Narrativa straniera Romanzi La famiglia Winshaw
 

La famiglia Winshaw La famiglia Winshaw

La famiglia Winshaw

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Ricordate gli anni della Thatcher? E' su questo periodo che Jonathan Coe butta uno sguardo giocoso e selvaggio. Ne esce un agghiacciante affresco socio - politico che rivela sorprendenti analogie con l'attuale realtà italiana. Nell'estate del 1990, mentre il mondo si prepara a entrare in guerra contro Saddam Hussein, un giovane scrittore è al lavoro sulla biografia della famiglia Winshaw. Quasi tutti i suoi membri sono ispirati da una rapacità brutale e totalizzante e, insieme, riescono a dominare gran parte della vita pubblica ed economica britannica. Lungo le vite di questi ameni personaggi vengono così ricostruiti i famosi anni ottanta: un'orgia di violenza, soprusi, ingiustizie provocata dall'assenza di controlli del potere.



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La famiglia Winshaw 2018-11-26 07:18:28 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    26 Novembre, 2018
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UNA FAMIGLIA DIABOLICA

“Questo libro è pieno di passione. Pieno di rabbia, comunque. Se comunica qualcosa è proprio l’odio che io sento per questa gente, è il male che essi incarnano, è la distruzione che hanno portato con sé, facendo uso dei loro interessi acquisiti e della loro influenza, dei loro privilegi e del controllo assoluto e paralizzante su tutti i centri di potere; è come ci hanno messo tutti nella condizione di non nuocere, è come si sono divisi fra loro tutto questo maledetto paese.”

Jonathan Coe è sotto ogni riguardo un autore fazioso, per niente politically correct, e - quel che più importa - ci tiene a farlo sapere a tutti, al punto che non si fa fatica ad interpretare il suo romanzo più famoso, “La famiglia Winshaw”, come un virulento atto di accusa contro l’amministrazione Thatcher, la quale – a suo dire – ha condotto la Gran Bretagna, sia economicamente che socialmente, allo sfascio. Eppure, depurato dalla tara delle ideologie radical, delle polemiche politiche per nulla disinteressate e della facinorosa esagerazione di più di un passaggio, il libro di Coe è apprezzabile perché, come accade anche al cinema con i documentari di Michael Moore, esso ci apre gli occhi su situazioni allarmanti che raramente trovano spazio sui mass media o, se lo fanno, rischiano di trovare, per il modo in cui sono presentate, scarso interesse, se non addirittura insofferenza, nel pubblico. L’idea forte di Coe, quella che costituisce uno dei punti di forza del romanzo, consiste nel creare un plot in cui tutti gli aspetti più “politici” (gli affari sporchi del governo con Saddam Hussein, la riduzione della spesa pubblica in campo sanitario, il ruolo non propriamente imparziale dei mezzi di informazione) si riflettono direttamente sull’esistenza dei protagonisti. Così, tanto per fare due esempi, la morte di Fiona, la sfortunata compagna del protagonista Michael Owen, è dovuta alla innegabile perdita di efficienza del sistema sanitario dopo la decisione di “aziendalizzare” gli ospedali, mettendo al centro delle loro priorità la quadratura del bilancio prima che la tutela della salute dei cittadini; e un altro prematuro decesso, quello del padre di Owen, è più o meno direttamente imputabile alle conseguenze fisiche e psicologiche dovute alle adulterazioni alimentari dell’industria di Dorothy e alle truffe finanziarie coperte dalla banca d’affari di Thomas, il tutto con la scontata connivenza del potere politico.
A simboleggiare l’era thatcheriana Coe mette un’intera famiglia, i Winshaw. I sei membri di essa (il finanziere Thomas, il politico Henry, l’industriale Dorothy, il trafficante d’armi Mark, il mercante d’arte Roderick e la giornalista televisiva Hilary) sono altrettante facce metaforiche di un mostro proteiforme che tutto schiaccia e tutto divora, senza lasciare scampo: esso è, di volta in volta, il cinismo politico, l’arrivismo carrieristico, l’avidità di danaro senza scrupoli, l’ambizione di potere che non si arresta di fronte a nulla, tutte espressioni del regresso (morale prima ancora che economico-sociale) dell’epoca. E come aveva fatto Yehoshua ne “Il signor Mani”, anche Coe risale indietro nel tempo, fino a individuare una sorta di peccato originale nella generazione dei padri (Lawrence Winshaw), con i suoi inconfessabili scheletri negli armadi. Tutti i personaggi della vita di Michael Owen risultano alla fine coinvolti nella saga della famiglia Winshaw: il padre anagrafico e quello biologico, Graham, Phoebe, ecc. Il mondo del protagonista diventa così, con lo steso procedimento retorico visto più sopra (il piccolo utilizzato per esprimere il grande) l’emblema stesso della società inglese (o perlomeno delle sue classi medio-basse), impoverita e depredata dei suoi diritti più elementari da una classe dirigente ipocrita, corrotta e mossa solo dall’ideale del dio denaro. Qualcuno potrebbe muovere all’autore l’accusa di avere esagerato con le coincidenze narrative (tutti quanti i personaggi, per quanto decentrati o marginali essi siano, hanno alla fine in qualche modo un ruolo diretto nella vicenda) e di averle rese oltretutto poco plausibili (certe agnizioni clamorose o certi incontri casuali dopo innumerevoli anni sfidano in fatto di inverosimiglianza le commedie del teatro molieriano). Tale accusa può però essere agevolmente ribaltata, e addirittura portata a merito di Coe, con una interpretazione accorta del romanzo, la quale vede nella famiglia Winshaw la pervasività del Male, la sua diffusione nella società come un inarrestabile tumore maligno che, per aumentare a dismisura il proprio potere, la propria influenza e la propria ricchezza, distrugge implacabilmente le cellule sane del corpo sociale e può essere bloccato solo con una drastica amputazione (la morte violenta dei membri della famiglia).
“La famiglia Winshaw” non è comunque solo un romanzo di denuncia politica e di invettiva sociale: essa è anche un’opera dotata di un’innegabile qualità letteraria, che a tratti raggiunge livelli di autentico virtuosismo. Essa infatti appare come un complesso puzzle in cui tutti gli elementi alla fine si incastrano perfettamente gli uni sugli altri, dando retrospettivamente a ciascun episodio un senso che all’inizio pareva non possedere (ad esempio, l’odore di gelsomino che appare insolitamente in due momenti del prologo a Winshaw Towers, e che dopo circa sei lustri si scopre essere stato involontariamente “emanato” dal detective Findlay Onyx), oppure creando nuovi sbocchi narrativi (la maggior parte dei personaggi vicini a Owen risultano, in una maniera – come abbiamo appena visto – persino implausibile, coinvolti nella storia), o ancora facendo convergere episodi apparentemente autonomi e senza alcun reciproco legame in sorprendenti parallelismi narrativi (la cena in occasione del compleanno di Mortimer, il suicidio del marito di Dorothy ed il tentato omicidio di Graham avvengono tutti in concomitanza di altrettanti momenti topici della vita privata del protagonista). Il culmine di questo procedimento a “incastri” si ha nell’ultima parte del romanzo. In essa gli elementi fino ad allora rimasti “non spiegati” trovano tutti la quadratura del cerchio: il padre naturale di Owen, che aleggiava fino ad allora come un impalpabile spettro nell’esistenza di quest’ultimo, risulta alla fine il vero motivo per cui egli è stato scelto da Tabitha per la redazione del libro sulla famiglia, in quanto era stato il compagno di Godfrey nella spedizione aerea in territorio tedesco finita in tragedia per colpa (ma anche questo lo si scopre in extremis) del tradimento di Lawrence Winshaw; e, soprattutto, i tre enigmatici sogni dell’infanzia di Owen si avverano come in fotocopia (Coe usa addirittura le stesse parole dei sogni per descrivere la realtà), gettando una luce insospettata e quasi medianica sul protagonista.
Arriviamo così a parlare dello stile vero e proprio del romanzo. Se la complicata struttura temporale, con le varie epoche abilmente intrecciate spesso in ordine non cronologico (nei numerosi andirivieni temporali capita di scoprire che Phoebe, protagonista del capitolo dedicato a Roddy, era stata conosciuta da Michael otto anni prima a Sheffield in casa di Joan, e che la stessa Joan era stata due decenni prima la sua compagnia di giochi prediletta), fa venire in mente il Vargas Llosa de “La Casa Verde” o il già citato Yehoshua de “Il signor Mani”, l’approccio pseudo-biografico e finto-documentaristico ricorda vagamente il Böll di “Foto di gruppo con signora”. Infatti le fonti le più varie (diari, interviste, rapporti di lavoro, articoli di giornali e riviste, ecc.) si alternano, spesso con effetti volutamente dissonanti (come nel capitolo di Hillary), con gli episodi in presa diretta, conferendo al tutto un originale effetto di pastiche letterario. Gradualmente, dalla saga familiare o dal libro di memorie quale essa è all’inizio, “La famiglia Winshaw” vira decisamente e sorprendentemente verso il thriller, fino a giungere al parossistico e grandguignolesco capitolo conclusivo. Qualcuno potrebbe, apparentemente a ragione, storcere il naso e lamentarsi di questo inopinato cambio di direzione che assomiglia (come ricorda uno dei personaggi) a un horror di terz’ordine. Ma quello che sembra un difetto è invece una soluzione coerente con lo stile eclettico del romanzo e con la sua struttura a scatole cinesi. Ora, a prescindere dalla sua plausibilità realistica, la tragica notte di Winshaw Towers che Owen si trova a vivere è semplicemente, né più né meno, il film con Connor e la Eaton visto all’età di nove anni che lo ha ossessionato per il resto della sua vita. E la stessa notte d’amore con Phoebe, cui l’ultimo colpo di scena del libro toglie ogni possibilità di futuro, oltre a far parte dello stesso film, è anche uno dei tre sogni fatidici della sua infanzia. Lo stesso vale per la morte di Michael, in cui egli si identifica suo malgrado con il tragico destino del suo idolo Gagarin. Owen, che nel corso di tutto il romanzo subisce costantemente gli eventi, diventa perciò una sorta di medium che ha già predetto – o pre-scritto, vista la sua professione di scrittore - l’esito della storia. Questa considerazione porta a una sorprendente ambiguità: il sogno scivola nella realtà e viceversa e la finzione si intreccia con la vita, fino a creare un’atmosfera in cui non si sa più cosa è vero e cosa no, cosa è reale e cosa invece immaginato o sognato. Come la morte di Fiona è descritta alla stregua di una melodrammatica scena di un film, alla quale assiste un Michael diviso nel duplice ruolo di attore e di spettatore, allo stesso modo gli eventi della fatidica notte conferiscono una fortissima sensazione di irrealtà, che ha l’effetto di acuire allo spasimo la tensione e la suspense narrative e contemporaneamente di frapporre un altro schermo, un’ulteriore diaframma, nel già complesso rapporto autore-lettore. Lo stesso passaggio dalla prima alla terza persona nell’ultima parte del romanzo favorisce questa paradossale sensazione di coinvolgimento-distanziazione, anche in virtù del fatto che l’ultimo capitolo è, come si legge nella prefazione al romanzo incompiuto di Owen, scritto dall’editor, e quest’ultimo non esita ad ammettere di avere assecondato, con la predilezione per le scene più macabre e truculente, i gusti più beceri del pubblico. Alla fine, in questo autentico vortice di pirandelliani capovolgimenti di senso, bisogna ammettere che la scommessa di Coe è stata pienamente vinta. Lo scrittore inglese non si è tirato indietro di fronte agli stereotipi più triviali e grossolani, dando però ad essi una giustificazione narrativa che alla fine non si può non condividere. “La famiglia Winshaw” è sicuramente un romanzo furbo, intrigante come un libro della tetralogia di Malaussene, ma ha una sua incontrovertibile consapevolezza artistica. Coe si comporta cioè come un Dostojevskij il quale parlava sì del Bene e del Male, di Dio e di Satana, e dei problemi della società del suo tempo, ma nel contempo deliziava i suoi lettori con avvincenti trame da letteratura d’appendice, con omicidi, processi e sorprendenti colpi di scena.

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"Foto di gruppo con signora" di Heinrich Boll
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La famiglia Winshaw 2015-11-18 14:00:36 Dartagnan
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Dartagnan Opinione inserita da Dartagnan    18 Novembre, 2015
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Ritratto del tatcherismo

Davvero un grande libro. Coe è riuscito nella difficile impresa di raccontare l'Inghilterra degli anni '80, quella guidata da Margaret Tatcher - tanto decantata oggigiorno - attraverso gli occhi di chi ha subito quel periodo. L'autore ha scavato a fondo, nel torbido, nelle contraddizioni di un Paese, e lo ha fatto attraverso le vicende di una famiglia tanto simbolica quanto emblematica.
Fantastica è l'immagine della casa di campagna dei Winshaw: una sorta di castello fatiscente, che rappresenta la decadenza del Paese e della sua classe dirigente.
Dal crollo del sistema sanitario nazionale al traffico di armi passando per l'introduzione dell'allevamento intensivo, Coe denuncia i limiti e i peccati originali dell'Inghilterra come potenza industriale.
Al di là della qualità del narrato, va sottolineato lo stile con cui Coe ha dato forma alla sua opera: c'è una cura maniacale del dettaglio, tutte le parole sono al posto giusto. Di gran classe anche la sottile ironia british di cui è intrisa tutta la narrazione.
L'aspetto forse meglio riuscito, però, sono i personaggi. Difficilmente ne ho trovati di così veri.
Memorabili le ultime quaranta pagine, dove Coe sbrocca definitivamente, lasciando il lettore interdetto.

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Roth, DeLillo, David Peace
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La famiglia Winshaw 2015-07-08 18:50:16 sonia fascendini
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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    08 Luglio, 2015
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Il lato oscuro del potere

Di solito i libri che contengano attacchi politici mi annoiano e cerco di evitarli
Questo volume invece riesce ad essere caustico verso i danni portati in Inghilterra dall'estremizzazione della linea Tatcher, nonchè severo verso i comportamenti di politici ed economisti che hanno portato al consolidarsi del potere di Saddam Hussein, senza creare colpi di sonno. Anzi l'ho trovato ricco, interessante capace di fornire numerose aspettative e cosa più importante di non deluderle. Il segreto di Coe è stato quello di immaginarsi una famiglia che è stata capace di piazzare qualcuno dei suoi componenti in ognuna delle stanze del potere inglese. Queste persone, oltre a capacità sopra la media sono dotati anche di un'aviditò e di un cinismo agghiaccianti. Queste caratteristiche oltre alla loro tendenza a spalleggiarsi pur di aumentare il potere reciproco fa sì che la loro ascesa in politica, giornalismo, industria bellica ed alimentare sia inarrestabile. Le loro vicende inevitabilmente si intrecciano con le vicende pubbliche del periodo pre-invasione del Kuwait.
L'altro personaggio che attraversa tutto il romanzo è Michael Owen uno scrittore di belle speranze, ma scarsi risultati, chiamato in modo misterioso a scrivere una biografia non autorizzata della famiglia Winshaw.In realtà autorizzata lo è ma da una zia rinchiusa da decenni in un manicomio. E' attraverso le sue ricerche che conosceremo i membri della famiglia coi loro successi e le loro bassezze.
Quindi un libro che parla di politica e che ci racconta la saga di una famiglia. No, perchè ci parla anche delle vicende familiari ed affettiva di Michael, che poi scoprirà che la sua vita è stata influenzata non poco dai Winsham. Infine un'incursione nel giallo con una parte presa in prestito da Dieci piccoli indiani. Il finale però Coe non lo ha chiesto ad Aghata Christie, lo ha scritto da solo ed è stato capace di chiudere in modo inaspettato un grande libro.

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La famiglia Winshaw 2014-02-18 19:28:19 annamariabalzano43
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    18 Febbraio, 2014
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La famiglia Winshaw di jonathan Coe

“La famiglia Winshaw” di Jonathan Coe fu pubblicato nel 1994 - un romanzo geniale, un compendio di tutta la migliore tradizione letteraria britannica.
Il testo è diviso in due parti , precedute da un prologo che introduce i membri della famiglia riuniti nella dimora avita, le Winshaw Towers, luogo sinistro, testimone delle sfrenate ambizioni e delle spregiudicate mire dei suoi abitanti.
Perché il lettore non si confonda tra i numerosi personaggi componenti della famiglia, Coe ha inserito all’inizio di queste pagine introduttive un utilissimo albero genealogico.
La prima parte del romanzo è la più lunga e la più complessa. La scena si sposta dalla dimora di famiglia e si concentra sui singoli personaggi, sulle loro vite e le loro abitudini. Ad un capitolo dedicato ad un preciso periodo storico che inizia con l’agosto del 1990, si alterna un capitolo per ognuno dei discendenti Winshaw. Con questo espediente Coe raggiunge un duplice scopo: quello di introdurre il personaggio di Michael Owen, lo scrittore che dovrebbe raccontare la storia della grande e potente famiglia e quello di fare uso di diverse tecniche narrative: il racconto in terza persona con un punto di vista esterno alla vicenda, la narrazione affidata a un io narrante e persino quella diaristica così cara a Defoe. Il cambiamento dei punti di vista rende più vivace e interessante la descrizione dei fatti. Con estrema abilità Coe riesce infine a far coincidere e culminare vicenda e personaggi in un unico quadro sintetico.
Siamo di fronte a un’impietosa critica di tutto l’establishment britannico: la satira di Coe raccoglie la mordace lezione del Swift dei Gulliver’s travels pur senza arrivare al paradosso della sua “Modesta Proposta”; ripropone, nello stile dello Sterne del “Tristram Shandy” una galleria di personaggi- simbolo di istituzioni e centri di potere corrotti e inefficienti: Hilary rappresenta l’uso spregiudicato e corrotto dei mezzi di informazione, Henry l’opportunismo senza scrupoli della politica, Roddy è l’ignobile ricco mercante d’arte che abusa del suo potere per ingannare un’aspirante pittrice, con Dorothy si allude alla disonestà e alla crudeltà con cui si può gestire un’impresa, Thomas rappresenta lo sciacallaggio esistente in certi ambienti del mondo della finanza e infine Mark è la dimostrazione di come si possano chiudere gli occhi di fronte a misfatti e stragi, torture e persecuzioni a opera di dittatori spietati, in nome del profitto.
La seconda e ultima parte del romanzo si svolge di nuovo nella dimora di Winshaw Towers, che diviene un grottesco microcosmo dell’intera società umana. Qui infatti si riuniscono di nuovo i membri della famiglia con il pretesto della lettura di un testamento e il romanzo si trasforma da feroce satira socio-politica a giallo nella scia della più raffinata tradizione dell’ Agatha Christie di “Dieci piccoli Indiani”. E’ possibile trovare anche qualche riferimento al Goldfinger di Ian Fleming. Né mancano momenti ansiogeni che ricordano alcune situazioni descritte dall’americano Edgar Allan Poe, che tanta influenza ebbe sull’opera di Conan Doyle.
“La famiglia Winshaw” è dunque un romanzo complesso, ma piacevolissimo. La conclusione lascia stupiti. Un romanzo nella migliore tradizione britannica.

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La famiglia Winshaw 2014-02-09 21:35:01 pierpaolo valfrè
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pierpaolo valfrè Opinione inserita da pierpaolo valfrè    09 Febbraio, 2014
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La famiglia Winshaw

La famiglia Winshaw (titolo originale: What a carve up!) è un romanzo scritto da Jonathan Coe nel 1994.
E’ anche una sassata contro alcuni guasti prodotti dalla dottrina Thatcher. Vent’anni dopo, quando la Lady di Ferro è ormai passata a miglior vita, il bersaglio ha perso d’attualità, ma la forza della sassata rimane intatta.
E poi, a ben vedere, più che la Thatcher, vengono presi di mira alcuni tipi umani che sul thatcherismo hanno basato la loro fortuna, personaggi avidi, calcolatori, senza scrupoli.
Si tratta comunque di un romanzo, non di un saggio politico, quindi non ci si può aspettare fini analisi sociologiche o sottili distinzioni; la “maschera” contro cui vengono scagliate le pietre deve essere ben riconoscibile.
Il termine che userei per sintetizzare questo romanzo è “orrore”.
L’orrore parte adagio, avvolto in un alone di mistero su fatti accaduti durante la seconda guerra mondiale. Si insinua in una cena all’inizio degli anni ’60, tenuta nella sinistra Winshaw Tower, che ci fornisce l’occasione di conoscere tutta la famiglia al gran completo: ognuno dei suoi membri contribuisce a suo modo a rendere plumbea e sgradevole l’atmosfera.
Poi l’attenzione si sposta su una piccola e modesta famigliola, dove troviamo l’io narrante Michael Owen ancora bambino durante una festa di compleanno in compagnia di padre, madre e nonno. Seguiamo la loro giornata trascorrere nella tenera e dolce felicità velata di tristezza che è propria dei semplici. Michael è un fan di Yuri Gagarin, il primo uomo a volare nello spazio. Casualmente la famigliola in gita trova una locandina di un cinema , dove si preannuncia che al termine della commedia horror Sette Allegri Cadaveri si sarebbe proiettato “Yuri Gagarin, il film russo ufficiale a colori”.
La trama e i personaggi di Sette Allegri Cadaveri (titolo originale: What a Carve Up!, come il romanzo, la cui traduzione in questo contesto potrebbe essere "Che Macello!") da quel momento rappresenta un fiume carsico che accompagna la narrazione per riemergere con prepotenza nel pirotecnico finale.
Ma prima occorre attraversare gli anni ottanta e passare attraverso una grande varietà di orrori. Il mercante d’armi, il banchiere vizioso e senza scrupoli, il politico cinico e amorale, l’imprenditrice avida e spietata, la giornalista prezzolata e spregiudicata.
E pagine piene di orrore sono anche quelle dedicate ai disastri provocati dai tagli alla spesa sanitaria, agli ignobili traffici politici e mercantili che gravitano attorno a Saddam Hussein e all’Iraq, agli allevamenti intensivi di bestiame, con annesse cattiverie e mostruosità. Le pagine dedicate alla “moderna” industria alimentare puntano dritto allo stomaco e colpiscono duro.
Lo stesso Michael percorre la sua personale valle orrida, fatta di ossessioni maniacali, persiane abbassate, aria viziata e avanzi di cibo. Il suo destino e quello dei Winshaw si incrociano più volte. Soprattutto la sua vita si incrocia e si sovrappone al film What a Carve Up! e alla storia di Yuri Gagarin.
Non a caso,una volta che l’orrore raggiunge lo zenit sciogliendosi nel grottesco, il romanzo si conclude con un capitolo emblematicamente intitolato “con Yuri verso le stelle”.
Jonathan Coe si diverte a fare il gran burattinaio e infierisce contro le maschere che più disprezza. Qua e là c’è un pizzico di autocompiacimento di troppo nell’esibire il perfetto sincronismo degli ingranaggi.

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