La donna che mi insegnò il respiro
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Ayad Akhtar è nato a Milwaukee, Wisconsin, il 28 ottobre 1970 in una famiglia di immigrati pakistani. Ha studiato teatro alla Brown University (lavorando poi in Europa con il grande maestro del "teatro povero" Jerzy Grotowski) e cinema alla Columbia University, realizzando dei corto e mediometraggi vincitori di numerosi premi. Ha recitato e collaborato alla sceneggiatura di The War Within, film indipendente su un terrorista islamico che ha debuttato con notevole successo al Toronto Film Festival nel 2005. La donna che mi insegnò il respiro è il suo primo romanzo.
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Opinioni inserite: 3
Il senso di colpa
Il romanzo racconta le vicissitudini dell'animo inquieto di un adolescente, attraverso i suoi occhi spalancati sui ricordi. Le sue emozioni si intrecciano con la vita di una donna, dalla bellezza magnetica ed aggressiva. Ma il libro è una buona occasione per riflettere su tanti temi: la condizione femminile nella cultura musulmana, il significato della preghiera, indipendentemente dalla religione, il rimorso, il senso di colpa, il senso del dolore. Proprio attraverso qualcosa di aspro, vuoto ed indefinibile che strepita dentro il cuore di questo ragazzino si riesce a comprendere quanto è importante buttare fuori il dolore, per non trattenerlo nell'anima, per non identificarsi in lui e per poter ascoltare il proprio respiro ed il proprio silenzio.
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Uno sdolcinato clichè
Per riassumere brevemente ciò che ho tristemente trovato in questo romanzo, userò una sola parola che cercherò di approfondire: clichè.
Sì, perchè questo libro è uno stereotipo unico: la storia è banale, scontata (il finale lo si intuisce fin dalle prime pagine) e molto prolissa e ripetitiva, oltre che terribilmente lenta.
Più della metà del libro è costituita praticamente da preghiere, versetti e interpretazioni del Corano e le poche parti narrative sono talmente sdolcinate, stucchevoli e melense che fanno venire il diabete.
Non sono riuscita ad amare nessuno dei personaggi: all'inizio tutti pieni di sorrisi, risate (tanto che sembrano usciti dalla pubblicità con le famiglie del Mulino Bianco) e poi alla fine non fanno altro che piagnucolare e commiserarsi come dei poveri sfortunati. E tutto ciò l'ho notato prevalentemente nel protagonista che, com'era prevedibile, mi è risultato subito insopportabile.
In questa cornice in stile "Baci Perugina" naturalmente l'affresco storico e sociale è inesistente ed è così difficile immaginarsi il contesto.
Caro Ayad Akhtar, se volevi scrivere un romanzo drammatico non dovevi esagerare rendendolo troppo drammatico, perchè così finisce per sembrare surreale, oltre che una trovata commerciale per vendere tante copie (io adoro le storie ricche di sentimento e sensibilità, ma leggendo questo libro ho avuto la triste impressione di trovarmi davanti ad un pieno sfruttamento commerciale).
Sono rimasta molto amareggiata e insoddisfatta di questa lettura che per me aveva tutte le premesse per essere piacevole.
L'unica cosa bella che ha è la copertina e basta.
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La donna che mi insegnò il respiro
È Hayat, ragazzo americano di origini pakistane, che ci racconta la sua storia, di quando, non ancora adolescente, viene iniziato dall'affascinante Mina alla dottrina islamica. Lei è un amica della madre di Hayat, giunta negli Stati Uniti con un figlio piccolo dopo una vita di rinunce e maltrattamenti in Pakistan, assoggettata da chi la costrinse nei panni di madre e moglie sottomessa, e non accettava che una donna coltivasse la propria cultura. Grazie alla famiglia di Hayat, la donna trova ospitalità in America, porta con sé una genuina e personale fede islamica, lontana dal fondamentalismo che le ha causato tante difficoltà in vita, ma forte a tal punto di iniziare allo studio del Corano il piccolo protagonista. Come se fosse perseguitata da una maledizione, la donna plasmerà un giovane fondamentalista islamico, Hayat sarà travolto dalla lettura coranica prendendo alla lettera ogni singolo verso. L'allievo in vita si rivolterà contro la maestra, rea di non seguire l'insegnamento delle sacre scritture instaurando rapporti personali con un ebreo. Insospettatamente sarà proprio il piccolo Hayat a distruggere la seconda vita americana di Mina.
Come il protagonista del suo romanzo, anche l'autore Ayad Akhtar è di origini pakistane ma ha sempre vissuto negli Stati Uniti e probabilmente nessuno meglio di lui potrebbe raccontarci la realtà delle comunità islamiche (pakistane nel caso specifico) negli States. Akhtar riesce a mostrarci le caratteristiche e le contraddizioni in seno a una delle tante sottoculture americane, di come la diffidenza per il diverso, il razzismo e la ceca fede fondamentalista possano portare a conseguenze drammatiche, se non in un contesto Nazionale come quello statunitense, certamente su un piano privato delle singole persone.
Nella prefazione sul risvolto di copertina è scritto tra le altre cose “Se guardando il telegiornale ti chiedi perché il medio oriente è in rivolta, leggi questo libro” firmato Danny Roszenweig. Non posso che dissentire almeno in parte da questa affermazione, il fondamentalismo islamico, nella maggioranza dei conflitti mediorientali, non è la causa scatenante ma il tragico effetto e degenerazione di disastrose politiche internazionali, nelle quali spiccano in primo piano i paesi anglosassoni d'occidente. Indubbiamente leggendo questo libro ci facciamo un idea di quanto sia allo stesso tempo insensata e pericolosa la ceca fede a una dottrina: prendendo alla lettera il corano Hayad rovina la vita di Mina, sua maestra di vita, prendendo alla lettera il corano molti leader arabi aizzano le folle contro il “progresso occidentale” e il nemico storico Israele. L'ebreo è proprio il primo destinatario dell'odio esposto nel romanzo, nonché tra le vittime della vicenda.
Penso che l'insegnamento che si può trarre dalla lettura di Akhtar sia molto importante, la battaglia da compiere contro chi si arrocca dietro dottrine che impongono comportamenti che difatti ledono i diritti umani e civili non deve essere in alcun modo militare, causerebbe soltanto un rafforzamento degli estremismi, ma culturale. Lo stesso Hayat del romanzo, ormai studente universitario, si apre all'analisi critica della dottrina musulmana. Come Mina, si può essere buoni musulmani senza eccedere nell'irrazionalismo, si può essere buoni cristiani, ebrei, induisti o quant'altro, senza eccedere nel fondamentalismo e senza calpestare il prossimo.