La passione secondo G.H.
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DIRE L'INDICIBILE
“Allora, sulla soglia della dannazione, ecco che io ho mangiato la vita e io sono stata mangiata dalla vita. Capivo che il mio regno è di questo mondo. E lo capivo per quanto di infernale c’è in me. Poiché in me stessa io ho visto com’è l’inferno.”
All’inizio de “La passione secondo G.H.” Clarice Lispector piazza una significativa premessa: “Questo libro è un libro come un altro ma avrei piacere fosse letto solo da persone dall’anima già formata. Quelle persone sanno come l’avvicinamento a ogni cosa avvenga per gradi e con sofferenza – e passando talvolta attraverso l’opposto di ciò che è la meta. Quelle persone e solo loro capiranno [….]”. La scrittrice brasiliana mette subito le mani avanti e pone il lettore sull’avviso. E’ come se dicesse: “Attenzione, questo libro potrebbe urtare seriamente la vostra sensibilità!”, e declinasse per mezzo di questa puntigliosa raccomandazione ogni responsabilità per le conseguenze derivanti da un incauto utilizzo dell’opera. In effetti, l’avvertenza dell’autrice è tutto fuorché esagerata, giacché “La passione secondo G.H.” è un libro a dir poco disturbante, a tratti addirittura scioccante, oltre che impervio e faticoso al di là di ogni umana immaginazione. Non si può neppure dire che esso sia un vero e proprio romanzo: se davvero volessi trovargli a tutti i costi una definizione, forse potrei parlarne come di una cronaca oggettiva, fedele, minuziosa fino ai particolari più vergognosi e più ripugnanti, di uno sconvolgimento, di una catastrofe. Una catastrofe però, tengo a precisare, senza pathos e senza emozione, o meglio, con le parole stesse dell’autrice, “senza fragore e senza tragedia”. La Lispector nega al lettore ogni manifestazione di empatia nei confronti della protagonista, di cui infatti ci vengono rivelate solo le iniziali, G.H., e pochissime altre informazioni: che è una donna senza marito né figli, che è attraente e finanziariamente indipendente, che vive in un elegante attico di un lussuoso condominio. Quando una mattina decide di dedicarsi alla pulizia dell’appartamento ed entra nella stanza della domestica che ha da poco lasciato il servizio, la sua vita cambia radicalmente. La vista di una blatta in quell’ambiente nudo e spoglio come un minareto o come la camera di un ospedale psichiatrico destabilizza una psiche presumibilmente fragile e sovreccitata e fa crollare inesorabilmente, come un precario castello di carte, la sua apparentemente inattaccabile esistenza, fatta di “ricamo, amore e anima già formata”. La Lispector descrive l’allontanamento progressivo e inarrestabile di G.H. dalla realtà come un “tranquillissimo delirio”, con la blatta che, rimasta prigioniera, col corpo schiacciato a metà nell’anta dell’armadio, fa da muta testimone al lucido farneticare della donna. La blatta fa venire subito in mente, come un riflesso condizionato, Franz Kafka, ma la similitudine tra i due scrittori, al di là del loro essere entrambi ebrei, è solo apparente. In Kafka lo scarafaggio è infatti la metafora di una condizione di esclusione sociale o di alienazione esistenziale, mentre al contrario ne “La passione secondo G.H.” c’è una sorta di sovrapposizione, di immedesimazione tra la protagonista e la blatta (“La verità è che io avevo guardato la blatta viva e in lei scoprivo l’identità della mia vita più profonda”). Se di metamorfosi si può ancora parlare è la “metamorfosi di me in me stessa”. G.H. scende nelle caverne sotterranee, ctonie, del proprio io, e vi ritrova la materia viva, primitiva ed ancestrale, di cui è fatto il mondo. Davanti alla blatta scopre tutto l’orrore, ma anche l’ambiguo fascino, dell’inumano. Allontanatasi definitivamente dalle sovrastrutture artificiali della vita precedente, con il suo ordine, le sue regole e le sue leggi, la donna si ritrova in un non-luogo, in una sorta di deserto psichico, dove non esiste più il passato né il futuro, ma soltanto l’adesso (“Quello che io voglio è l’immediato e senza abbellirlo di un futuro che lo redima, senza abbellirlo neppure della speranza”). Se la trascendenza è un retaggio del passato, ecco allora che non rimane se non una totale immanenza (“Voglio il tempo presente che non ha promessa, che è, che sta essendo”) e l’abbandono all’inumano, al demoniaco. In uno dei pochi momenti lirici del testo, G.H. immagina di aver rubato il cavallo da caccia del re del sabba e di aver galoppato tutta la notte, con incosciente bramosia, nell’inferno della gioia, risvegliandosi la mattina dopo al bordo di un ruscello, senza ricordare assolutamente nulla. G.H. sa di essere stata catturata dal demoniaco e sa che il satanico trotto del cavallo è ormai dentro di lei per sempre. “So che di notte, quando lui mi chiamerà, io andrò. Voglio che sia ancora una volta il cavallo a condurre il mio pensiero. […] Quando, di notte, lui mi chiama verso l’inferno, io vado. Scendo giù come un gatto per i tetti. Nessuno sa, nessuno vede. Mi presento nell’oscurità, zitta e sfolgorante. […] All’alba vedrò noi due esausti presso il ruscello, senza sapere quali sono stati i nostri crimini fino al sopraggiungere dell’alba. Sulla mia bocca e sulle sue zampe la traccia del sangue. Cosa abbiamo immolato?” La sofisticata donna borghese di prima si è ormai trasformata, si è messa a quattro zampe e, strisciando, si è presentata alle porte dell’inferno, scoprendo l’attrazione dell’abominevole, dell’immondo, dell’amorale: “Io ero giunta al nulla, e il nulla era vivo e umido”.
A dire il vero, la protagonista si aggrappa ancora, di quando in quando, a una fantomatica mano da stringere, a un non meglio precisato amore, forse nell’estremo tentativo di impedire la definitiva disumanizzazione, la caduta nel mondo infernalmente libero della blatta, ossia della materia nuda e cruda, privo di orpelli, di regole e di valori. Ma è tutto inutile: per chi ha tagliato definitivamente i ponti con il passato, non c’è più la possibilità di tornare indietro, alla vita precedente, ma solo la discesa, graduale e inesorabile, verso il nucleo più profondo dell’esistenza, e la scoperta, con orrore e allo stesso tempo con incanto, che questo nucleo è neutro, opaco e indifferente (“la vita ha il purissimo sapore del nulla”), proprio come gli occhi della blatta morente che, davanti a G.H., guardano senza più sentimenti, al di là perfino del dolore. La protagonista scopre che “essere vivo è una compatta indifferenza che irradia. Essere vivo è inaccessibile alla più acuta sensibilità. Essere vivo è inumano”. La verità cui è faticosamente giunta G.H. è una verità in negativo, in quanto si riduce a qualcosa che non avrà mai la possibilità di comprendere: “Ciò che sembra mancanza di senso – è il senso. Ogni momento di mancanza di senso è l’esatta spaventosa certezza che lì c’è il senso”. La verità è un enigma, ma la sua spiegazione è solo, nella maniera più sconfortante, la ripetizione dell’enigma stesso. Cessare di capire è allora l’unico modo per capire, cessare di essere è l’unico modo per essere: “quanto meno sono, più vivo, quanto più perdo il mio nome, più mi chiamano, […], quanto più ignoro la parola d’ordine, più compio il segreto”. L’estremo gesto di questa spersonalizzazione, il definitivo suggello alla conquista dell’inumano, è il momento più conosciuto del libro, sicuramente il più intollerabile e disgustoso: in bilico tra follia e realtà, G.H. si ciba della blatta come atto di suprema catarsi nella materia, di superamento di ogni tabù, quasi fosse una blasfema eucarestia. Assistiamo qui al definitivo superamento della morale, anzi alla creazione di una nuova morale, una morale “talmente estranea da non poterla neppure capire e da esserne sconcertata”. In questa morale non c’è spazio per la bellezza, per l’empatia o per la bontà, ma solo per la materialità delle cose, per l’inumano appunto (“L’umanità è fradicia di umanizzazione. […] Esiste una cosa che è più ampia, più sorda, più profonda, meno buona, meno cattiva, meno bella. Sebbene pure quella cosa corra il pericolo di trasformarsi, nelle nostre mani grossolane, in purezza”). Il superamento, il rinnegamento dell’io avviene nel segno di una libertà incondizionata (“infine si era davvero spezzato il mio involucro e io ero senza limite”), anche se questa infinitezza non può che sussistere in un’accezione giocoforza negativa: “Non essendo, io ero. Sino alla fine di ciò che non ero, io ero. Ciò che non sono, io sono. Tutto sarà in me, se io non sarò; perché “io” è appena uno degli spasmi istantanei del mondo”. Al termine di questo agghiacciante deliquio, rimane una negatività talmente profonda, talmente assoluta, da assomigliare a una rivelazione, ma anche alla follia.
Con “La passione secondo G.H.”, Clarice Lispector ha tentato di dare voce all’inesprimibile, di “dire l’indicibile”. Non è solo la protagonista, ma anche la scrittrice, e noi lettori con lei, ad addentrarsi in territori vergini, inesplorati, mai percorsi prima da essere umano. “Dovrò forzarmi di tradurre l’ignoto in una lingua che ignoro. […] Parlerò in quel linguaggio sonnambulo che se io fossi sveglia non sarebbe linguaggio”. Il risultato di questo sforzo è un exploit letterario formidabile, in cui la scrittrice brasiliana fa tabula rasa di tutta la cultura occidentale per descrivere l’afasia, l’alienazione, la crisi dei valori dell’uomo moderno. La Lispector bordeggia i territori della psicosi, ma, paradossalmente, il suo linguaggio non è quello sconnesso, squilibrato della pazzia, non è neppure quello survoltato dell’allucinazione, bensì quello da una parte lucido, preciso e meticoloso (ogni capitolo inizia ad esempio con la frase che aveva chiuso il capitolo precedente, quasi a rafforzare, raddoppiandolo, il suo significato), dall’altra incantato e sublime di chi guarda da altezze vertiginose la lontananza del mondo. Il romanzo è inoltre pieno di riferimenti religiosi: c’è il deserto dell’Antico Testamento, c’è la passione del titolo che richiama quella di Gesù, c’è (lo abbiamo visto) l’eucarestia e ci sono perfino le preghiere (“Benedetto il frutto del ventre tuo”, declama G.H. guardando la materia biancastra che fuoriesce dal corpo della blatta, “benedetta tu sia fra le blatte, adesso e nell’ora di questa tua mia morte”). Dio è citato spessissimo, ma a ben vedere è un dio incomprensibile, un dio che si confonde col nulla o col demoniaco, o forse è lo specchio in cui si riflette l’immagine deformata dell’io (“Che cosa Sei? e la risposta è: Sei. Che cosa esisti? e la risposta è: ciò che esisti”). La Lispector lancia al lettore domande gigantesche, ultraterrene, ma gli nega ogni possibilità di udire una qualche risposta. Tutto il libro è anzi pieno di cortocircuiti logici (“Tutta quella realtà io la vivevo con un sentimento di irrealtà della realtà”; “l’inferno è il dolore come godimento della materia”), che destabilizzano e non ci fanno mai stare in una posizione comoda e sicura. Quello che leggiamo, così astratto e insieme così concreto, non è un’esperienza onirica (anche se, analogamente a un sogno, anche qui si scopre che la logica non ha senso), tanto è vero che tutto si svolge alla luce di una giornata assolata e caldissima. Ciononostante la Lispector, con un coraggio sovrumano, riesce a scandagliare l’inconscio più segreto, remoto e inaccessibile dell’uomo come nessun onirista sarebbe in grado di fare. Il lettore che avrà la forza di resistere a un libro che supera di slancio, con spregiudicata temerarietà, le colonne d’Ercole della letteratura “normale”, per affrontare un ignoto dalle conseguenze pericolose e imprevedibili, godrà alfine, dopo aver rischiato di finire soffocato da una prosa che non lascia un solo attimo di respiro o annientato da una storia quanto mai sgradevole e scabrosa, godrà alfine di un piacere raffinato e ineffabile, in qualche modo simile a quello provato dalla protagonista quando dice: “stavo nell’inferno trapassata dal piacere”.
Indicazioni utili
La blatta non ha sapore
Vorrei regalarvi, con questa recensione, almeno un frammento della gioia limpida e luminosa che questo libro mi ha regalato, anche se è faticoso e stancante, anche se quasi si vorrebbe che finisse quanto prima per riposare la mente e tornare a respirare. Clarice Lispector non è la scrittrice della grazia, come la Woolf, o la scrittrice della forza, come la Weil, ma quella della potenza: in lei la densità espressiva è più violenta della necessità letteraria e la pulsione viva che la nutre non conosce la pace calma di un amen. Lo stesso amen che per tutto il romanzo, senza mai dichiararlo, insegue la protagonista G.H., donna che in un giorno solitario scopre, nell’armadio della domestica, una blatta e che alla fine deciderà, dopo averla ferita ma non uccisa, di mangiare l’insetto. Se la trama è tutta qui, il libro è un percorso d’iniziazione, di ascesi mistica, un’esplorazione di profondità sconvolgenti che la conducono dalla repulsione più spontanea all’accettazione più sofferta, come se in quel liquido bianco e pastoso che esce dall’esoscheletro dell’animale si rivelasse il senso più puro del mondo. E già qui scopriamo il movimento più proprio di questo libro, il suo modulo espressivo: l’antitesi. Clarice Lispector ha superato le colonne d’Ercole del mondo che appare e si fa profeta difficile di un universo che presocratico, primordiale, umido e viscerale, un universo in cui gli opposti trapassano continuamente l’uno nell’altro e dove “Polemos”, padre di tutte le cose è solo l’ultimo gradino prima dell’amore più brillante. E noi seguiamo G.H., come adepti di un culto che ancora non capiamo, perché anche noi, come lei, sappiamo che la vita, così come è, è una prigione di segni e simboli e allora scortichiamola, per trovare in fondo, nel nocciolo della vita, nel nucleo incandescente dell’esistere, il sapore neutro della verità. O ancora, scopriamo che nel cielo più vuoto, abbiamo già oltrepassato la distanza tra il vero e il falso. Il miracolo, ci ricorda Clarice Lispector, è il millimetro che sta tra due millimetri consecutivi.
È celebre il comandamento di Wittgenstein: “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Ecco, l’opera tutta della Lispector, e di questo romanzo in particolare, è una violenza continua dei limiti imposti dal filosofo: Clarice vuole dire l’indicibile, riappropriarsi della materia viva, cieca che anima il mondo, scoperchiare le apparenze dell’umanizzazione e affrontare il profilo neutro delle cose, dimenticare i lineamenti e i dettagli, perché solo nella purezza che i dettagli non permettono si raggiunge il massimo della comprensione. Ecco, prendete una tela di Mondrian, una composizione di quadrati rossi, gialli e blu: questo il linguaggio primitivo (e per questo stesso motivo preverbale) che Clarice ricerca. E ora, come Fontana, tagliate la tela e fissate il muro che sta dietro. Siete arrivati alla radice della poetica di questa scrittrice che, posso dire con tranquillità, è tra le più grandi del secolo scorso. Non è facile, mangiare la blatta, nutrirsi della sua materia bianca e insapore: e G.H. ci racconta tutta la difficoltà, la paura di perdere quanto di umano c’è in lei, il terrore di vivere nel caos, la paura sacra dell’uomo che scopre un abisso di inaudite proporzioni.
“Palerò in quel linguaggio sonnambulo che se io fossi sveglia non sarebbe linguaggio” e ancora “È un silenzio di blatta che guarda. Il mondo si guarda in me. Tutto guarda tutto, tutto vive l’altro; in questo deserto le cose sanno le cose. Le cose sanno talmente le cose che questo… questo lo chiamerò perdono se vorrò salvarmi sul piano umano. È il perdono in sé. Il perdono è un attributo della materia viva”.
“La passione secondo G.H.” è un libro mistico che un lettore imprudente potrebbe perfino cestinare. Ma Clarice è stata onesta, in lei capire è creare. E a ben guardare il titolo è come una citazione dei vangeli. “Dal Vangelo secondo Matteo”, dal “Vangelo secondo G.H." E arrivati a questo punto finalmente capiamo la passione prima avevano scambiato per un furore amoroso. No, qui la passione è quella della via crucis, la stessa che Cristo ha affrontato per scoprire infine, anche lui, Dio e la stessa che affronta G.H. per arrivare a mangiare il bianco informe del mondo. Via crucis che è dolore certo, ma un dolore che è la forma massima dell’amore. In questa sublime e fatale trasformazione, sta il senso del libro e anche il lettore, che ha subito nella lettura la stessa via crucis, orami crocifisso, può finalmente guardare il volto delle cose, essere il volto delle cose: mangiare la blatta è un’Eucarestia. Violentare Dio, per mangiare Dio e alla fine scoprire che si è un’emanazione di Dio anche se non si sa chi è Dio.
Un libro bellissimo, che so, e lo so davvero, non essere per tutti, ma che pure non posso non consigliarvi.