La festa dell'insignificanza
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Recensione della Redazione QLibri
inutilmente si cela il teatro vitalizio
A volte ho covato l'immaginario di interfacciarmi ,in occasioni quotidiane,con grandi scrittori o personaggi storici,di volerli al mio fianco in questo tempo attuale e da questo spassoso e surreale immaginario mi nasceva un sorriso interiore di profonda consolazione..chi di noi non l'ha mai,per un momento soltanto,desiderato?
Chiacchierare alla fermata di una metropolitana con Proust dell'inquinamento mentre indossa i suoi guanti canditi e reclama una tuta iperbarica per vivere in questo suo futuro e nostro presente carico di polveri crudeli..
Lui,così ossessionato dai germi....diverrebbe il capo dell'insostenibile pesantezza dei tempi moderni!
Tutto questo per dirvi che in queste burle irreali Kundera mi è sempre stato complice,strizzandomi l'occhiolino.
Anche in quest'ultima sua opera l'autore richiama,momentaneamente all'appello,il grande dittatore Stalin,il focolaio delle sue ferite interiori,per farlo diventare,nella sua immaginativa scenetta,una suocera paranoica da orinatoio facendoci sorridere poiché,in fondo,l'ironia e l'autoironia salvifica privandoci del nostro più tenace attaccamento a noi stessi,concedendoci il segreto recondito della nostra inesistente importanza.
Ebbene si,quel Ceco inconsunto,che ci ha lasciato uno dei libri più conosciuti di sempre,ci regala una “pièce cartacea” breve ma destabilizzante.
Il suo girone umanistico é percorso e si fa percorrere in sette capitoli che sembrano celare l'apertura di quesiti già intrinsechi di risposta,una risposta beffarda e sfuggente che non può non spingerci a valutare la nostra infinita inutilità e destrutturazione.
Sedimenta tra le pieghe un entourage di nichilismo in questo sortito menage composto da cinque personaggi che ruotano sul palcoscenico come marionette ben calibrate,entrando in scena a turno e portando a compimento la sensazione fuorviante di chi muove i loro circuiti.
lo smarrimento lo si percepisce dal concetto di apertura del racconto che inizia cercando il significato di una delle forze primordiali che crea autocoscienza dopo il cibo:l'eros,un eros che é stabile come potenza inconscia ma che si veste di canoni diversificati per sedurci a seconda delle epoche.
Ci spiazza con l'omologazione di ciò che é sempre stato fonte di ammalianti pulsioni,di rottura di pudore nel corso della storia,simbolo dell'amniotica nutrizione,di ciò che é scolpito su di noi come un segno distintivo:l'ombelico.
Le occasioni,tra le pagine,sono molte per buttare sul piatto concetti che annientino e provochino in questo sceneggiato che si muove tra tre ,massimo quattro,scenografie.
Ho letto questo racconto due volte perché un passaggio non era abbastanza generoso per rubare,farmi svelare,afferrare quello che l'autore,burlandosi di me, ha voluto farmi credere depistandomi e vi dirò che il suo fascino é che ancora non ne sono totalmente convinta perché inerme.
Probabilmente la distopia é solo un'utopia che non ha ricordi di se stessa o
forse semplicemente sto dicendo un mucchio di baggianate