La vegetariana
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Disincarnarsi
Franz Kafka diceva che un libro deve essere un’ascia che rompe il mare di ghiaccio dentro di noi, uno strumento atto a turbare la nostra placida esistenza, fatta di abitudini e confortanti illusioni: “La vegetariana” della scrittrice sud-coreana Han Kang incarna appieno questa idea. Unendo all’eleganza stilistica un’accorata intensità, l’autrice racconta una fiaba oscura, che mescola il sublime e il grottesco, la bellezza dei fiori e l’odore pungente del sangue, in cui si interroga - persino meglio di quanto si faccia nei saggi filosofici - su una questione ancora dibattuta nel nostro mondo contemporaneo: vale sempre la pena di vivere la propria vita?
Come il Bernini eternizzò nel fulgore del marmo la trasformazione della ninfa Dafne che - secondo la leggenda greca - scampò alla follia amorosa di Apollo pregando gli dèi di tramutarla in un albero, così Han traccia con l’inchiostro della sua penna un’analoga metamorfosi vegetale che ha come protagonista una donna coreana, Yeong-Hye. Il romanzo si apre con la decisione della donna di diventare vegetariana: dietro tale scelta, però, non ci sono ponderate ragioni etiche o salutistiche, ma un istinto viscerale di disincarnarsi, di liberarsi del peso della sua esistenza. Un istinto che le si rivela per la prima volta in un sogno orrorifico, che la vede stritolata in quintali e quintali di carne marcescente.
Guardata con disprezzo dal marito e osteggiata dalla famiglia tradizionalista, che non accetta la sua scelta vegetariana, Yeong-Hye entra progressivamente in un vortice di rinunce, abulia e isolamento sociale: non ha voglia di far sesso perché suo marito “puzza di carne”, parla poco, diminuisce sempre più le razioni di cibo, mentre il suo seno si aguzza e il suo corpo diviene sempre più evanescente. Il manicomio in cui viene confinata dalla sorella In-Hye, dove si consuma la parte finale del romanzo, non migliora la situazione. Le uniche azioni che la rendono viva, Yeong-Hye le imita dal silente mondo degli alberi: si denuda per suggere la luce solare con tutti i pori della sua pelle, ama affondare le mani nel terreno come se fossero radici, sembra rinascere quando il genero - un’artista inquieto e perverso - le dipinge sul corpo fiori screziati. Le piante, esseri autotrofi, non hanno bisogno della sofferenza e della morte altrui per sopravvivere. Per loro non vale il detto latino mors tua, vita mea. Yeong-Hye, in fondo, non aspira alla morte, ma aspira a una vita che non sia fabbrica di morte. Ma una simile aspirazione si scontra con le leggi inesorabili della natura.
Han lascia sullo sfondo le ragioni inconsce che potrebbero celarsi dietro il malessere che attanaglia la protagonista, come ad esempio l’infanzia trascorsa con un padre violento o il matrimonio infelice che la imprigiona; non c’è alcuno scavo psicologico, la descrizione della vicenda è affidata alle voci narranti del marito, del genero e della sorella, che poco o nulla sanno del vissuto interiore della donna. Tutto rimane volutamente ambiguo: Yeong-Hye appare ora una malata, che non riesce più a sostenere il peso delle violenze ricevute e dell’indifferenza riservatale, ora una lucida mistica, che squarciando il velo di Maya che offusca la vista a tutti, giunge alla verità essenziale dell’iniquità della vita umana. Nel finale, In-Hye, persona pragmatica e di successo, con alle spalle una biografia meno travagliata della sorella, giunge a scorgere – come una gobba di un mostro che fuoriesce dalla placidità di un lago - l’orrore e l’insensatezza dell’esistenza. La malattia è contagiosa o In-Hye ha finalmente compreso la filosofia della sorella? Ma la ricerca delle cause che si annidano dietro esperienze così tragiche, deve cedere il passo a una questione più urgente: che fare di fronte al dolore di persone come Yeong-Hye? Il romanzo sembra suggerire come soluzione quella che molti non hanno il coraggio di ammettere: l’eutanasia, la liberazione dalla sofferenza, il rispetto per una vita che non ce la fa più.
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I sogni sono desideri
Trama: dopo aver fatto un terribile sogno Yeongh-hye decide di diventare vegetariana. Una scelta che nulla ha a che fare con motivi animalisti, di tendenza o salutisti: il suo è un primo clamoroso passo verso l'autodistruzione.
Un sogno come punto di rottura, trampolino di lancio per prendere le distanze da una società in cui le costrizioni e gli obblighi diventano fardello insostenibile. Yeongh-hye rinnega le convenzioni attraverso lo svilimento del proprio corpo. Mette in atto una rivalsa verso marito e famigliari i quali, abituati al suo carattere remissivo, anziché interpretare lo strano comportamento come campanello d'allarme riversano su di essa ulteriore rabbia.
Han Kang descrive una negazione radicale con stile facilmente fruibile e dall'incedere ipnotico, crudo e corrosivo, in cui la (presunta) follia è racchiusa in tre capitoli narrati da altrettante differenti voci. Le azioni della protagonista non trovano quindi alcuna spiegazione scientifica in quanto lasciate all'interpretazione soggettiva del lettore, il quale può solo basarsi sulle parole e sulle impressioni del coniuge, del cognato, ed infine della sorella. "La vegetariana" è un romanzo che sfrutta al meglio alcuni simbolismi legati alla cultura orientale (il rapporto con la natura e l'aspirazione alla sintonia con essa) inseriti nel rifiuto dapprima al cibo e poi ai rapporti umani come atto di ribellione nei confronti di un ruolo già scritto e al quale non ci si può sottrarre. La psicosi della protagonista è efficace nel portare a galla un effetto domino di natura pessimista in cui non vi è interpretazione esatta o sbagliata, bensì una deprimente assenza di affetto sostituita con atteggiamenti di convenienza, punti focali di un romanzo in cui l'autrice centra il paradossale estremismo: l'affermazione attraverso l'annullamento.
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UNA NOTTE UN SOGNO
Un sogno entra di prepotenza nella vita di una donna e da quell'istante la vita reale subirà una trasformazione radicale e dilaniante.
Le immagini di sangue e di corruzione delle carni prendono il potere sulle facoltà mentali dell'esile ed eterea coreana, portandola ad un punto di rottura con il coniuge, i familiari e con un mondo circostante di cui non sente di poterne più far parte.
Comincia così un esilio da se stessa e dalla società per la protagonista, un essere schiacciato da sempre sotto il peso del rigore imposto dalla cultura asiatica alla figura femminile, lontana dai venti dell'emancipazione e della libertà nella realizzazione personale.
La fuga dalle carni assurge a simbolo di ribellione a tutto ciò che è imposto in nome di un pensiero, di retaggio culturale o di qualsiasi credo altrui.
Caratteristiche incontrovertibili del romanzo sono l'intensità e la crudezza, spinte ad un punto tale da far deflagrare le pagine in un urlo di dolore che ingabbia il lettore in una morsa letale.
Pur nella sua brevità, lo scritto contiene una sequenza di immagini talmente disturbanti da far trascendere le parole in fotografie, toccando spesso l'eccesso, ma consapevoli che nel costrutto narrativo nulla è lasciato al caso.
Una lettura intrisa di sofferenza e dai contenuti forti in grado di scoprire nervi dolenti di un malessere sociale; un climax nero e macchiato da quel sangue che la protagonista vede sgorgare dalla carne, una flebile voce di speranza nel futuro che il lettore cerca di cogliere almeno nell'epilogo.
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lo cercavo, mi ha trovato
...un testo che è arrivato senza annunciarsi e ha colto il mio sguardo. L'ho preso voracemente e l'ho consumato con altrettanta fame, finche' non ho compreso che è stato lui a consumarmi, senza lasciarmi più nulla, se non l'esigenza immane di rimpiazzarlo con, almeno, un pizzico di speranza. L'ho digerito dopo molto che avevo concluso la lettura, e solo ora l'ho assimilato e sono pronta per capirlo. Ho percepito il dolore a livello osseo e ho sentito il freddo che attraversava tutto il mio corpo; primo ero affamata, poi disgustata. Ho vissuto questo romanzo a livello viscerale e sono giunta anche io ad uno stato onirico, guardandomi intorno senza realmente vedere. Il titolo attira e al contempo respinge. Basterebbe quello per comprendere. La protagonista diviene dapprima vegana, rifiutando persino la vista della carne. Il marito è sempre stato abituato a rapportarsi con una donna "del tutto insignificante". Finche' una mattina scopre che quella donna, che pensa di conoscere, ha svuotato totalmente la dispensa, il frigorifero, la casa da tutto ciò che può avere provenienza animale. La protagonista passa dal rifiuto delle proteine animali a quello dei rapporti umani, fino a respingere la vita stessa e piomba, (apparentemente?) in una sorta di depressione, anoressia, apatia. Non leggeremo mai il pensiero della protagonista in prima persona; la prima parte del libro è affidata allo sguardo cinico e viscido del marito; poi farà la sua comparsa, nel ruolo di protagonista, il cognato della donna: un ennesimo uomo che approfitterà del suo corpo, passandole sopra, distruggendo quel poco che di lei era rimasto a contatto con la realtà circostante. Nell'ultima parte cadiamo nell'oscurità: sua sorella le starà accanto e, pur con dolore, vivrà lo spegnersi progressivo e inarrestabile, della luce nella donna che le sta a fianco. Il digiuno cosi violento e prolungato trascina in uno stato di totale irrealtà. Nessuno però riesce mai a cogliere davvero il significato ultimo di queste pagine. Questa discesa negli inferi brucerà nella pelle del lettore, nei suoi "perché, fino a questo punto?". Assistiamo impotenti a questa donna che "ha assorbito la sofferenza dentro di se, fino al midollo".
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Fitomorfosi
Atteone, il mitico cacciatore educato dal centauro Chirone, osserva, nei recessi più intimi della foresta, la dea Diana nuda; lei, sorpresa, lo trasforma in un cervo, Atteone scappa e viene divorato dai suoi stessi cani, cacciatore prima, preda poi. È il mito di un dissolvimento brutale nello spirito della natura, è il mito di una palingenesi che ha i tratti luminosi di una verità alla fine dis-velata.
Un velo semitrasparente sembra essersi posato sulle labbra di Yeong-hye, una diafana inconsistenza che sembra attingere la propria linfa dalle radici immerse nella terra, dal lento dissolversi della materia organica, del proprio corpo, nella terra umida, scura e brillante, oltre le contraddizioni. Tutto fluisce e termina, rinasce forse, nella tensione di uno stillicidio lento, goccia di linfa su goccia di linfa, arterie verdi che impiastrano della loro appiccicosa dolcezza, il corpo, l’anima e ancora, lo spirito. Vegetalizzazione come copio dissolvi: è il vuoto orrifico spalancato al centro di un oceano verde, silenzioso, cocciutamente inesprimibile.
Si articola in tre parti questo libro, manifesto come un fiore bianco che sboccia, ma chiuso, col suo segreto, come una natura silenziosa, gelosa del suo segreto.
Parte prima: la vegetariana.
Yeong-hye fa un sogno, un volto, “nato dalla pancia”, dirà poi. È un sogno che macchia di sangue la sua vita, un senso di panico, ansia, come un peso che le impedisce di respirare, al centro del petto. Il marito ci racconta la sua metamorfosi, la sua scelta: diventare vegetariana e allontanare il sogno, liberarsi del peso. Yeong-hye è parlata, da altre infinte prospettive che rendono difficile, misterioso, coglierne le reali ragioni. Il marito la critica, non la capisce, la disdegna, ma per lei, lui “puzza di carne”. Il corpo è imperfetto: “è il tuo, puoi trattarlo come ti pare, l’unico territorio in cui sei libera di fare come preferisci, ma anche questo non va come volevi”, dirà più avanti la sorella. La chimica del carbonio è volgare, parlare è feroce. Il marito ci racconta e giudica." La vegetariana", come lui la chiama, è una condanna, una parola che circoscrive il limite della comprensione e l’infinità dell’incomprensione: la natura è solo un quadro di Arcimboldo.
Parte seconda: la macchia mongolica
La macchia mongolica è una voglia, un errore di pigmentazione, si dice, dei discendenti di Gengis Khan. Altri dicono sia l’impronta che la nonna lascia quando dà uno schiaffo al bambino per farlo respirare. La macchia mongolica ha un colore bluastro, compare spesso sulle natiche o in fondo alla schiene e scompare, poco dopo, con la crescita. Yeong-hye ce l’ha ancora, sulla natica sinistra. Ed è quella idea a eccitare il marito della sorella, un artista, quella persistente macchia bluastra. Eppure quell’eccitazione, quella voglia animalesca di possederla, si innalza poco a poco nell’estatica contemplazione dei fiori pitturati, del corpo brillante, si sublima nell’astratta geometrica perfezione di una natura che ha le forme di una quadro di Piero della Francesca.
Parte terza: fiamme verdi
Parla la sorella di Yeong-hye, torturata dal crivello dell’incomprensione. Perché la sorella, perché il marito hanno fatto quello che hanno fatto? È la fuoriuscita dagli schemi in cui è cresciuta, in cui ha creduto, è il crollo di quell’attaccamento alla vita di cui, alla fine, si chiede “perché importa così tanto vivere?”. È la storia di una comprensione e, per sua stessa natura, di una dissoluzione impossibile. La natura di In-hye, la sorella, è come un inferno di ninfee, un quadro di Monet straziato di luce, come uno spazio oscuro in cui affoga il suo pensiero. Resta solo da guardarla, accanitamente, “come a protestare contro qualcosa”, cupa e insistente.
Affascinante e misterioso, luminoso e scuro questo libro di Han Kang, all’incrocio tra oriente e occidente, in bilico tra la ricerca di un senso, di una liberazione, possibile forse solo oltre il principio di sopravvivenza, e la coercizione sociale, l’incomprensione, la clinica psichiatrica che sembra non capire. Ma in fondo dove è la verità? Perché Yeong-hye ha lasciato il filo che la lega alla vita? È malata, è un’asceta, è una mistica, è pazza? È uno stupro, è arte, è sublimazione dell’eros, ricerca platonica? Tutto sembra scivolare, sciogliersi, aperto alle inclinazioni del lettore. Non perfetto, specie all’inizio, il libro cresce, poco a poco, si impone con la sua atmosfera, con il suo velo di palpabile magia, risuona di echi primitivi, essenziali, ctonii. È un libro di ricerca e liberazione, di illuminazione e (in)comprensione, ma anche un libro che sembra affondare la sua intima ragione in una mistica nuda e cristallina, in fondo, alle radici delle piante, dove il peso della terra si dissolve alla fine in un pulviscolo di luce, il battito di una farfalla.
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Liberazione di donna
Leggo questo libro dalla copertina che mi seduce, scritto dalla coreana Han Kang, figlia d’arte. , potrebbe essere il sottotitolo di questa storia. Un uomo innocuo, pigro, ordinario, sposa una donna mite, modesta e pericolosamente lettrice. Yeong-hye è la moglie, “quasi una specie di fantasma, silenziosamente ostinato a restare dov’era”(p.17). I due non sono più innamorati e non avvertono neanche il calo del desiderio, rinsecchiti in un matrimonio senza figli, senza passione, senza e basta. L’unica mania della donna, sotto i vestiti, nessun reggiseno!
L’autrice descrive immagini di sangue, di carne che cuoce sui barbecue, vedo sulla pelle, sui vestiti, il rosso che cola dalla massa cruda molle e scivolosa. E la protagonista sente, con forza, “l’obbligo morale di non prendere più parte alla distruzione della vita.”(p.23).
È macilenta, pallida, stanca, compie di più di una scelta vegetariana, si abbandona ad una triste voglia di vivere, alla necessità di punire la propria carne. Malattia, nuova mentalità, diversa cultura? La mente equilibrata va di pari passo con un’alimentazione equilibrata? Un libro inno per vegetariani? Penso a una strada possibile di formazione, segnata da una animalesca disciplina fai-da-te, senza alcuna guida psicologica a curare la cultura, a proteggere le ferite dagli usi e costumi brutali di un passato primordiale.
Yeong-hye è un grumo di ribellione, un desiderio di liberazione, è essa stessa un diniego urlato attraverso il rifiuto di alimentarsi, è una voce muta contro le violenze intorno alla carnalità vivente. Tutta la famiglia è in agitazione, è preoccupata: bel tornaconto da ottenere per la protagonista, un utile riscontro, una sfida vinta con la protesta sistematica. Spesso, chi è carnefice con se stessa, è anche una vittima lagnosa. In alcune pagine, le situazioni descritte sembrano irreali ed estranee all’umano. In ogni vicenda narrata, la realtà rivendica con onestà la possibilità per Yeong-hye di risalire dall’ombra e di rivelarsi.
La donna compie un cammino duro, da autodidatta, con le viscere, con il sangue e il sudore, con i piedi, la lingua, le mani. Attraversa un inferno di coscienza verso l’autonomia di sé. Il dolore, anche fisico, si fa passaggio, apertura. Assisto alla generatività di ogni donna che si rimette al mondo, che rinasce con la fatica gioiosa di essere tutta intera, sola. Il plesso solare di Yeong-hye, bloccando il respiro, trattiene e ferma l’energia vitale, non muore, ma la ripulisce bruciando, oltre la macchia mongolica azzurra che segna il passaggio.
“Io non mangio carne”. Il messaggio è chiaro e risoluto: non fagocito, non uccido, non aggredisco, rinnego il potere e la violenza del comando e del controllo. Ancora una volta, l’arte e la bellezza come altari salvifici e trasfiguranti. È Yeong-hye l’animale mutante che sviluppa la capacità di svolgere la fotosintesi.
La via dell’éros per il mondo è solo follia. “Sorella...Tutti gli alberi del mondo sono come fratelli e sorelle” (p.143)
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Il male di vivere
Di questo romanzo le prime due parti non mi sono piaciute (se non per i sogni) ma la terza voce narrante è bellissima.
Nella prima parte la voce narrante è quella del marito della vegetariana: un uomo mediocre, come si definisce stranamente lui stesso. Stranamente perchè è ben raro che la mediocrità riconosca se stessa. Ma non è la mediocrità a stancare il lettore quanto la materialità, il fatto che il mondo dell'uomo sia fatto solo di cose solide: di cibo, di sesso, di denaro, di rapporti umani che seguono regole dettate dalla decenza e dalla convenienza, mai dall'affetto. La narrazione è stancante come l'io narrante e le lunghe disquisizioni sul vegetarianesimo con la moglie o con i suoi parenti sono abbastanza ripetitive e noiose. Solo i sogni accendono la narrazione anche se hanno una crudezza spiccata e forse eccessiva. Comunque i sogni sono belli. Il rifiuto della donna di mangiare appare subito come un rifiuto del mondo di carne del marito e l'espressione di un desiderio di spiritualità che non trova sfogo altrove: una religione, per esempio. La seconda parte è narrata dal cognato, l'artista. Per quanto artista è anche un uomo, e come uomo è fatto di materia e repellente come il marito. In quanto artista riesce però ad avvicinarsi al mondo segreto di lei intuendone la natura. Ne dipinge il corpo di fiori e si scopre che la vegetariana non vuole in realtà nutrirsi di piante ma diventare lei stessa pianta: nutrirsi di acqua e sole, sprofondare nella terra per un estremo desiderio di libertà, di spiritualità e anche di innocenza. Usa la sua intuizione per trarne un tornaconto materiale. La terza parte è molto bella. La voce narrante è quella della sorella che riconosce in sè gli stessi sintomi di male di vivere della vegetariana anche se forse per lei il rimedio non può essere lo stesso: il mondo vegetale è un mondo freddo, dice. Gli alberi non hanno compassione. Questa terza parte mi è piaciuta molto compensando ampiamente le altre due che mi avevano lasciato parecchie perplessità. La descrizione dei pensieri della sorella è veramente interessante e coinvolgente. Il lettore si sente immerso nella sua visione del mondo con poche aperture, con poca speranza, con poca luce se non quella del sole, con desiderio di calore e comprensione che non possono venire dal mondo vegetale e che si intravedono nella donna che si è presa cura della vegetariana nella sua degenza accudendola con amore. Nell'amore disinteressato della donna si intravede il calore che può portare una scintilla nel mondo che per il resto è un posto inquietante, rosso, con il sangue che sgocciola ovunque, come una grande macelleria. Il romanzo esprime il rifiuto dell'homo homini lupus a cui contrappone un allora è meglio morire. il tempo che scorre scandisce questa terza parte come una musica. Fino alla fine, cioè fino a quando non c'è più tempo.
Consigliato a chi ha letto La donna da mangiare della Atwood
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"Ho fatto un sogno"
"Ho fatto un sogno".
Il senso di tutto questo romanzo si concentra in questa piccola frase, che la protagonista ripete, quasi come un mantra, per giustificare la sua decisione improvvisa di non mangiare più carne (non mangiare, non cucinare, non servire, non guardare), e in questa frase è racchiuso il suo mistero, rimangono imprigionate tutte le sue motivazioni.
Visionario e onirico.
Ma anche feroce.
La scrittura della Kang è potente e riesce benissimo a rappresentare la storia di una negazione, di una sottrazione, di un annullamento come unico sistema per affermare la propria esistenza.
Scomparire per esserci.
Consumarsi per rinascere altro da sé.
Una vita trascorsa nella trasparenza, nella remissività, prima al servizio della violenza paterna, poi all'ombra di un marito cinico ed egoista che si serve di lei per nascondere la propria mediocrità.
Yeong-hye non rifiuta solo la carne, ma rifiuta il mondo nella sua brutalità, aspira ad una trasformazione radicale del proprio essere, aspira ad un'innocenza che non appartiene alla razza umana.
La protagonista è raccontata da tre punti di vista: quello del marito, quello del cognato e quello della sorella maggiore.
Ma nessuno dei tre riesce a rappresentarla veramente.
Il marito è troppo autoriferito e, di conseguenza, totalmente incapace di comprendere le ragioni di Yeong-hye, il cognato viene risucchiato in un vortice di "erotismo ed arte" che gli dà una visione alterata del problema, mentre la sorella, pur avvicinandosi di più al suo sentire, è troppo impegnata a mantenerla in vita e a venire a patti con il proprio fallimento per riuscire ad entrare davvero nel suo mondo.
Il tutto deve anche essere contestualizzato all'interno della società sudcoreana, dove vigono atteggiamenti molto lontani dai nostri rispetto alle scelte alimentari, ma è anche vero che questo non è un libro sul vegetarianismo, né sui fondamenti etici ad esso correlati, né su principi salutisti o estetici, ma sul malessere di vivere.
È un grido disperato.
È un "no" urlato senza voce.
Il primo "no" di una donna ingabbiata nella sua inesistenza.
Questo romanzo è stato un'esperienza forte, violenta, in alcune parti profondamente sensuale, permeato da un desiderio di incorporeità, di trascendenza, dove ad un costante bisogno di mangiare per sopravvivere si contrappone un disarmante "Perché, è così terribile morire?".