione di questo comportamento incongruente devo dire che per stile e argomenti il romanzo in questione sembra effettivamente scritto da un autore diverso, anche se alcuni aspetti tipici di Gary, come per esempio una certa vena poetica, ogni tanto affiorano, nonostante un linguaggio meno ricercato e più crudo.
Ciò premesso, è arrivato il momento di una disamina di quest’opera che, a onor del vero, alla sua uscita ha suscitato opinioni contrastanti e anch’io, benché mi sia piaciuta, ho comunque formulato delle riserve perché in bocca a un bambino certe frasi e certe riflessioni a volte sembrano artificiose, trattandosi di discorsi propri di uomini maturi. Però devo ammettere che il piccolo Momò ha una sua naturale simpatia, una tenerezza nella sua fanciullesca innocenza che coinvolge emotivamente. Periferie squallide dove vivono emarginati gli immigrati, le famose banlieues sono lo scenario, il palcoscenico su cui si svolge una vicenda tutto sommato semplice ma che è un grande romanzo d’amore, non dell’amore fra un uomo e una donna, ma del forte legame affettivo fra il bambino e la donna ebrea a cui è stato affidato, a dimostrazione che non esistono solo i vincoli di sangue e che nel bene e nel male l’esistenza può essere anche motivo di gioia, purché si abbia il desiderio di vivere, concetto molto bello, ma strano in un uomo che poi si suiciderà.
Non era facile da scrivere, era anzi difficile proprio per l’ambientazione, per i personaggi, rappresentanti di un mondo di reietti in cui abbondano protettori, drogati, prostitute, e far uscire da quel letamaio un giglio come Momò per dimostrare che in qualsiasi circostanza la vita comunque vale pena di essere vissuta deve avere quasi provocato nell’autore un’ossessiva ricerca del suo originario e ormai trascorso spirito infantile.
La vita davanti a sé non è un capolavoro come Educazione europea, benché toccato dalla grazia, incline però un po’ troppo, nonostante la rudezza dell’esposizione, a un sentimentalismo neppure tanto velato; è però quel che si dice un romanzo eccellente, dalla gradevole lettura e che lascia un’intensa commozione, facendo nascere un istintivo desiderio di protezione, la voglia di stendere una mano per carezzare il viso piangente di Momò.
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Momò
La prima impressione che colpisce leggendo “La vita davanti a sé” di Romain Gary è la scelta stilistica. Vuoi perché il romanzo è stato originariamente pubblicato con lo pseudonimo di Émile Ajar, vuoi perché l’io narrante è un bambino, Mohammed, detto Momò, e dunque l’autore ha ben pensato di immedesimarsi nei panni di una così giovane figura al fine di renderla tangibile e concreta, vuoi per distanziarsi dagli scritti conosciuti con il suo vero nome, sta di fatto che la penna con cui è composta questa opera è ben diversa da quella poetica e sublime a cui il lettore che già conosce altri titoli del lituano è abituato.
Parigi, quartiere di Belleville. Madame Rosa, ex prostituta di origine ebrea con un soggiorno prolungato ad Auschwitz, vive in un appartamento al sesto piano sito in questo anfratto muti-etnico di anime e raccoglie con sé, a pensione regolarmente pagata, i figli delle altre donne dedite al mestiere e che per la professione condotta, non sono legittimate – causa violazione dell’onore e della morale – a crescerli. Tra tutti Momò, musulmano, sembra essere l’eccezione in quanto intorno alla sua storia si cela il mistero. Attorno a questa aleggia un segreto che la donna sembra essere decisa a custodire sino alla morte. Un incontro, una visita inaspettata farà sì che il piccolo conosca non solo l’intera vicissitudine ma che venga anche, improvvisamente, a ritrovarsi quattordicenne. A differenza degli altri coinquilini della meretrice che si adattano a tutto e non si fanno problemi a concedersi a famiglie adottive, il giovane islamico, è un ometto che instaura con Madame Rosa un legame profondo. Egli è affamato di sentimenti, vive per questi, è fedele a colei che lo allevato e cresciuto anche quando, le condizioni di “deperimento” della stessa intraprendono una strada senza ritorno. Anche se talvolta non resiste ad affacciarsi in quei quartieri alti così lontani dalla sua vita di povertà e indecenza, anche se talvolta si perde in questa vita davanti che non sa bene dove lo porterà, anche se talvolta non sa proprio cosa fare di quella realtà che lo circonda, torna sempre da lei, nel suo malridotto appartamento al sesto piano tra travestiti, prostituite, eroina (soprannominata merda e fautrice di finta felicità), ma anche bontà. Perché il giovane è circondato da umanità e amore, un amore e una umanità gratuita e genuina, senza tornaconti o contro-interessi dietro.
Questa volta Romain riesce nel suo intento di descriverci il dolore della vita e la sua incapacità di far godere a tutti di un poco di felicità attraverso le vesti di bambino poi adolescente algerino. Al tutto aggiunge anche una serie di tematiche fortemente attuali quali l’eutanasia (chiamata nel testo abortimento), l’aborto, la vecchiaia, la solitudine, la famiglia di nascita e quella che nel concreto ti cresce, il deperimento dell’essere umano, la demenza senile, le persecuzioni, le discriminazioni, e molto molto altro ancora.
Il risultato finale di questo testo dal grande contenuto e da una penna rude ma fluente che ricrea una perfetta fotografia dei fatti narrati e della realtà sociale passata e presente? È quello di un libro amaro e disturbante che attrae e respinge l’avventuriero che è combattuto sul se andare avanti o fermarsi, anche se poi non può lasciare gli avvenimenti e quindi giunge sino alla loro conclusione, fino cioè a quell’epilogo dal retrogusto amaro che si manifesta nell’amore filiale puro ma che eppure è così acre, doloroso e profondo che necessita di una, due, tre riletture onde sincerarsi di aver davvero capito bene. Da non perdere.
«I vecchi valgono come tutti gli altri, anche se calano. Sentono quello che sentiamo voi e io e certe volte questo li fa soffrire ancora più di noi perché non si possono più difendere».
«Non occorre aver paura della felicità. È soltanto un buon momento che passerà.»
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Fifa blu ovvero la vita davanti a sè
“Mi sono fermato davanti a un cinema, ma era un film vietato ai minori. C’è perfino da ridere quando si pensa alle cose che sono vietate ai minori e a tutte le altre a cui hanno diritto”.
Ha da poco scoperto, Momò, il protagonista e disincantata voce narrante di questa storia, di avere quattordici anni, non dieci e di essere dunque, di colpo, invecchiato di quattro. È tutto tranne che un bambino o un minore. È un piccolo essere vivente che gode di molti diritti: quello di non avere una vera famiglia di riferimento o di essere immerso in una quotidianità indecente, o ancora di essere esposto al vissuto degli adulti presso i quali vive, ai margini del buoncostume o meglio dentro la peggior indecenza possibile. È tra i piccoli ospiti, talvolta assai numerosi, gestiti da un’anziana meretrice che li tiene in custodia a pagamento per conto delle madri impegnate nel mestiere. È arabo ed è allevato come loro da Madame Rose che invece è ebrea, scampata allo sterminio e ancora atterrita dalla famosa retata del velodromo.
È il più grande degli ospiti e quello al quale Madame Rose si è più affezionata, rimane l’unico quando le sue condizioni di salute precipitano in seguito al suo naturale processo di invecchiamento. Eppure non sarà mai solo, Belleville, il quartiere parigino nella periferia orientale della città, popoloso e multietnico, riporta nel mondo occidentale ciò che non c’è più: la rete di solidarietà del vicinato che sente, vive e condivide la sofferenza altrui. Spesso Momò lascia il suo mondo e si affaccia nei quartieri alti, dimenticando quel triste sesto piano del suo palazzo e tutta l’umanità che vi gravita attorno, ai limiti del buoncostume, ma dentro il sentire umano, quello che concede solo amore.
È dunque circondato da tanta umanità, tanto amore, oltre le leggi della natura, oltre le leggi del vivere civile, oltre le costrizioni e le regole in un mondo che le sue incursioni nella Parigi bene rivelano appunto sproporzionato nella distribuzione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. Tramite Momò, disincantato e consapevole osservatore, conosciamo il pensiero dell’autore teso a far percepire con le sue opere questo inaccettabile dolore della vita, incapace di far godere a tutti un po’ di felicità. Molti dei pensieri toccano tematiche che sono tuttora di grande attualità quali il diritto all’eutanasia, l’aborto, la vecchiaia e la solitudine per citarne solo alcuni, temi che fanno apprezzare la modernità di questo romanzo con il quale R. Gary ricevette, all’ombra della sua decadenza, il secondo impossibile Premio Goncourt nel 1975, usando lo pseudonimo di Émile Ajar. Solo con la pubblicazione postuma di Vie et mort d’Emile Ajar si seppe con certezza quanto in tanti, negli ambienti editoriali, avevano da tempo comunque sospettato.
Primo approccio con l’autore che mi incuriosisce molto e per la vicenda biografica e per la produzione, romanzo scorrevole e originale nello stile, perfetto calco del vissuto rappresentato, a tratti amaro e disturbante, capace comunque di regalare una singolare storia d’amore filiale nutrendosi di una giusta e sentita ispirazione al sociale.
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MOMO', PICCOLO SOGNATORE FILOSOFO
“Non bisogna piangere, figlio mio, è naturale che i vecchi muoiano. Tu hai tutta la vita davanti”. […] Mi sono alzato. Be’, adesso sapevo che avevo tutta la vita davanti ma non me ne sarei fatto certo una malattia.
Quando ho preso in mano per la prima volta “La vita davanti a sé” di Romain Gary mi ha colpito una certa somiglianza con “Il giovane Holden” di Salinger, vuoi per lo stesso modo disinvolto del protagonista di rivolgersi direttamente al lettore, vuoi per un linguaggio molto spontaneo e nient’affatto formale. Le assonanze in realtà finiscono qui, dal momento che Holden Caulfield è uno studente di 16 anni, rampollo di una famiglia benestante di Manhattan, mentre Momò è poco più che un bambino, non frequenta la scuola, è orfano e vive nel quartiere parigino, proletario e multietnico, di Belleville, lo stesso che qualche decennio dopo sarà il teatro delle avventure del signor Malaussene e della sua tribù: insomma due universi completamente differenti e non confrontabili. Confesso inoltre di avere all’inizio pensato che nell’approccio di Gary al personaggio di Momò (cucciolo smarrito e indifeso, senza nessuno al mondo se si eccettua la vecchia ebrea madame Rosa, nel cui pensionato per figli di prostitute vive da sempre) ci fosse un qualcosa di sentimentalmente ricattatorio, dal momento che il lettore è indotto a guardarlo con istintiva e aprioristica simpatia, la stessa simpatia che provano i tanti adulti che nel suo bighellonare lo avvicinano e provano una irresistibile tentazione di accarezzarlo e di mostrarsi gentili con lui. Mi sono però dovuto ben presto ricredere: benché sia innegabilmente un libro ad alto tasso di commozione, “La vita davanti a sé” possiede anche una profondità morale sconvolgente. Non c’è nessuna retorica, nessun buonismo in questo ragazzino costretto a vivere esperienze ed assumersi responsabilità troppo grandi per la sua età, a confrontarsi precocemente con la povertà, la malattia, la solitudine, la vecchiaia, e soprattutto con la prematura constatazione che la vita è fondamentalmente ingiusta. Non c’è neppure autocommiserazione, perché Momò impara presto che la vita è dura e non fa sconti, e che “la felicità bisogna prendersela fintanto che c’è”, senza fare troppo gli schizzinosi, perché dopo tornerà inevitabilmente il dolore. C’è un immenso desiderio di amore e di contatti umani in Momò, e questo bisogno (che è un costante tentativo di riempire un vuoto originale, quello della madre assente, mai conosciuta) lui lo cerca dovunque, senza tregua, al punto di compiere perfino dei furtarelli apposta per farsi scoprire e sgridare (“c’era comunque qualcuno che si interessava a me”) oppure di passare intere ore nella sala d’attesa del premuroso dottor Katz, anche se non è affatto malato.
Madame Rosa è la madre surrogata, la madre adottiva: anche se la loro convivenza sembra apparentemente dettata dal reciproco interesse (quello della donna di ricevere gli assegni della famiglia d’origine che le permettono di sopravvivere e di tirare avanti, quello del bambino di non finire al brefotrofio), gradualmente si instaura tra loro un legame affettivamente molto intenso, che sfocia in qualcosa che ben si può chiamare amore. Quando madame Rosa si ammala e diventa non più autosufficiente, Momò si prodiga ad assisterla e a confortarla con filiale sollecitudine, cercando in tutti i modi di farle vivere i suoi ultimi giorni a casa sua anziché in ospedale. Intorno ai due si scatena una vera e propria gara di solidarietà intergenerazionale e interrazziale da parte degli abitanti del quartiere: chi si incarica di portare a spalle il dottore sofferente di cuore fino al sesto piano in cui vive la vecchia, chi provvede quotidianamente a vestirla e a tenerla pulita, chi addirittura inscena nella sua stanza dei veri e propri spettacoli di strada per cercare di riattizzare una vitalità che va sempre più spegnendosi. In questo modo si stagliano nelle pagine di Gary dei personaggi indimenticabili: ovviamente madame Rosa, ex prostituta ebrea dal cuore d’oro, che tiene sotto il letto un ritratto di Hitler (“e quando si sentiva infelice e non sapeva più a che santo votarsi, tirava fuori il suo ritratto, lo guardava e si sentiva subito meglio, era pur sempre una grossa preoccupazione di meno.”); madame Lola, un travestito senegalese, già pugile in gioventù nel suo paese, che non fa mai mancare soldi (ma anche dolci e champagne) quando madame Rosa e Momò rimangono soli, senza più l’aiuto economico dei bambini lasciati a pensione; il signor Hamil, un vecchio arabo ormai quasi cieco, che dispensa a Momò con la sua ancestrale saggezza le prime, fondamentali lezioni di vita; il temibile protettore nigeriano N’Da Amédée, che gira con le guardie del corpo e che alla famiglia in Africa vuol far credere, con le lettere che madame Rosa scrive per lui a motivo del suo analfabetismo, di essere diventato una persona ricca e importante; e poi ancora il mangiatore di fuoco Waloumba con la sua tribù di colore, il gentile dottor Katz, e tanti altri ancora. Su tutti svetta il piccolo Momò: “La vita davanti a sé” è un suo ininterrotto monologo, pieno di infantile ironia e spontaneità, in cui sogni, desideri e paure affiorano con irresistibile naturalezza, senza affettazioni e senza le censure psicologiche tipiche dell’età adulta. Gary è straordinariamente bravo a calarsi nel modo di pensare di un ragazzo di quattordici anni (che però per gran parte del libro pensa di averne dieci), semplice ma non semplicistico, grezzo ma pieno di buon senso, anche a costo di ricorrere a sgrammaticature (Momò dice spesso “prossineta” per “prosseneta”, “stati d’abitudine” al posto di “stati d’ebetudine”, come normalmente farebbe un bambino di fronte a parole tipiche del mondo dei grandi) o a ripetizioni di cose già raccontate in precedenza. Altrettanto stupefacente è la capacità dello scrittore francese di rappresentare con esattezza e credibilità la psicologia infantile, quel mondo in cui le paure (quelle di rimanere soli o di non essere in grado di affrontare le responsabilità della vita) vengono stemperate dal ricorso alla forza protettrice di sogni ricorrenti (di una leonessa o di un poliziotto, proiezione simbolica dei genitori assenti, dei pagliacci). C’è poi una bellissima scena in cui Momò entra in una sala cinematografica di doppiaggio e qui, vedendo le immagini sullo schermo andare al contrario, immagina come sarebbe se la vita stessa potesse riavvolgersi (ad esempio Madame Rosa ritornare giovane e bella), e così facendo riesce addirittura a immaginare se stesso nelle braccia amorevoli di sua madre.
La vita ha costretto Momò a crescere in fretta (di fronte a lui i due figli della ricca Nadine gli paiono “nuovi di zecca, come se non li avessero mai usati”) e a capire cose che la maggioranza dei suoi coetanei impiegheranno forse decenni a imparare. In una scena estremamente significativa, al dottor Katz, che vorrebbe ricoverare madame Rosa in ospedale, Momò dice che “non c’è niente di più schifoso che infilare a forza la vita nella gola della gente che non si può difendere e che non vuol più essere utile”, in una accorata perorazione in favore dell’eutanasia che ci fa capire come Gary non intenda arretrare neppure di fronte a tematiche dal forte impatto etico e sociale. Il lascito forse più originale di Gary è l’ottica con cui, per mezzo del suo protagonista Momò, guarda i vecchi e li eleva, con la loro bruttezza, la loro decrepitezza, il loro rimbambimento e la loro solitudine al posto che raramente la letteratura contemporanea ha assegnato loro: quello di esseri indifesi ed impauriti per la loro prossimità alla morte e alla non autosufficienza, che la società avrebbe il dovere di aiutare, rispettare, ma soprattutto amare. Il romanzo termina con la non memorabile frase “bisogna voler bene”, parole che però, alla luce di quanto si è letto nelle intense pagine precedenti, sono un po’ come un provvidenziale salvagente che Gary ha voluto lanciare a una umanità sempre più in balia dell’indifferenza e dello sconforto, consapevole che la bellezza e la bontà si possono trovare più facilmente nei bassifondi delle nostre metropoli, piene di immigrati e di reietti, piuttosto che negli eleganti quartieri dove vive l’alta borghesia. In fondo, qualcuno prima di lui non aveva già detto “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”?
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la forza della solidarietà
Siamo a Belleville, un quartiere popolare e multietnico di Parigi negli anni Settanta. Al sesto piano di un vecchio condominio senza ascensore Madame Rosa, anziana prostituta ebrea, si occupa clandestinamente di un gruppo di bambini ai quali offre, in cambio di un compenso mensile, la possibilità di non finire in orfanotrofio. I piccoli sono “figli dell'errore”, aborti mancati che le colleghe di Madame Rosa hanno evitato di denunciare all'anagrafe per non rischiare di vederseli sottrarre dalle autorità.
Mohamed, protagonista e voce narrante di questa storia, è un ragazzino arabo di dieci anni che ricorda di essere giunto da madame Rosa quando era molto piccolo; sensibile e curioso, Momo riflette sull'esistenza con ingenuità ed ironia, ma soprattutto si chiede come mai la sua mamma non si sia mai presentata per riprenderlo con sé, anche solo per trascorrere con lui qualche ora. Crescendo Momo si affeziona a Madame Rosa come ad una madre, è partecipe delle angosce e delle paure che, sopravvissuta alla deportazione, ancora la turbano e la sostiene in un crescendo di cure e di attenzioni anche quando, ormai inferma e gravemente ammalata, Madame Rosa con tenacia si rifiuterà di farsi ricoverare in ospedale. “La vita davanti a sé” è una storia d'amore tenera e commovente tra una donna ed un bambino, la testimonianza di una molteplicità di gesti di affetto e di solidarietà, una possibilità di sentirsi parte di una famiglia anche al di là dei legami di sangue.
Pubblicato in Francia nel 1975 “La vita davanti a sé” è un romanzo che mi ha coinvolta e commossa e che ho apprezzato perché sottende temi di ordine sociale ed etico ancor oggi di grande interesse. L'autore ci presenta una società multietnica in cui i problemi non mancano (prostituzione, droga, violenza) ma in cui sono possibili il superamento del pregiudizio, l'accettazione della diversità e gesti di grande solidarietà. Ancora più attuale e controversa è la questione relativa al diritto di ogni persona di poter scegliere come vivere la malattia e la vecchiaia. Tra le righe si intuiscono temi quali l'angoscia del passare del tempo, la paura dell'infermità mentale e il timore della perdita dell'autonomia personale. Attraverso la voce di Madame Rosa, Gary invoca il diritto alla rinuncia alla medicalizzazione forzata e, senza citarla esplicitamente, auspica la possibilità di una scelta estrema ed indubbiamente discutibile quale l'eutanasia.
Tematiche scottanti che emergono con delicatezza da una voce narrante, quella del piccolo Momo, in un giusto equilibrio tra ironia e profonda malinconia, una voce che non drammatizza, ma nello stesso tempo evita di scadere nella superficialità.
“La vita davanti a sé” è un libro che si legge in modo rapido e scorrevole; i capitoli sono brevi, il linguaggio semplice e colloquiale. Un'ultima considerazione: avendo letto il testo sia in lingua originale sia in traduzione, consiglio se possibile di leggerlo in francese in quanto a mio avviso la versione italiana non rende appieno la freschezza e la spontaneità del linguaggio del piccolo protagonista.
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di padre ignoto
Diciamolo subito, trattasi di capolavoro. Per l'ironia e la leggerezza, per la poesia e il dolore che pervadono la vicenda del piccolo Momo, che come il giovane Holden racconta la sua storia in prima persona e con le sue considerazioni sa far ridere e sa far piangere. Un personaggio indimenticabile, Momo, così come lo è Madame Rosa con i suoi 100 chili e i suoi 10 piccoli pensionanti, figli di prostitute.
Gary è bravissimo nel dar voce a Momo, al suo stupore, alle sue paure. Ed è bravissimo ad affrescare la realtà che lo circonda, quella degradata della banlieu francese, ricca di splendidi personaggi strampalati.
Perchè lo scrittore si firmò con uno pseudonimo? Forse per farsi beffe dei critici che ormai lo snobbavano. Ma chissà, forse anche per suggerirci che come Momo anche questo libro aveva un padre ignoto, ma "bisognava volergli bene" e avrebbe avuto di sicuro una (radiosissima) vita davanti a sè.