La casa verde
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UN AFFASCINANTE ROMANZO-PUZZLE
Già dalle incalzanti pagine del prologo, che descrivono il “rapimento” di due bambine indios da parte delle suore missionarie di Santa Maria de Nieva e dei soldati che le scortano, si chiarisce la straordinaria novità ed originalità dello stile di Vargas Llosa: la simultaneità delle azioni, che si intrecciano all’interno della stessa frase senza che neppure la punteggiatura intervenga a dividerle, esprime alla perfezione la concitazione dell’episodio, magistrale esempio di scrittura in tempo reale, quasi si trattasse della traduzione letteraria di un piano sequenza cinematografico. La prosa di Vargas Llosa usa spesso metodi di derivazione cinematografica: a volte i tempi della narrazione si confondono e i flashback si intrecciano al presente senza alcun preavviso; altre volte a legarsi indissolubilmente tra loro in un complesso montaggio parallelo sono azioni diverse, distanti spazialmente oltre che cronologicamente; altre volte ancora assistiamo a monologhi interiori che hanno una grande affinità, oltre che con lo “stream of consciousness” di joyciana memoria, con le ben note soggettive filmiche in cui la macchina da presa assume il punto di vista del protagonista. Nelle oltre trecento pagine de “La Casa Verde” c’è un incredibile alternarsi di registri stilistici, che rende la lettura stimolante e ricca di spunti critici.
Ma nel romanzo di Vargas Llosa c’è di più. Anzitutto, la storia, o meglio le tante storie (di don Anselmo, di Fushia, di Lalita, di Bonifacia, ecc.) de “La Casa Verde” non hanno un andamento cronologicamente rettilineo. Se fosse stato un libro normale, avremmo probabilmente letto una saga generazionale affollata di personaggi: interessante e coinvolgente, senza dubbio, con tutti i suoi drammi e le sue passioni, ma nulla più di quello a cui tanta letteratura latino-americana ci ha abituato. Invece, Vargas Llosa “inventa” la non cronologicità degli avvenimenti, la quale rappresenta il vero valore aggiunto de “La Casa Verde” rispetto a tanti altri romanzi coevi. Presente e passato si intrecciano infatti in continuazione: in un capitolo un personaggio ci viene presentato nella sua situazione attuale, mentre in quello dopo c’è un improvviso salto indietro nel tempo, e, come se ciò non bastasse, lo stesso personaggio non è facilmente identificabile come tale perché, come capita con il sergente-Lituma e con Bonifacia-la Selvatica, ha magari un nome affatto diverso. “La Casa Verde” è un puzzle molto elaborato, il cui senso complessivo si comprende solo lentamente, tessera dopo tessera, capitolo dopo capitolo, spesso e volentieri attraverso un processo a comprensione ritardata (ad esempio, che la Chunga sia la figlia di don Alfondo lo si capisce chiaramente solo nelle ultime pagine), anche se qualche volta (ad esempio sulle origini della Casa Verde) ne sa più il lettore dei personaggi del romanzo.
Tutto ciò sarebbe probabilmente poca cosa se questo faticoso andirivieni temporale fosse usato esclusivamente per motivi estetici. Invece, il vedere i personaggi in momenti diversi della loro vita, conoscere il loro futuro prima del loro passato, o il loro passato congiuntamente al loro presente, determina un diverso atteggiamento morale nei loro confronti, permette di valutare le loro (spesso cattive) azioni in maniera più umana e comprensiva. Tutti quanti infatti si portano dietro un pesante fardello di dolori, di sensi di colpa, di disgrazie, spesso ignoto ai più, che li segna profondamente e irrimediabilmente, e la contemporaneità narrativa di passato, presente e futuro è lo stratagemma che consente all’autore (e con lui al lettore) di sfumare, e spesso invertire, l’iniziale giudizio etico di condanna, sostituendosi al punto di vista ubiquo e onnisciente di Dio. In questo modo, anche personaggi apparentemente malvagi come il Pantacha, Lituma e Fushia, diventano meno negativi ai nostri occhi quando veniamo messi al corrente delle loro sofferenze remote oppure ancora di là da venire. Da quanto detto deriva anche il tono malinconico del romanzo. La gioia per le nozze di Bonifacia e del sergente è infatti guastata dalla consapevolezza che la ragazza diventerà una prostituta e il marito andrà in prigione per la roulette russa con Seminario, mentre la dolcezza della storia d’amore tra Lalita e Nieves si stempera nel dolore delle disavventure future e nella prosaica immagine della splendida ragazza conosciuta all’inizio del romanzo che si trasforma nella grassa e butterata moglie del Pesado. Persino Fushia, che sembrava l’incarnazione stessa del male, riesce a catturare la nostra compassione, quando lo vediamo ridotto dalla malattia ad una larva umana, e il suo ossessivo scavare nella sabbia con l’unico piede sano è un gesto di straordinaria tristezza e di nostalgia per una vita ingiusta e incapace di mantenere le sue promesse.
Una grande novità, almeno per il lettore europeo, è rappresentata dall’ambientazione. Quattro sono gli scenari del romanzo. Il primo, che rimane sempre fuori campo, è Lima, la capitale lontana, centro del potere e simbolo della civiltà, che pochi personaggi hanno visto e che i più si limitano a sognare. Il secondo è Piura, città dove il progresso porta poco alla volta cinema, automobili e strade asfaltate, ma anche città al di fuori della quale c’è l’inospitale deserto e dentro cui la Mangacheria si ostina anacronisticamente a resistere all’avanzata della modernità. Il terzo è Santa Maria de Nieva, villaggio che sorge ai margini della giungla, abitata da “cristani” e “pagani” in precaria convivenza e avamposto estremo della civiltà grazie alla presenza della missione e del commissariato. Infine, ad un grado zero di civilizzazione, c’è la giungla selvaggia ed ostile, in cui mercanti senza scrupoli, banditi e rappresentanti dello Stato e della Religione fanno continuamente razzia di beni e di persone. Al di là delle indubbie notazioni pauperiste e terzomondiste che introduce nel romanzo, senza per questo trasformarlo mai in romanzo politico, Vargas Llosa sa descrivere meravigliosamente questi ambienti, e quasi sentiamo sulla pelle la pioggia di sabbia che il vento porta ogni giorno, immancabilmente, a Piura e i morsi delle zanzare e l’umidità intollerabile che rendono così penosa la vita di Santa Maria de Nieva.
Grande scrittore di posti e di paesaggi, Vargas Llosa non è da meno nella descrizione dei personaggi. Alcuni di essi sono davvero indimenticabili, per la grande umanità e verità psicologica con cui sono disegnati e per l’immediatezza ed il realismo con cui si muovono e, soprattutto, parlano (dai suoni gutturali degli indigeni ai borbotti irosi di padre Garcia nell’osteria di Angelica Mercedes fino alle sconnesse parole di seduzione pronunciate da don Anselmo nei confronti della piccola Antonia). Tutti i personaggi sono caratterizzati benissimo, anche quando (come Aquilino, il Pesado, il Joven Alexandro, il Pantacha o suor Angelica) hanno a disposizione solo poche pagine o addirittura poche righe per mettersi in evidenza. Di molti tra essi rimangono però impresse, più dei memorabili ritratti, alcune singole, folgoranti immagini capaci di stagliarsi vividamente, indelebilmente nella memoria: gli occhi di Bonifacia come bestioline verdi che scrutano sospettosamente, lei nata nella selva, il nuovo ambiente nel quale è stata catapultata dopo il matrimonio, il lamento di Lalita come il grido di un gufo quando si vede portare via il marito dalle guardie, la gentilezza ombrosa e selvatica di don Anselmo quando si aggira per le chicherias di Piura, e tante altre ancora, autentiche perle di un romanzo capace di sorprendere ad ogni pagina.