La memoria del vento
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Per non dimenticare
Ci sono libri che sembra siano loro a sceglierci. Mi è capitato con questo romanzo che, mentre mi aggiravo tra gli scaffali della biblioteca alla ricerca di nuove letture, mi guardava attraverso gli occhi di una ragazza il cui volto è stato enigmaticamente diviso tra la prima e la quarta di copertina. Incuriosita, come rispondendo a quello sguardo, ho allora afferrato il volume dal ripiano sotto l’etichetta “letteratura americana”: titolo accattivante, nome dell’autore sconosciuto. Leggendo poi la sinossi sul risvolto, mi sono state sufficienti poche parole – prima guerra mondiale, gendarme turco, colonne di deportati… – per comprendere quale fosse l’argomento, subito confermato dalla nota biografica dello scrittore che sottolinea le sue origini armene.
Al genocidio del popolo armeno mi interessai in modo particolare all’epoca in cui mi ero imbattuta ne “La masseria delle allodole” di Antonia Arslan, libro che ricordo ancora con un senso di grande dolore. Penso che ogni singola opera, sia pure di narrativa, che tocchi tale questione sia molto importante poiché contribuisce ad alimentare la memoria, a far sì che questa schifosa pagina della storia, non certo meno grave di quella della successiva Shoah, non cada irrimediabilmente nell’oblio, come preferirebbe la Turchia; per esperienza diretta, so bene che parlare con un turco del genocidio armeno è pressoché impossibile!
Ecco, l’originalità di questo romanzo consiste nel fatto di affrontare l’argomento facendo addossare un penoso mea culpa alla figura di una delle guardie che scortavano i deportati armeni fuori dal paese tra abusi e sofferenze di ogni tipo. Emmett Conn, cittadino americano, ha più di novant’anni, ma la sua vita è iniziata intorno ai venti; fino ad allora si chiamava Ahmet Kahn ed era un gendarme dell’esercito ottomano. Ferito in battaglia durante la guerra, si era risvegliato privo di memoria in un ospedale inglese sotto le cure di una infermiera americana, la quale, sposandolo, lo portò con sé negli Stati Uniti dove lui poté cominciare una nuova vita, sebbene non avesse più ricordi di quella precedente. Ma il passato è destinato a riemergere proprio quando l’uomo è ormai molto vecchio e malato, riportando a galla il pentimento per ciò che aveva commesso e l’amore nei confronti di una giovane armena, Araxie, a cui, nonostante tutto, aveva cercato di salvare la vita.
Una storia avvincente per tre quarti del libro (mi sono piaciuti, in particolare, i capitoli che rievocano il periodo trascorso ad Aleppo); ho trovato invece l’ultima parte un po’ troppo frettolosa e con un finale che non mi ha convinta del tutto, ecco perché non attribuisco all’opera quattro stelle piene. Comunque, nel complesso, la valutazione è positiva, anche perché il libro, come racconta lo stesso autore nella sua nota conclusiva, è stato scritto a seguito di uno scrupoloso lavoro di documentazione, compreso un viaggio fra Turchia e Siria lungo i tristi percorsi di morte di oltre un secolo fa. Alla fine, immancabilmente, mi sovvengono sempre queste parole:
« Voi che vivete sicuri/ nelle vostre tiepide case,/ voi che trovate tornando a sera/ il cibo caldo e visi amici:/ considerate se questo è un uomo […] Meditate che questo è stato:/ Vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore […] Ripetetele ai vostri figli» (Primo Levi)